Appunti di NeoEcologia / Estinzione

20 Gennaio 2020

L’estinzione affascina. È il grande silenzio, la dolce morte, la fine delle sofferenze, l’immenso nulla che fa risuonare il cosmo, le infinite possibilità e l’indicibile noia, l’ozio eterno, ci rimbalza nell’immortalità di cui solo gli dei sono depositari, è un vortice in cui eternità e attimo possono identificarsi, una delle più seducenti maschere della morte. La lezione è che ad ogni estinzione corrisponde uno scatto evolutivo, la vita che resta si riorganizza in modo diverso, spesso più complesso, l’estinzione serve alla vita per rinascere più forte. Le specie scomparse hanno un ruolo speciale nel nostro immaginario, rassicurano e intimoriscono, l’estinzione è uno specchio, ci riflette nel paesaggio degli esseri viventi costringendoci non solo a confrontarci col nostro ruolo nell’immaginario dell’Antropocene in cui ci vediamo con sgomento protagonisti dei cambiamenti dell’intero pianeta, ma soprattutto a considerare la nostra, di estinzione. 

 

L’idea dell’estinzione ha una data di nascita. Nel mondo della creazione divina, che intere specie potessero scomparire nel nulla non era semplicemente concepibile e le inclassificabili ossa e resti provenienti da un passato oscuro entravano di diritto nella rassicurante categoria del bizzarro che riempiva le Wunderkammer dei facoltosi collezionisti di stranezze. È questo il panorama quando, il 4 aprile 1796, Georges Cuvier presenta all’Istituto di Francia il resoconto Mémories sur les espéces d’elephant vivants et fossiles. È la prima volta che si ammette l’esistenza di specie che non esistono più. Cresciuto leggendo Linneo e Buffon, Cuvier studia Storia naturale e Anatomia comparata all’Accademia Carolina di Stoccarda e confrontando crani e mascelle di elefanti moderni con quelle di un mammut siberiano e uno americano, giunge alla conclusione che si tratta di specie diverse. Cuvier scopre che la vita sulla terra ha una storia e di fatto inventa una nuova disciplina, la Paleontologia. Iniziando a catalogare ossa e resti di animali che non esistono più, apre le porte a un passato remoto fino ad allora nascosto dalle nebbie della fede e inaugura un immaginario nuovo di zecca. Se ne accorge subito Balzac, che parla di Cuvier come del “più grande poeta del nostro secolo” perché in grado di ricostruire mondi scomparsi partendo da un dente. Cuvier intuisce che il nostro mondo è solo l’ultimo di un ciclo di azzeramenti e nuove rinascite.

 

 

In realtà siamo immersi in una “estinzione di sfondo”, le specie nascono e scompaiono in continuazione dall’inizio della vita, ma quantificarla è impresa ardua, ci ricorda Massimo Sandal che, forte di un dottorato in Biofisica sperimentale e uno in Biologia computazionale e padrone di uno stile asciutto e preciso, è autore del formidabile La malinconia del mammut, uscito nel settembre 2019 per Il Saggiatore, in cui fa il punto su una delle parole chiave dell’immaginario dell’Antropocene, ricordandoci che quando sono scomparsi l’ultimo pterosauro o l’ultimo trilobile, con loro sono svanite strategie di vita, linee evolutive lunghe centinaia di milioni di anni che sviluppavano soluzioni uniche a un problema che conosciamo bene: il problema di esistere. Questo e nient’altro fanno le forme di vita e circa il 99 per cento di quelle esistite è svanito. Sono cifre che danno il capogiro se si prova a immaginare quante possibilità, quante soluzioni, esperimenti, forme differenti ha praticato la vita per svilupparsi e proseguire. Una specie di mammifero nasce, prolifera e scompare in un milione di anni. Statisticamente, la frequenza con cui le specie nascono e scompaiono è la stessa, con un leggero vantaggio sulle nascite, ma per una legge che i matematici chiamano gambler’r ruin, a lungo andare è certo che tutte prima o poi si esauriscano. Così è stato per i mammut, scomparsi in Eurasia, riuscirono a sopravvivere nell’isola di Wrangler dell’oceano Artico per 10.000 anni dove alla fine, 4.000 anni fa, gli ultimi esemplari morirono sotto i colpi ciechi della deriva genetica. 

 

Negli anni Sessanta del Novecento fa il suo ingresso nella comunità scientifica l’espressione “estinzione di massa” e vent’anni dopo i paleontologi David Raup e Jack Sepkoski fanno il punto incrociando i dati a loro disposizione e individuando quelle che da allora sono considerate le cinque estinzioni di massa più importanti nella storia della vita del nostro pianeta, precedute da tre grandi sconvolgimenti che hanno messo a dura prova la resistenza dell’inizio della vita. Vediamole. 

- 2,33 miliardi di anni. Catastrofe dell’ossigeno. I cianobatteri scoprono come usare l’acqua in cui sono immersi, la spezzano per riuscire a utilizzare l’altra cosa che hanno in abbondanza, la luce, e inventano la prima forma di fotosintesi. L’idrogeno si accumula nella cellula, l’ossigeno se ne va e l’atmosfera comincia a riempirsi di un gas tossico per la maggior parte delle forme viventi di quel periodo che muoiono irrimediabilmente, sopravvivendo solo in minuscole nicchie ambientali prive del gas letale.

 

 

Chi sopravvive impara a usarlo inventando la respirazione. L’accumulo dell’ossigeno nell’atmosfera provoca un altro effetto, quello di trasformare il metano in anidride carbonica, i cieli diventano azzurri e la temperatura comincia a scendere in maniera tanto vertiginosa che l’intero pianeta diventa un deserto di ghiaccio dando origine al secondo grande sconvolgimento. Nel corso dell’evoluzione i cianobatteri sono accolti da altre cellule più complesse iniziando una simbiosi che li porta a trasformarsi in quelli che oggi sono i cloroplasti, l’organo che ha la funzione della fotosintesi nelle cellule delle piante.

- 715/579 milioni di anni. Snowball Earth. In questo periodo la terra congela tre volte quasi per intero. I ghiacci arrivano quasi all’equatore, la terra sembra una palla di neve. 

 

- 541 milioni di anni. Estinzione della fauna di Ediacara, l’alba della vita animale complessa. Più di trenta milioni di anni era durato il regno di Ediacara. Per la prima volta, la vita sulla Terra si organizza in sistemi multicellulari complessi, ma non sono i nostri, quelli da cui deriviamo noi, tanto che tutt’ora non riusciamo a leggerli. “Non c’è nulla a cui dare un nome, a cui attribuire una funzione. Il nostro vocabolario, i concetti con cui pensiamo le forme viventi, cessano di avere senso.” Come immaginare un mondo inimmaginabile? Come uscire dalle forme stesse che strutturano il nostro modo di pensare e quindi di sognare e immaginare? Come pensare l’impensabile? Riusciamo a ridare vita coi nostri sistemi di pensiero a un periodo durato oltre trenta milioni di anni? Il nostro misero Antropocene dura a malapena 300.000 anni, volendo considerare il giorno in cui il nostro progenitore si divise dagli altri animali arriviamo forse a sei milioni di anni, e riusciamo a malapena a immaginare come potesse essere la sua giornata, ma già la sua esistenza era molto simile alla nostra, fatta di caccia, di predatori e prede, di difesa e attacco, il tipo di vita che è sorto dopo che il popolo di Ediacara, silenziosamente come era vissuto, se n’è andato. Come immaginare un mondo senza artigli, zampe, mandibole, unghie, occhi, pinne, ali? Su come vivessero ci sono solo ipotesi, naturalmente. Forse assorbivano batteri ed esseri unicellulari direttamente dalla superficie di cui erano provvisti, ma si può dire che li mangiavano come concepiamo noi l’atto del magiare? Ha senso cercare di capire se erano animali o piante, due macrocategorie che appartengono al nostro mondo? Come mai il loro lungo regno è finito? Vivevano nel fondo degli oceani o si muovevano? e come? Un’ipotesi dice che fu l’arrivo delle zampe a distruggerli, riusciamo a immaginarlo? Sta di fatto che è da qualche sopravvissuto di quel popolo che la vita come la conosciamo è continuata, sviluppando altre caratteristiche più adatte a un ambiente che probabilmente si è modificato mettendo fine a una delle possibili strade che l’esistenza ha sperimentato. 


Dopo questi eventi, vengono le cinque grandi estinzioni individuate da Raup e Sepkoski:

- 444 milioni di anni. Fine Ordoviciano. Scompare l’86% delle specie marine. 

- 374/359 milioni di anni. Fine Devoniano. Una serie di estinzioni ravvicinate, 15 milioni di anni fra la prima e l’ultima. Scompare la metà delle specie. Grosso impatto sui vertebrati, fondamentale nel plasmare la vita come la conosciamo, dopo, i pesci conquistano i mari e i vertebrati terrestri si diffondono definitivamente. 

- 253/253 milioni di anni. Fine Permiano. L’apocalisse. Si estingue il 90% della vita nei mari e il 70% sulla terra. 

- 201 milioni di anni fa. Fine Triassico. Fa piazza pulita della grande varietà di rettili e provoca un calo della biodiversità negli oceani con la scomparsa del 30% delle specie. 

- 66 milioni. Fine Cretaceo. Dura solo un giorno, la terra viene colpita da un asteroide di 10/20 Km di diametro in quello che ora è il Golfo del Messico. È quella dei dinosauri, di cui si salva solo un piccolo gruppo che darà vita agli uccelli, sopravvissero probabilmente perché in un mondo in cui tutto era bruciato riuscirono a nutrirsi dei semi rimasti sotto il terreno sviluppando uno strumento che divenne il becco. 

 

C’è un immaginario che si aggira fra di noi a volte strisciando, altre urlando, si chiama sesta estinzione di massa e gira voce che siamo noi umani la causa. Siamo noi l’asteroide, anche per la velocità con cui stiamo agendo. Nel 2005 il Millennium Ecosystem Assessment delle Nazioni Unite riportava: “Negli ultimi 50 anni gli esseri umani hanno cambiato gli ecosistemi più profondamente ed estesamente che in qualsiasi altro periodo della storia umana”. Ormai tutti sanno che gli insetti sono calati del 40%, la biomassa dei mammiferi selvatici dell’82%, una specie su quattro delle esistenti è a rischio scomparsa e tra i gruppi più colpiti ci sono le piante, che hanno un tasso di estinzione 500 volte superiore al normale. Sappiamo che il 75% delle terre emerse e il 66% degli oceani sono significativamente alterati dalla nostra presenza. È una litania che sentiamo quotidianamente dai media mentre comodamente al caldo nelle nostre case confortevoli prepariamo da mangiare, ci vestiamo per andare in ufficio, infiliamo le chiavi nel cruscotto del nostro suv, magari elettrico per salvare il pianeta. Non ci tocca più di quanto non faccia una canzoncina fastidiosa, basta cambiare canale e il cielo è sempre più blu, grazie ai cianobatteri. 

 

 

Forse se finisse il caffè o la benzina o qualche altra cosa più vicina alla nostra vita quotidiana saremmo più toccati. È quello che ha pensato Mike Pearl, un giovane giornalista americano a caccia di notizie sulla bocca di tutti che, visto che l’estinzione tira, ha voluto raccogliere in un libro, Il giorno in cui tutto finisce (Il saggiatore 2019), alcune previsioni tra le più disparate, dalla fine della monarchia nel Regno Unito alla fine dei pesci nel mare, passando per alcuni tra i più classici incubi dei nostri tempi, come il blocco totale di Internet. In questo caso, Pearl ci fa notare come in realtà tutto il funzionamento della rete del World Wide Web si basa su una rete di cavi di comunicazione transnazionale, praticamente lo stesso che usiamo dai tempi del telegrafo. I cavi fondamentali sono solo undici, dislocati in tutto il mondo, la maggior parte dei quali passa sotto i mari. Tutto molto diverso dall’immaginario cloud che ognuno di noi ha, tanto che è capitato che qualcuno di questi sia stato messo fuori uso dal morso di uno squalo. Altro scenario riportato è quello, molto probabile, della carne sintetica. L’allevamento intensivo è la principale causa della deforestazione e causa il 37% dell’emissione del gas metano che genera un effetto serra ventotto volte superiore all’anidride carbonica. Il ciclo della carne ora inizia su di un prato, passa da una mangiatoia, arriva ad un macello, poi in un impianto di produzione e infine in un negozio. Il nuovo ciclo invece potrebbe iniziare nello stabilimento in cui si coltivano e confezionano le cellule di carne e passare direttamente al negozio. 

 

È innegabile che negli ultimi anni l’immaginario legato all’Antropocene abbia avuto un’impennata, almeno quantitativamente parlando. In letteratura fino a poco tempo fa le sue parole chiave entravano solo lateralmente nelle narrazioni non dichiaratamente di fantascienza. Un buon esempio è Il collezionista delle piccole cose di Jeremy Page (Neri Pozza, 2013), dove l’autore costruisce un’avventura in un brigantino al Polo nord inserendoci la storia dell’estinzione dell’alca impenne, un uccello molto simile al pinguino scomparso definitivamente durante l’Ottocento. Il protagonista ne cattura un esemplare per destinarlo a un museo e lo nasconde nella nave fino a quando, irrimediabilmente, muore. 

 

Oggi la situazione è diversa. “Dobbiamo creare dei racconti per comprendere – nel senso etimologico di contenere in sé – quell’oggetto, anzi iperoggetto, che è la sesta estinzione. Dobbiamo come sempre raccontare, inserire la questione in un frame, una cornice concettuale. Ma per farlo, ci serve prima una mappa” dice Sandal, ed è esattamente quello che stanno facendo un gruppo di scrittori con il progetto TINA, dove, partendo da fatti reali, si sviluppa l’immaginario dell’Antropocene in una maniera inedita e corale. Il risultato è una mappa dell’immaginario non affidata ai singoli ma collettiva, un’esplorazione collaborativa che indica altre possibilità e soluzioni, non solo scuotendo il sonnolento mondo dell’editoria italiana, ma soprattutto suggerendo modi di affrontare la pratica quotidiana di sopravvivenza, con il fine di salvare tutti, come indica l’antropologo Matteo Meschiari nel suo pamphlet La grande estinzione (Armillaria, del 2019). “Quello che sta scombussolando e ridefinendo le regole del gioco è che il fattore ecologico ha assunto per la prima volta i connotati della minaccia globale. Si tratta di una novità assoluta che azzera gli scenari alternativi e il problema in atto non deriva tanto dall’incapacità di immaginare scenari apocalittici quanto dall’incapacità di immaginare soluzioni collettive all’apocalisse. Perché ovviamente non si tratta di salvare qualcuno, ma di salvare tutti. L’immaginario che ci ha accompagnati fin qui, però, non funziona più. In qualche modo dobbiamo inventarne uno nuovo. Ci vuole un re-immaginario. Chi è un giocatore divergente sa già come fare. Il problema è un altro: perché se il cinema sta bruciando la gente resta seduta a guardare lo schermo?”

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