Una conversazione / Chandra Candiani. Questo immenso non sapere

13 Settembre 2021

“Si può andare a trovare un piccolissimo pezzo di prato, un pizzico di prato c’è sempre”. Ho aperto Questo immenso non sapere nelle sue prime pagine e davanti a me un inchino: fronte verso terra e fili d’erba da guardare, un mondo che sempre si rinnova, esercizio di incanto. 

Risuonano, queste parole, con la certezza di Etty Hillesum che “esisterà sempre un pezzetto di cielo da poter guardare”. Importa poco se ci sia da guardare verso l’alto o da ricoprirsi di terra e polvere: pregare è indicare, è conoscere una vista periferica, sentire di esser parte di un mondo più grande, anche se ci sfuggono ordine e significato. 

 

Questo immenso non sapere riprende la prosa frammentaria – ricordi, pensieri, riflessioni e scene – che già Chandra Candiani ci aveva fatto incontrare con Il silenzio è cosa viva. È popolato di animali e alberi, come se avesse chiamato a raccolta, per presentarceli, gli “abitanti della meraviglia” che abbiamo imparato, nei versi, ad ascoltare, riconoscere, seguire; a non guardarli troppo negli occhi e a non provare a capirli. Animali che salvano e che ammazzano. E poi l’erba, i fiori del melo, il ciliegio selvatico, le leggi di inquietudine. C’è il virus, la trasformazione, lo spavento, il sospetto che tanto ci accompagna davanti agli altri. La morte, il male inflitto, il male ricevuto: il male che resta male, anche se può passare da insoffribile a soffribile. Ed è già qualcosa, lo si può dire. Il mondo è anche un inferno, l’oscuro è nelle cose e ci sono ferite dai segni indelebili. Sono grata a Chandra Candiani perché non ci invita a pensare che si possa sempre essere intonati al mondo. No, delle volte si è stonati, delle volte si è sordi. Così l’arte della meditazione diventa una pratica che si accompagna al camminare e al mangiare, gesto di vita quotidiana: non arte di allontanamento dalla vita, di padroneggiamento, ma piuttosto resa, “grazia di abbandono”, immersione radicale nell’esserci degli avvenimenti, nelle storture, nelle rabbie e nelle stagioni. Chandra Candiani mostra come la compassione non sia postura di santità, ma esercizio costante di riposizionamento, di dissolvimento dell’io, di ricerca di radici impersonali e comuni.

 

“Sono viva per musica” scrive in un verso che mi è caro. Viva per musica, così mi pare, significa viva per eccedenza, viva perché non siamo solo in quello che possiamo capire, ricordare, spiegare. Viva per l’occasione di aprirsi alla meraviglia, di non perdere la magia, nonostante le ferite – o in grazia di ferite – che concedono un altro passo e un guardare nuovo, concedono di costruire con pazienza una mappa del cuore, di orientarsi, di provare ad obbedire “a una legge di fioritura”.

Chandra racconta che da bambina, in prima elementare, la maestra chiese di disegnare una casetta. Lei pensò che ventisette casette sarebbero state troppe, così, per fare un dono alla maestra, le sembrò una buona idea disegnare un gattino: “quando consegnai il foglio la maestra mi guardò attonita: ‘ma tu capisci quando parlo?’ […] Non aveva altri occhi che quelli dietro gli occhiali, che vedono soltanto i risultati”. “La sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente”, che apre questo libro, è errare e provare a conoscere altre misure oltre la misura e altri sensi oltre al senso. 

Le parole di questo libro arrivano come un dono, come quel gattino alla maestra: si fanno corpo e dissolvono il dire: “E manchiamo./ Sempre manchiamo.”

 

AS. Ho in mano questo tuo libro disordinato, Chandra. Il disordine, come tu stessa scrivi, dell’“eccomi solo qui”. E allora mi pare che senza metter troppe parole la prima cosa che posso dirti è: eccoti e eccoti come Chandra e basta. Mi arriva come qualcosa di forte. 

 

CC. Sì, è un gesto forte per me. Livia è il nome che si è sciolto, come la neve. Avevo iniziato a pubblicare con quel mio primo nome e così non ho potuto toglierlo per non creare confusione, ma poi ho sentito: è ora. Era il nome dell’infanzia, risuonava per me con una cupezza e con un senso di sequestro, quando ti viene tolta un’identità più vera, l’individualità. La ricostruzione della mia storia, le soste nel fitto del buio e il calore di chi mi ha ascoltato hanno sciolto il nome, ora sono solo Chandra. È il mio nome ‘religioso’, o almeno la sua metà, e significa luna che mi è molto cara, una testimone silenziosa che da lontano registrava i danni e conservava memoria di sguardi, di fatti e parole.

 

 


Ph Rinko Kawauchi.


AS. Sciolto come la neve. Mi viene in mente quello che scrivi sul nostro esser fatti di terra, acqua, fuoco, aria e spazio. Percepirli in noi. Sai, mentre leggevo quelle righe, mentre le ascoltavo, pensavo: poveri presocratici, ci dicevate questo e noi ci siamo subito fatti imprigionare dal ragionamento e abbiamo messo gli elementi davanti a noi, li abbiamo aggirati, osservati, ricercati, spiegati. Le tue parole invece mi hanno fatto accadere i cinque elementi nel corpo, questo strano accadere che è mio ma non è mio. Mi arriva, questo sciogliersi e farti luna, come un sapere che gli elementi che ci costituiscono torneranno alla fonte. C’è un “più grande” che sento che le tue parole disegnano sempre, invitandoci ad abitarlo. Ho memoria di un tuo verso che parla di “ospitare i suoni ammucchiati del mondo”. Insomma: liberare un poco “i nostri poveri sensi abituati al senso”. 

 

Sì, i sensi sono insensati, altrimenti come dice Victor Šklovskij delle parole belle, perdono i sensi, cadono in deliquio. La differenza di ascolto è praticare le parole dei Maestri, leggerle non serve i sensi, addestra solo la mente. Il corpo è in attesa di conoscenze, è in attesa di scambi. Quando ascoltiamo senza interpretare i suoi saperi, entriamo in un’altra temporalità, in un’attesa. Ho aspettato che Livia si sciogliesse, senza forzare. Non ho pazienza, è un’arte che devo ancora imparare, però ho imparato ad abitare le attese, affinando una specie di orecchio musicale. Attendo tanto la poesia, e quella mutezza per Rilke è il compito più duro del poeta. Così con la vita, i ricordi dolorosi, i nomi che ci sono diventati stretti, le definizioni con cui gli altri ci imprigionano e noi ci cresciamo dentro, evadiamo e non siamo più lì, per questo poi non ci si incontra più, non c’è mobilità di pensiero. 

Occorre intonarsi. Intonarsi al corpo, significa non pensarlo, ma riceverlo e assaporare il suo essere elementi e il suo fare ritorno a essi. Dalla neve alla luna, il passo non è così lungo, sulla luna ci aspetta la nostra mente guarita. Provvisoriamente guarita.

Il più grande è sempre qui intorno, a disposizione, sia fuori che dentro, quando siamo disposti a disorientarci, a disfarci, siamo disponibili a incontrarlo.

 

Mi vengono in mente più cose mentre ti ascolto, come ci fossero più fili e non sapessi quale afferrare. La parola “guarita” e quello che scrivi del corpo mi fanno pensare la ferita. Ti leggevo e mi accorgevo che alcune frasi si accordavano nella mia testa a versi delle tue raccolte poetiche, in uno strano dialogare di poesia e prosa e di prima e poi. Così pensavo alla bambina blu di Vista dalla luna, chissà perché mi è tornata in mente la bambina blu con le sue parole in un sacco buio. “Bisogna salvare le ferite”: una pagina di Questo immenso non sapere inizia così. Interrogare le ferite, partire dal crepacuore, aspettare le risposte. Parlare delle ferite mi pare voglia dire parlare dell’ombra: non si può non conoscere l’odio e pensare di poter conoscere l’amorevolezza, non ci si può nascondere che ci sono furie e spaventi e invidie da bruciare. C’è una ferocia, Chandra, che metti lì. La tua, la mia, quella di noi tutti. Noi tutti che abbiamo saccheggiato il pianeta. Insomma, questo stare con la crudeltà, guardarla, per non rischiare di trasformarsi in “prestigiatori del sorriso e dei bei gesti”. 

 

Eh sì, sento che questo per me è un filo fondamentale del libro. Temo moltissimo la via della virtù e dell’esemplarità, temo la volontà come forzatura al bene. Credo che si possa solo conoscere il male, la nostra cattiveria, per imparare a non agirlo, a non danneggiare. Sì le ferite vanno salvate e interrogate e lasciate vive, ma non per costruire una personalità da vittima, ma anzi per fermare la mano, ma nemmeno ridare colpo su colpo e per orientarsi in quel falso bene che è la personalità spirituale, una delle maschere più micidiali di questo mondo truffaldino. Un Maestro traduce la parola Dharma, l’insegnamento del Buddha, la Legge naturale, i fenomeni, con “le cose così come sono”. Ecco, vedere le cose così come sono è lavoro di scalpellino e di minatore ma anche di bestia e bambino e vedere la cattiveria in noi, la crudeltà, è il primo passo verso la nostra vera natura che è mescolanza, che ha dentro tutti gli animali e tutti gli esseri divini, tutti gli orchi e tutte le fate, i Pollicini, i lupi, le streghe, le Cenerentole, tutti mescolati. Guardare con meraviglia non solo un bell’albero, (troppo facile), ma anche il nostro istinto assassino, le nostre bugie ‘professionali’, i nostri travestimenti santi, eroici. Guardare con compassione i nostri narcisismi fragili, gli ego bambini che vogliono divorare il mondo, le volpinerie e le gallinerie. Ogni volta che vedo il male in me sento un bene, ho visto, ho visto, posso essere libera. Ci vorrà lavoro, ma posso essere libera. Mai fare i carini.

 

Ph Rinko Kawauchi.


Credo anche io che questo sia uno dei nuclei preziosi del libro: quando le persone mi dicono che non odiano, che non invidiano, che non hanno rabbia, mi sorprendo sempre un po’. Così ho sentito le tue parole come una confessione per tutti: abbiamo da stare con la crudeltà, con l’indifferenza, con il nostro bisogno di riconoscimento; abbiamo da sentirlo e poi provare a allargare un po’ lo sguardo e ritrovarci compresi in qualcosa di più grande ancora. “Fidarci dell’orizzonte”: è così che sentiamo che il bene di cui dici è possibile, è così che lasciamo andare. Tu parli di energia dell’errore che consente di scoprire nuove strade. Ho pensato spesso che “funzionare”, e dunque non errare (forse quel che tu scrivi come “illusione di personalità”), impedisca un poco di sentirsi soli ed estranei, impedisca quel tremare e quell’inoltrarsi, quel muoversi a tentoni al di fuori del sapere. Così, leggendoti, ho sentito che solo questo “soli ed estranei” è quel che ci consente di cercare un accordo al respiro del mondo, quel che ci porta a cercare l’abbraccio delle querce e la parola degli asini.  

 

Temo tantissimo chi si crede buono, chi fa sforzi per esserlo, mentre è la conoscenza del male che fa il male a farci ortolani: costruire un orto, dissodare il terreno, concimarlo, innaffiarlo, seminarlo, levare erbacce, sostenere le piante fragili, curare quotidianamente e saper aspettare. Questo fa accadere un andare oltre l’invidia, la malevolenza, la competizione, l’orgoglio, abitando quell’oltre di me e te, quell’impersonalità dell’orizzonte che fa sentire la nostra meschinità leggera e inutile, fa sentire la vastità da cui veniamo e in cui viviamo e faremo ritorno, allora le nostre beghe, rivincite, ripicche sono pochezze, ma anche concime per l’orto. Che orti secchi e sterili quelli in cui recitiamo le virtù, fingiamo di essere una cosa sola, soffochiamo le ambivalenze. Con alberi e animali imparo a vacillare onesti nel mondo grande, a non sovrapporre narrazioni e belle parole, a sentirci smarriti e fuori posto, ma anche così colmati di gioia per un bagno di polvere, così temprati dalla lotta con il vento forte, così capaci di cadere. Sono una che nelle emergenze funziona, ho la velocità dalla mia, poi, partita l’ambulanza, rimessa a posto la casa, mi siedo e sono niente e sento cadermi addosso tutta l’impotenza che i gesti di pronto soccorso rimandavano e allora sto sola a guardare lontano senza rimproveri e senza lodi, aspetto. 

Noi moriamo. Tutti. Assaporare la morte dà misure diverse a tutto quanto. Soprattutto al tempo.

 

“Tempo in cui non si cucina/ e non si prega/ si sta./ Soli e improvvisati/ abbandonati e senza senso/ si sta, frastornati e vuoti”: ho sempre in mente questi tuoi versi di Fatti vivo quando penso l’aspettare e il perdere così come ne scrivi, come non trattenere, come lasciar andare. Ospitare tutto, stare nell’assenza di opinioni, misura, verità; nel tempo non investito, vuoto. Animali e alberi: eccoli. Sei nel bosco, ora. E loro popolano le pagine di questo libro: maestri di meraviglia e di distanza (“grande albero/ felice che siamo due”), di vibrazioni e non di parole, di un tempo come partecipazione a “quasi una tradizione immutabile, una continuità dove si vive all’insaputa di sé”, custodi di una fiducia in non si sa cosa. 

 

La vita mi ha cambiato posto, sono rimasta dove mi ha messo. Certe volte è difficile, certe volte favoloso. Il tempo degli alberi e degli animali è un tempo simile a quello dei musicisti quando accordano gli strumenti. In India, certe volte passano ore ad accordarsi prima che inizi il concerto. Accordarmi con il bosco e le sue creature mi insegna a lasciar andare, è una cosa che accade, non si può ‘farla’, ma il grande è tutto nel piccolo, è nel minuscolo che senti la purezza del gesto che apre le mani, allenta la mascella, accoglie l’abbandono. Appoggio la schiena o il petto a un albero: “Insegnami.” Abbraccio un asino, lo annuso: “Insegnami.” Non imploro, aspetto che il Maestro veda la limpidezza nella mia richiesta.

 

Ph Rinko Kawauchi.

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