Il cinema italiano e il calcio / Per sempre fuori campo

31 Gennaio 2017

Sere di fine estate, scalzi sul divano, ancora un gelato e la tv accesa. Per calarsi meglio nella cartolina, vera o presunta, si potrebbe ricorrere ad un vecchio film di fantascienza, magari in bianco e nero, lasciato andare a basso volume. Il quadro sarebbe perfetto. Ma scarrellando i canali è più facile trovarsi di fronte l'ennesima replica de L'allenatore nel pallone. La prima reazione è alzare il volume. La seconda, quasi immediata, è passare da un sorriso a una smorfia triste. Infatti l'errore, alla centesima visione, è sempre lo stesso: aspettarsi che qualcosa cambi. Un po' come il vecchio compagno di banco che insiste ancora con gli stessi aneddoti, e a ripetere le stesse battute. E riderne da solo. Gli si vuol bene, ma è evidente che ci sia qualcosa che non vada. E nonostante questo, tornando al film, in poche semplici e durissime parole L'allenatore nel pallone è, ancora oggi, l'unico caposaldo della cinematografia italiana sul tema del calcio.

 

Lino Banfi ne “L'allenatore nel pallone” (1984). 

 

Ecco, una frase che da sola è sentenza. Una manciata di secondi dopo aver registrato questa incontrovertibile verità nascono delle considerazioni che potrebbero togliere il sorriso pure alla scena in cui Canà prova a telefonare a sua moglie Mara dallo stadio Maracanà. Per diversi motivi. Ad esempio perché, e fa un certo effetto, il tema del calcio è stato solo un pretesto per farne un film comico. Sullo stile di molti altri con Lino Banfi in quella chiassosa e, a suo modo, splendente epoca d'oro italiana a metà anni '80. Battute, battutacce e qualche tiro in porta. Insomma, tutto il repertorio con il pallone a far cornice, un semplice ambiente, come era l'ufficio per Fantozzi. Poi perché, appunto, il racconto calcistico è assente. L'epica sportiva non rintracciabile. In definitiva L'allenatore nel pallone ha evitato di parlare di calcio, e di sport in genere. Cosa che per un film a tema, non è l'ultimo dei dettagli.

 

Tanto più se consideriamo il contesto in cui questo film di Sergio Martino è nato. Era il 1984 e l'Italia nel calcio rappresentava agli occhi del mondo il paradiso dei calciatori. Il campionato più bello e più ricco. Le squadre più forti. C'erano Maradona, Platini, Zico, Falcao e non c'era campione straniero che non volesse venire in Serie A, mentre i nostri non pensavano ad emigrare oltre lo stadio Friuli di Udine. Le coppe europee iniziavano ad essere terreno di conquista. Aumentava la possibilità di vedere gol e partite sul piccolo schermo. La nazionale italiana era Campione del Mondo in carica. La reazione dell'industria cinematografica a questa esplosione sociale, culturale e ovviamente sportiva è stata perfino sorprendente, cioè ridurre il “pallone” a una barzelletta. E oggi, nel trentaduesimo anno dopo Canà, sembra soltanto una gigantesca occasione persa. O non capita.

 

Anche altri in Italia hanno provato a parlare di calcio al cinema ma con risultati peggiori. Si pensi, carezzando per un attimo il paleolitico della cinematografia a I due maghi del pallone, del 1970, in cui Franco e Ciccio prendevano a modello per la loro storia Helenio Herrera, o Il presidente del Borgorosso Football Club (dello stesso anno) con Alberto Sordi. Per arrivare al 1974 con L'arbitro interpretato da Lando Buzzanca. Dopo di loro solo gli epigoni, figliocci o patrigni de L'allenatore nel pallone: ad esempio Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento con Alvaro Vitali, oppure Il tifoso, l'arbitro e il calciatore, con lo stesso Vitali e Pippo Franco; Eccezzziunale veramente, con la carrellata di tifosi interpretati da Diego Abatantuono, e Quel ragazzo della curva B, con Nino D'Angelo protagonista e cantante.

 

Tutti film nati attorno alla metà degli anni '80 per un filone che ha mandato tutto in Vacca, tanto per citare il bomber di Mezzo destro, mezzo sinistro, pescando dal brodo primordiale delle banalità le solite donne seminude, l'arbitro cornuto, i giocatori farfalloni quando non corrotti e scene di campo con azioni di gioco più lente e sgrammaticate di un calcetto con gli amici. A peggiorare le cose, sì, è successo pure questo, sono venuti i tentativi di ricalcare il segno, già logoro, con i sequel e i cinepanettoni. Quelli coi tifosi di squadre e città diverse, in un eterno roteare di cliché.

 

Ugo Tognazzi in “Ultimo minuto” (1987). 

 

Rarissime le eccezioni. Solo un paio. L'uomo in più di Sorrentino in cui però il calcio è soltanto una parentesi nello sviluppo del film. O come l'unica e vera voce diversa nel mucchio: Ultimo minuto di Pupi Avati. Film in cui si è scelto di raccontare il calcio nei suoi aspetti più torbidi: partite truccate, ambienti avvelenati, bilanci fasulli.

 

In definitiva per il nostro cinema, e per il mondo della cultura in genere il calcio è rimasto un corredo, un vizio, un passatempo. Un prodotto subculturale che non ha mai meritato di elevarsi a prodotto di qualità, pensando evidentemente le due cose, calcio e cultura, come inconciliabili. Come le due ore di educazione fisica a scuola, un fastidio per tutti. Forse si è creduto che fare dei film sul mondo del calcio non fosse necessario né remunerativo, perché l'overdose televisiva e di chiacchiere era già totalizzante di suo. Un errore, ovviamente. Come se leggere due tizi litigare su Facebook sull'ultimo di Woody Allen equivalga ad aver guardato il film.

 

Giusto per farsi del male si potrebbe pensare ad un confronto con quanto succede fuori casa. Nel cinema anglosassone e americano, dei quali guardiamo e attendiamo ogni pellicola come Vangelo o pronti con la carta carbone per rubacchiare qualcosa. Film sportivi esclusi. Non sia mai. La loro lista è ricca di film che costituiscono per premesse, temi, e svolgimento un genere “forte” (anche di guadagni, qui scritto tra parentesi perché il ragionamento è solo di cuore e non di portafogli) opposto in tutto a quello italiano.

 

Confronti imbarazzanti, ma che aiutano ad avere una perfetta visione d'insieme. Pensare ad esempio a Pippo Franco che scende accaldato le scale in cemento dello stadio durante un derby Roma – Lazio con la giacchetta double face giallorossa e biancoazzurra, mentre dall'altro lato c'è Colin Firth che interpreta l'innamorato e malinconico tifoso dell'Arsenal in Febbre a 90° sulle gradinate di Highbury. Uno che inizia a dare del cornuto all'arbitro cercando di non farsi vedere dal datore di lavoro e l'altro che ragiona sul rapporto di coppia e la propria vita durante la memorabile stagione dei gunners del 1989, culminata con il Liverpool – Arsenal di quel maggio lì e un abbraccio tra tifosi in salotto.

 

Colin Firth (al centro, con la sciarpa) in “Febbre a 90°” (1997).

 

Oppure il bomber Alvaro Vitali, alias Paulo Roberto Cotechiño, che si destreggia da par suo, cioè volgarmente, sia in campo sia dietro Carmen Russo, e immaginarlo fianco a fianco con John Lynch che ha interpretato in Best il calciatore nordirlandese, in un film che è calcio ma è anche dramma personale, tra sport, alcool e donne. Pensare la Longobarda come Il maledetto United e Oronzo Canà come il Brian Clough interpretato benissimo da Michael Sheen. O il giovanissimo Vacca di Mezzo destro, mezzo sinistro come Jimmy Grimble. O ancora: mettere a confronto lo scazzatissimo Omar Sivori del Borgorosso Football Club (e con lui i divertiti, più che divertenti, Pruzzo, Chierico e compagnia de L'allenatore nel pallone) contro la vera prova d'attore di Cantona, anche lui nei panni di se stesso ne Il mio amico Eric. Una serie di colpi bassi, è vero, ma ogni tanto è giusto fare i conti con la realtà, perché il tifoso e spettatore (o cliente) italiano non è poi così diverso (fossero anche soltanto le ambizioni da divano) da quello inglese.

 

E poi negli Stati Uniti, dove il pallone come lo intendiamo noi ancora non esiste, ma c'è l'industria di Hollywood e il genere di film sportivi. Molti a dire la verità, per i loro tre sport di bandiera, basket, baseball e football, e altrettante le star che dietro e davanti la cinepresa si sono date da fare. Robert Redford, Denzel Washington, Gene Hackman, Brad Pitt, Kevin Costner, Clint Eastwood, Keanu Reeves, Al Pacino, Tom Cruise, Spike Lee e via così. Storie autentiche, o poetiche, riuscite oppure meno, d'amore, di scalata al successo, di vittorie, fallimento e in definitiva: di vita. Le stesse cose che accadono nella realtà quotidiana in Italia, come in Inghilterra o in America, nonostante il cinema di casa nostra sia fermo a raccontarci le barzellette.

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