L'uomo e gli altri / Virus e specie

3 Luglio 2020

Sfido chiunque, durante il lockdown, a non essersi sentito colpito, commosso, persino estasiato, dalle immagini di animali non umani che se ne andavano a spasso per la città (mamma anatra e la sfilata degli anatroccoli al seguito), o si avventuravano dove abitualmente si trovano solo gli animali umani, i loro prodotti e le loro scorie (i delfini nei vari porti di Ostia, Olbia, ecc., persino la lunghissima cavalcata di un daino sul bagnasciuga di non so quale spiaggia). Si è parlato di riappropriazione del loro ambiente naturale da parte degli animali: che bello, finalmente in questa pandemia c’è qualcosa di buono, come siamo violenti e invasivi noi umani, ce ne dovremo ricordare. Tutti già con un occhio alla conclusione del lockdown (legittimamente, per carità) e alla ripresa della vita “normale”. Sulla “riappropriazione” Massimo Filippi, autore di Il virus e la specie. Diffrazioni della vita informe (Mimesis Editore, 2020, pp. 138), uscito da qualche settimana, certo non sarebbe d’accordo. Questo ultimo testo di Filippi non è né un libello estemporaneo, né uno scoop sulla pandemia, è il capitolo di un discorso antispecista, complesso e radicale, iniziato da tempo. Parlare (e praticare) di antispecismo significa osare mettere in questione il lavoro della macchina antropologica e ciò che appare “naturale” e che invece è un suo prodotto.

 

L’esercizio di specificazione tenta da sempre, con buoni risultati e qualche sorpresa (come il SARS-Co V-2), la separazione e l’ordinamento di organismi viventi “omogenei” e, per quanto riguarda quelli biologici, la capacità/possibilità di accoppiarsi e generare “in natura” una prole a sua volta feconda. Darwin stesso sapeva benissimo quanto labile e arbitrario fosse ogni confine stabilito, perché i viventi sono continuamente esposti agli effetti dell’ambiente che abitano (e dunque si riplasmano, si riconfigurano), al fortuito (potremmo dire all’accidente), e soprattutto all’addomesticamento da parte degli umani. Perché la specie è innanzitutto “specie umana”, prodotto e agente di un taglio e di una classificazione “solo apparentemente innocente e neutra”, e invece “profondamente politica e performativa”. La furia classificatoria istituisce confini arbitrari che legittimano la sudditanza, l’utilizzo e la condanna a morte di viventi animali o animalizzati, basti pensare ai migranti nei cosiddetti centri di accoglienza, a quelli morti in mare o lungo la strada che li porterà ai barconi della morte. Per quanto riguarda la tetra cronaca della pandemia, ai lavoratori invisibili (quasi tutti neri), che adesso un rigurgito di utilitarismo e di senso di colpa vorrebbe legalizzare. 

 

La tesi forte del libro di Filippi è che la diffusione del SARS-Co V-2 abbia ulteriormente messo in questione la separazione dell’“Uomo dal resto del vivente”, sebbene in un modo paradossale, che da un lato rafforza la categoria di specie e dall’altro la indebolisce. Rafforza la categoria di specie umana in quanto più o meno vicina o lontana all’Animale: i giovani e sani (e produttivi, ipoteticamente) più lontani, “più umani” e meno a rischio; gli anziani e malati (e improduttivi) più vicini e più a rischio. Più vicini al Reale della “vita informe”, per dirla con Lacan (che Filippi utilizza in un modo interessante e molto personale), lontanissimo dall’Immaginario umano che vede (ancora, pensate un po’) la specie in cima al grattacielo horkheimeriano, ossia Homo Sapiens, padrona, immune, intoccabile. Ma il virus, in quanto zoonosi, ossia malattia in grado di compiere il famoso salto di specie, è portatore di un “antirazzismo biologico”, ossia non risparmia nessuno.

 

 

Ci consegna (o ri-consegna) a un universale che atterrisce, perché in esso ritorna quel rimosso che è la “nuda vita animale” che accomuna tutti gli umani e li avvicina agli altri viventi. Non possiamo più, si direbbe, non pensare l’Animale, il solo che “ci può rigenerare”. Ciò è possibile solo assumendo una prospettiva “minore” a fronte di quella abituale che non vuole pensare la vulnerabilità, l’Hilflosigkeit dell’animale umano, sostituendo alla “retorica del volto” (di levinasiana memoria) che autorizza inaudite violenze verso chi il volto non ce l’ha, “gli orifizi” che, invece, “attraversano, bucano, perforano la materia e i corpi” in modo trasversale, e dunque mischiano, confondono, contaminano pericolosamente. “Riconosciamo i Gregor Samsa non dal volto ma dalle cicatrici che portano sulla schiena”, scrive Filippi, che utilizza gli asterischi laddove appare il vincolo dell’appartenenza di genere, dettaglio non trascurabile a cui la scrittura si presta. 

 

L’esercito di morti viventi che nei film di Romero invade il Pianeta, famelico, inarrestabile, acefalo (come la pulsione) e assedia gli umani che si barricano dentro, non può non richiamare, mutatis mutandis, la nostra recente condizione di rin-chiusi, serrati al fuori dell’esposizione alla malattia. Ma ancora di più richiama le abituali pratiche di esclusione dell’altro, del diverso, del mostro, al fine di relegarli “tra le due morti” (altra concezione lacaniana utilizzata da Filippi nel suo personale modo), quella zona riservata a chi ancora vive ma è già consegnato alla morte.

 

Il vivo-morto, lo zombie, incessantemente torna a ricordare che non siamo né invulnerabili o garantiti, che tutti siamo, in qualche modo, già morti, per dirla con Derrida, abitati da la vita la morte. Per questo Filippi non sarebbe d’accordo sulla “riappropriazione”, persino da parte degli animali non umani, perché il Pianeta non appartiene a nessuno e immaginare il Mondo, invece, come appartenente lavora a favore della “violenza che percorre l’intera architettura sociale”. Non solo questo luogo che abitiamo non ci appartiene, ma può fare benissimo a meno di noi e persino, come abbiamo appena visto, ribellarsi a noi. Che, come la scatola di sardine di cui parla Lacan in Seminario XI, ci guarda e non ci vede. Ciò che ci interpella non è il nostro Mondo che finisce ma la necessità di “confrontarsi con il concetto di mondo-senza-di-noi”, con quel registro (Reale) che resiste, ritorna, mette in questione ogni gerarchia tra i viventi.

 

Il virus e la specie. Diffrazioni della vita informe”, Massimo Filippi, Edizioni Mimesis, 2020.

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