Gli elementi di Mario Porro / Vagabondare per immagini

13 Febbraio 2021

Nuvola, ombra, fango, acqua, mare, foresta ma anche catena, rete e orologio. Basta dare un’occhiata all’indice dell’ultimo libro di Mario Porro (Ipotiposi. Vagabondare per immagini, con illustrazioni di Anna Enrica Passoni, Medusa, Milano 2020) per comprendere che ci troviamo in un multiverso dominato dalla forza degli elementi naturali. Un mondo scrutato nelle sue componenti elementari, che Porro c’invita a prendere come modelli di riflessione e di visione. Come modelli della ipotiposi. Figura retorica che indica “una rappresentazione viva e immediata di un oggetto o di una situazione” (p. 202), l’ipotiposi è una descrizione così vivida da suscitare immagini nella mente di chi legge o ascolta. Un’iconicità o un vagabondare per immagini, come suggerisce il sottotitolo.

 

Ricorrendo agli elementi naturali, Ipotiposi è una critica alla ratio e all’ordo cartesiani, al dimostrare matematico e alla geometria euclidea, alla coincidenza di reale e razionale di hegeliana memoria, al cosmo conchiuso in se stesso, ai quadranti dell’orologio dove “scorre il tempo reversibile della meccanica classica, tempo spazializzato e quantificato, ridotto allo spostamento di lancette” (p. 39), a un Dio storicamente considerato come geometra, architetto e, infine, orologiaio. Con questa revisione del pensiero scientifico della modernità, Porro si rifà alla lezione di Michel Serres, che ha fatto conoscere in Italia grazie alle sue numerose traduzioni ed edizioni, tra cui segnalo almeno il numero monografico di “Riga”, vero e proprio zibaldone del Serres pensiero co-curato con Gaspare Polizzi (Marcos y Marcos 2014).

 

Di Serres non viene sviluppato solo il pensiero ma anche la sua capacità di manipolare materiale eterogeneo, di costruire i suoi libri più originali. Qui, nel solco degli essayistes e al di là della classica trattazione filosofica, esperienze marinare di gioventù si alternano a colte discettazioni scientifiche e a riletture appassionanti della mitologia greca. Così anche i miti che pensavamo di conoscere bene appaiono trasformati e pregni di senso per la nostra contemporaneità.

In Ipotiposi, al magistero di Serres si affiancano altri pensatori, soprattutto francesi: il Jules Michelet della storia naturale (L’uccello, 1856; L’insetto, 1858; Il mare, 1861; La montagna, 1868), il Gaston Bachelard della rêverie e dell’immaginazione materiale dei quattro elementi (a ciascuno dei quali ha consacrato un saggio), il Gilbert Durand di Le strutture antropologiche dell’immaginario (1972). Tra Roger Caillois e Paul Valéry, Bruno Latour e François Jullien, fa capolino anche un filosofo eclettico oggi dimenticato, in Italia come in Francia, quale François Dagognet. Un altro contingente è legato alla letteratura italiana: il Gadda più filosofico, quello di La Meditazione milanese (1928) – che, ci ricorda Porro, doveva intitolarsi Nuvole in fuga –, oltre a Primo Levi e a Italo Calvino, “figlio di un agronomo e di una botanica” (p. 176), non dimentichiamolo.

 

Nel complesso, mi sembra che questa costellazione di autori permette a Porro di recuperare un (nuovo) materialismo oggi declinato in un’“ecologia politica delle cose” da Jane Bennett (Vibrant Matter. A Political Ecology of Things, Duke University Press 2010) o in un’“ecologia dell’inumano” da Jeffrey Jerome Cohen (Stone. An Ecology of the Inhuman, University of Minnesota Press 2015). Un materialismo che, secondo Bennett, si lega alla tradizione di Democrito, Epicuro, Spinoza, Diderot, Deleuze piuttosto che a Hegel-Marx-Adorno. In tale prospettiva, la materia non è più considerata come passiva o inerte ma come vitale. Alle cose è restituita quell’agentività che riconfigura la divisione ontologica tra vita e materia, umano e animale, volontà e determinazione, organico e inorganico. Come scrive Bachelard in Psicanalisi delle acque, “non si sogna profondamente con degli oggetti. Per sognare profondamente bisogna sognare con della materia” – una “materia che si gonfia”. Anche di questo parla Ipotiposi.

 

 

Qui come in altri libri di Porro (penso a Letteratura come filosofia naturale, Medusa 2009), letteratura, scienza e filosofia trovano un terreno comune d’intesa. Qualunque sia l’elemento sotto esame, viene affrontato attraverso una fitta trama di rimandi letterari, scientifici e filosofici. Le arti visive non sono assenti: Correggio e Turner fanno capolino nelle nuvole; le Ninfee di Monet in “Acqua” ma anche in “Fango” (“La meraviglia del fango” come esclamò Paul Claudel davanti a questi dipinti), assieme a Rodin e Medardo Rosso. In “Acqua” troviamo il fluttuare della pittura di paesaggio orientale, in “Mare” i dipinti di Kaspar David Friedrich o i paesaggi geologici di Yves Tanguy che ricordano quegli oggetti restituiti dal mare, quelli che non si sa se siano residui calcarei levigati dalla corrente marina o dalla mano di un homo faber.

 

Gli elementi hanno una plasticità che permette accostamenti altrimenti arditi: un capitolo può cominciare con l’incipit di Moby Dick per poi spostarsi al fondatore dell’oceanografia, Matthew Fontaine Maury, utilizzato da Jules Michelet; o trattare delle foreste con una ramificazione di richiami da Il Barone rampante di Calvino a La Nausea di Sartre, dalla Scienza nuova di Vico al promotore dell’etica della terra Aldo Leopold, dalla wilderness di Henry D. Thoreau a un poeta legato al paesaggio – reale e sognato – quale Andrea Zanzotto. In questo modo vengono accolte e non scartate le suggestioni dell’immaginazione la quale, come noto, è indifferente alla compartimentazione delle discipline nel sistema accademico.

 

In altri casi, Porro adotta un taglio storico, indagando come è evoluta la considerazione di un elemento specifico. È il caso del mare, per secoli luogo di insidie e di confini invalicabili, “emblema dell’informe, del caso infido e minaccioso” (p. 117). Solo nel Settecento si scopre la talassoterapia e il piacere della riva, seguendo le analisi dello storico della sensibilità Alain Corbin, fino a quando il mare diventa emblema dell’urgenza dell’altrove. Lo testimoniano gli otto mesi trascorsi in mare dal giovane Baudelaire attraversando i Tropici della Malinconia: “il viaggio per mare è l’unico rimedio alla grande Malattia il cui nome è orrore del Domicilio” (p. 122).

Del resto, tra gli elementi, l’acqua è la più decisiva per il pensiero, in quanto la sua fluidità si oppone a quel pensiero occidentale che “ha tematizzato il primato ontologico della solidità” (p. 103). Qui Porro riprende il programma enunciato da Serres, che ha ricondotto l’origine della fisica al De rerum natura di Lucrezio e che mira a “inventare la storia liquida e l’età delle acque” (p. 113). 

 

Un programma che, malgrado la sua formulazione piana e all’apparenza non sovversiva, non va da sé perché, come emerge dalla lettura di Ipotiposi, ciascun elemento è duplice. L’acqua che disseta inonda le terre, il fuoco che riscalda brucia case e paesaggi, la terra i cui frutti nutrono l’uomo trema, l’aria che ci permette di respirare trasporta virus e così via. Mi viene in mente, al riguardo, la tetralogia apocalittica che James Ballard ha consacrato ai quattro elementi: Il vento dal nulla (1961), Il mondo sommerso (1962) Terra bruciata (1964), Foresta di cristallo (1966). Un autore non citato da Porro ma che potrebbe figurare tranquillamente nelle sue pagine, perfetto controcanto alla poetica romantica di Jules Michelet. Come se i quattro elementi, domesticati nel corso della storia, si rivoltino contro di noi dimostrandoci una volta per tutte la loro ingovernabilità. Del resto “fra i quattro elementi solo la terra è concessa all’uomo, Prometeo è punito per aver rubato il fuoco, Icaro non trova nell’aria sostegno al suo volo, l’Ulisse omerico è tenuto lontano dalla sua isola e il tracotante Ulisse dantesco vede richiudersi le acque sopra di sé, ‘come altrui piacque’” (pp. 147-148).

 

Ipotiposi è una raccolta di voci apparse su doppiozero a partire dal 2015, dove continuano a uscire a scadenza regolare (l’ultimo è sulla neve, primo capitolo, immagino, di un libro a venire). Qualunque sia l’elemento in questione, Porro, come uno scienziato, riprende e affina il protocollo di un esperimento ormai rodato: cosa accade quando si mettono al centro dell’analisi non autori, generazioni, gruppi, periodi, idee, temi o medium ma un elemento? In che modo questi elementi attirano (o coagulano) una serie di riferimenti letterari e visivi? Come, in finale, tornare alle cose che è, in estrema sintesi, il programma generale sotteso a questo libro?

Se le teorie scientifiche sono rappresentazioni o meglio mappe che ci aiutano a orientarci nel mondo, anche quelle “dovrebbero rivolgersi, suggeriva Bruno Latour in I microbi, alle pietre, ai vermi, all’aria e ai virus, per condurci all’oggetto-soggetto verso il quale tutta l’opera di Serres cerca di condurci: il mondo” (p. 209). Così si legge nelle battute finali, un modo di tornare alle cose e di familiarizzarci con un mondo con cui stiamo imparando a fare i conti.

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