Non farti domande, sii felice e condividi!

12 Luglio 2012

Prendi in mano un libro su Facebook e ti aspetti un po’ di netiquette e qualche rivelazione scandalosa sul suo fondatore. Invece ti ritrovi proiettato lungo l’intuizione che soggiace a tutto il libro, in un mondo dove non c’è più spazio per desideri e immaginazione. Dove il potere è appannaggio di società private che gestiscono sofisticati algoritmi. Inevitabilmente ti viene da osservare nuovamente il libro tra le mani, rileggi il titolo, ne sfogli ancora le pagine alla ricerca di qualche indizio che hai tralasciato. Invece no, è proprio così. E non se ne va quella sensazione di avere a che fare con un romanzo cyberpunk degli anni ‘90 dalle atmosfere dark, in cui le corporation sono molto, molto più satanicamente malvagie di quello che sembrano, i buoni a un secondo sguardo si rivelano cattivi e non c’è nessuna via d’uscita (a dispetto del sottotitolo). Impossibile salvarsi. A meno che non accada qualcosa di quasi impensabile e inaspettato: qualcosa di invocato in momenti di limpida paranoia e feroce utopia, un cambio di paradigma sociale, il diffondersi capillare di pratiche comunitarie, la decrescita, le tecnologie conviviali.

Nel frattempo vale la pena domandarsi: che razza di mondo stiamo contribuendo a plasmare, inconsapevoli o ingenui, tra un “Mi piace” e un “Condividi”?

 

Perché parlare di Facebook? Cosa ancora non sappiamo della creatura titanica di Zuckerberg?
Il gruppo di Ippolita in passato ci ha abituato ad analisi critiche puntuali e competenti sul mondo digitale, a cominciare da Open non è free (Eleuthera), fino a Luci e ombre di Google (Feltrinelli). Libri non sempre facili ma ricchi di informazioni e di spunti di riflessione sui cambiamenti tecnologici in atto. Anche la loro ultima opera si colloca in questo quadro.
Nell’acquario di Facebook raccoglie i risultati delle loro ultime ricerche sui social network e sul mondo del web 2.0. Distribuito in forma di ebook direttamente dal loro sito, il libro mostra come - attraverso la mitologia della trasparenza radicale - milioni e milioni di utenti in tutto il pianeta stiano contribuendo, a colpi di account, post, mail e commenti a dare forma a una distopia a metà strada tra Il mondo nuovo di Huxley e 1984 di Orwell. Tutto ciò, naturalmente, in nome dello sbandierato bene dell’umanità, di una socialità diffusa e aumentata e di un mondo più libero e sempre più democratico.


Ma Facebook non è il male assoluto e non è l’unico a perseguire questo fine. È solo un colosso, il più grande. Attraverso fonti precise e occhi attenti, Ippolita giunge a individuare il vero pensiero sotteso a tante esperienze che incrociano media sociali, politica e affari: l’anarcocapitalismo dei right libertarians californiani. Un pensiero sempre più di casa in Internet (sviluppato nel corso degli ultimi decenni del XX secolo da autori come Murray N. Rothbard, Robert Nozick, Ayn Rand) che prevede la fine dello stato in nome di un capitalismo selvaggio e radicalmente individualista. Nelle parole di Ippolita, il paladino della trasparenza radicale Facebook diviene il tassello fondamentale di una più ampia strategia politica che comprende:

 

“controllo delle relazioni umane tramite tecnologie di sorveglianza per scopi di guerra informatica, costituzione di ghetti autarchici ultratecnologici in mezzo all’oceano, ricerca dell’immortalità tecnologica […]. Il silenzio dei media, degli utenti, degli attivisti, di chiunque abbia un minimo di buonsenso e cura per la propria indipendenza e autonomia è assordante.”

 

Tuttavia, il libro è diviso in tre parti e solo la prima è dedicata a Facebook e ai social network in senso stretto. La seconda analizza il progetto anarcocapitalista e ne rintraccia alcune analogie e assonanze nelle più insospettabili realtà dell’attivismo militante e non (Wikileaks, Anonymous, Partiti pirata...) dovute principalmente a una comune coltura di provenienza: l’etica hacker. Infatti valori come libertà, free speech, meritocrazia, individualismo, culto dell’eccellenza, rifiuto dei limiti, tecnofilia e l’odio per le istituzioni sono sorprendentemente comuni sia agli ambienti hacker che a quelli anarcocapitalisti. Ed è su questo punto che il libro si fa più polemico e provocatorio sollevando interrogativi imbarazzanti a chi si è abituato ad associare attivismo e hacker.

 

La terza parte invece fa chiarezza sulle possibili soluzioni e sulle tecnologie conviviali (il riferimento è a Ivan Illich): tecnologie fai da te, sviluppate per renderci più autonomi e risolvere problemi pratici, elaborate all’interno di piccole reti e comunità venutesi a creare per affinità e attitudine, quindi molto distante dal tipo di socialità orientata esclusivamente alla produzione massificata. Una ricerca mossa dalla piacevolezza del fare:

 

“Ma non bisogna farsi ingannare dalla pressante richiesta di alternative valide, soprattutto quando sono declinate nella rabbiosa pretesa di alternative immediate e funzionali per tutti. Quello che va indagato è il bisogno personale, il desiderio individuale, e la sua soddisfazione reale e immaginaria. È chiaro che se si vuole qualcosa di potente e grande come Google o Facebook, l’alternativa non esiste. Come l’alternativa a Google, ma che funzioni rapido ed efficace come Google, non può che essere un altro Google, così anche l’alternativa a Facebook, ma che funzioni come Facebook, può essere solo un altro Facebook. Ci vogliono tante alternative situate, tante soluzioni locali e diversificate. Perché è il gigantismo che non funziona. È l’ideologia della crescita illimitata che gira a vuoto. E la trasparenza radicale non ci sta rendendo più liberi.”

 

 

Tutto il libro è percorso da una tensione emotiva molto forte, animata da una serie di polarità messe in gioco dialetticamente: trasparenza on-line vs. complessità reale; identità cristallizzata on-line vs. costruzione dell’identità reale; condivisione automatica e forzata vs. libera circolazione dei saperi; reti organizzate vs. organizzazioni reticolari; utile vs. dono; omologazione vs. particolarità; libertà vs. autonomia; produttività vs. convivialità.

 

L’obiettivo dichiarato è renderci consapevoli del fatto che comunicare facilmente e gratuitamente - perché la forza lavoro siamo noi, dice Ippolita - può sembrare una gran bella cosa ma ha dei costi ingenti dietro ai quali si nascondono gli interessi privati dei proprietari delle aziende che gestiscono il servizio (Facebook, Google, Twitter, Linkedin, Wordpress, Flickr, Tumblr etc). Per massimizzare il loro utile, queste società amministrano con efficacia il potere morbido e pervasivo del default power: il potere di modificare le impostazioni di base di milioni di utenti contando sul fatto che ben pochi le cambieranno. Trovandosi così a disposizione dati sempre nuovi e freschi per una profilazione sempre più precisa. Come cambiare la vita on-line di milioni di utenti in due mosse.

A queste società non interessano la religione o l’idea politica di chi si connette, interessa esclusivamente che le persone rimangano collegate più tempo possibile fornendo più informazioni possibili sulla propria vita. Tutto in nome della trasparenza radicale e della presunta corrispondenza tra identità on-line e off-line.

Non possiamo aspettarci nessun cambiamento sociale dalla rete. L’attivismo da poltrona non ha alcuna incidenza politica. I tempi nei quali la rete poteva essere un territorio di libertà sembrano tramontati del tutto. È il tempo del controllo capillare.

 

Ippolita non propone facili soluzioni ma invita a dare uno stop alla rincorsa della connessione senza fine. Quello che abbiamo da perdere è molto più grande di quello che potremmo mai guadagnare scambiando file e opinioni sul nostro social network preferito.

C’è in gioco un futuro edulcorato e privo di prospettive, fatto di appagamenti tanto immediati quanto fittizi, perdita di autonomia, impoverimento di competenze e modalità di delega sempre più diffuse.

Ciò che auspica Ippolita è riuscire a riappropriarci dei nostri corpi e dei nostri desideri – mani, cervello e cuore – per dare vita a forme di socialità e tecnologia finalmente a misura d’uomo.

 

 

Il gruppo di ricerca Ippolita nasce attorno alla scrittura di Open non è free. Comunità digitali tra etica hacker e mercato globale, nel 2005, testo pubblicato copyleft per Eleuthera. Nel 2007 esce per Feltrinelli Luci e ombre di Google. Futuro e passato dell’industria dei metadati, con licenza Creative Commons by-nc-sa. L’anno successivo viene pubblicato anche in Francia da Payot & Rivages e in Spagna nel 2010 da Virus editorial di Barcellona.

Payot & Rivages pubblicherà il prossimo Settembre 2012 Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesadell’anarco-capitalismo, mentre dalla fine maggio è disponibile in Spagna per opera diEnclave Ediciones.

In italiano il libro è acquistabile sul sito http://ippolita.net in formato EPUB e PDF, ed è leggibile interamente e gratuitamente via web.

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