Una lettura sociologica / Verso una definizione operativa di “populismo”

29 Maggio 2017

Quanto più si consolidano i successi delle formazioni populiste, specialmente nell’Occidente avanzato, tanto più gli intellettuali si interrogano sul significato di tale fenomeno e sulla plausibilità di tale concetto che, a ben vedere, significa cose diverse in contesti diversi ma pare conservare un suo nucleo di caratteristiche stabili. Una sorta di DNA mutevole che rimane riconoscibile nel suo excursus storico e nel suo adattamento geografico, come nel movimento che esso attua all’interno della stratificazione di classe, nei diversi sistemi sociali esaminati. Dunque, alla polisemia del concetto corrisponde una proteiformità dei fenomeni a cui esso si riferisce. Manuel Anselmi, nel suo libro Populismo. Teorie e problemi (Mondadori università, 2017), recupera la categoria wittgensteiniana di “somiglianza di famiglie”, che il filosofo austriaco sviluppava a partire dalla nozione di gioco linguistico (e ripresa anche dalla prefazione di C. Ruzza), proprio per mostrare come le diverse forme di populismo esprimono forti assonanze tra loro ma mai una sostanziale identità. 

 

Nell’introduzione al testo, l’autore esordisce con uno studio di Marco D’Eramo che esamina il numero di pubblicazioni su tale fenomeno registrate nel catalogo della University of California tra gli anni ottanta, circa 557, gli anni novanta in cui il numero raddoppia, e gli anni più recenti in cui, nel solo intervallo tra il 2010 e il 2013, ci sono più di 1046 titoli. La ricerca, che rischia di schiacciare l’intero discorso su un livello d’analisi quantitativo, in realtà ci dice molto sul ruolo della tendenza culturale in atto e sul modo in cui la riflessione accademica partecipa alla diffusione del fenomeno socio-politico in una sorta di profezia che s’autoadempie. Inoltre la stessa disamina ci offre una chiave per capire la struttura del libro: se il populismo ha una lunga storia alle sue spalle e una notevole varietà di applicazioni, gli anni recenti sono quelli in cui esso raggiunge un livello di espressività e di rilevanza politica forse sino ad ora inaudite. Nella medesima introduzione Anselmi riassume tre chiavi interpretative per orientare il lettore: 1) leggere il fenomeno più come questione sociologica che politologica; 2) il rapporto tra il populismo e la questione della sovranità popolare; 3) una epistemologa della complessità che sfugge alla tentazione di ridurre il fenomeno a una semplice patologia disfunzionale per il sistema. Inoltre l’autore ci tiene a spiegare la struttura stessa del libro attraverso le due categorie di diacronico e sincronico: la prima riguarda l’evoluzione del dibattito sul populismo con riferimento ai diversi contesti in cui è attecchito, la seconda si riferisce alla seconda sezione in cui appunto i capitoli affrontano sincronicamente le analogie tra le diverse manifestazioni concrete di tale categoria. 

 

La prima sezione (diacronica) sugli autori che hanno affrontato tale questione nella storia del pensiero socio-politico, è inaugurata dall’approccio di G. Germani. Lo studioso migrò dall’Italia mussoliniana alla volta di Buenos Aires a causa di un arresto che subì per via delle sue iniziative antifasciste, per poi giungere nel 1966 a insegnare a Harvard e chiudere infine la sua carriera di accademico a Napoli negli anni settanta. Lo studioso interpreta il fenomeno come variabile dipendente dal processo di modernizzazione e di mobilitazione delle masse, ovvero come inserito nella più generale questione weberiana della secolarizzazione. La mobilità sociale che produce nuovi conflitti e rotture di equilibri tradizionali è difatti destinata a istituzionalizzarsi, soppiantando appunto il valore della tradizione con quello del mutamento sociale. Se l’ideologizzazione delle masse accomuna il fascismo e il peronismo, Germani è attento a sviscerare le differenze sostanziali tra tali ideologie. Laddove nel fascismo è centrale il rapporto tra la classe media e i ceti più abbienti come forma di “mobilitazione dall’alto” volta a controllare le classi subalterne, il peronismo si configura come un'ideologia multiclassista e dal basso, in cui la classe media si “allea” con quelle subalterne. 

 

Se nel fascismo italiano le classi più alte e aristocratiche si alleano con la classe media in un’azione di controllo delle classi subalterne, anche in una ottica di contrasto di una mobilitazione bolscevica, nel nazionalpopulismo invece l’alleanza sociale avviene tra la classe media e le classi più basse contro le classi più alte, espressione di un’alleanza di poteri, con orientamento liberale, però basata su una strutturazione sociale precedente alla modernizzazione (ibidem).

A ben vedere la declinazione argentina di questo “populismo oligarchico” traduce il sostegno delle classi subalterne nei termini di una organizzazione patriarcale-latifondista che pertanto tradisce sia la premessa logica della alleanza multiclassista, sia l’ideale stesso della mobilitazione sociale che viene invece incanalata verso l’organizzazione militare in cui i ceti popolari sono cooptati e ordinati.

 

Nella sua trasformazione successiva il nazionalpopulismo argentino muove dalla base contadina a quella urbana, traducendosi in un processo di “urbanizzazione delle masse” che sarà utilizzato da Péron come fondamento per una nuova strategia di creazione del consenso. Anselmi chiude il paragrafo con una nota sull’utilità dello “schema interpretativo della mobilitazione” per comprendere ad esempio le più recenti forme di populismo mediatico determinate dalla diffusione globale del web. Ma forse, senza volersi spingere così in fondo sul fronte della comunicazione mediatica, basterebbe sottolineare la simmetria inversa tra un populismo tradizionale che precede la formazione di una classe media urbana e industriale, contro invece l’attuale populismo che nasce proprio dallo sfascio, dallo sfilacciamento e dal drammatico impoverimento dei ceti medi. 

 

 

Anselmi è molto più sintetico sull’opera di E. Shils, di cui sottolinea principalmente il riferimento a un periodo storico peculiare come quello del maccartismo e della famigerata caccia alle streghe. Non a caso lo studioso americano fu intellettualmente vicino allo struttural-funzionalismo di T. Parsons, da cui riprese una certa preoccupazione nei confronti di fenomeni sociali capaci di minacciare l’equilibrio del sistema sociale. Il tema dell’equilibrio è difatti centrale nella relazione tra i macrosistemi che caratterizzano le società moderne e liberali. Il bilanciamento tra le tre dimensioni della privacy, della secrecy e della publicity, garantisce un funzionamento efficiente del sistema sociale e politico, a differenza dei regimi in cui la dimensione pubblica prevale su quella privata e quella della segretezza su entrambe. Il paese in cui tale equilibrio raggiunge le sue proporzioni ottimali è la Gran Bretagna che pertanto si configura come il sistema socio-politico più “bilanciato e costitutivamente anti-populistico”, a differenza degli USA in cui invece attecchisce una “cultura essenzialmente populistica”. In ultima analisi Shils è persuaso del fatto che “il populismo identifica la volontà del popolo con la giustizia e con la moralità” conduce i seguaci di tale orientamento a rifiutare tout court la logica squisitamente funzionalista del check and balance, nonché ad avversare élite e ceti intellettuali. 

 

Nel capitolo su Populism. Its Meanings and National Characteristics (1969) curato da G. Ionescu e E. Gellner, Anselmi passa in rassegna i punti di vista degli autori che hanno partecipato alla stesura di questa importante, opera che egli definisce come una “pietra miliare negli studi sul populismo”. Di particolare interesse in questo paragrafo sono le analisi sul rapporto tra populismo e cultura contadina e sul modo in cui esso si è sviluppato in paesi diversi: dagli imprenditori agricoli statunitensi al “trans-class populism” latino americano; dal populismo russo inteso da A. Walicki come una “reazione al capitalismo”  interno ed esterno, sino alle differenze sostanziali tra quest’ultimo e gli altri populismi “contadini” sviluppatisi nell’Europa dell’Est (quello serbo, croato, bulgaro ecc. analizzati dallo stesso Ionescu). Incredibilmente attuale la lunga lista di attributi che, sempre nella stessa opera, P. Miles ascrive al fenomeno e che qui riporto in maniera sintetica:

- il populismo è più moralistico che programmatico; 

- l’aspetto, i modi, lo stile di vita del leader sono fondamentali nel
rapporto con i seguaci; 

- il rapporto leader e massa è quasi di carattere mistico, poiché si basa
su potenti aspetti di identificazione; 

- il populismo è indisciplinato e male organizzato; 

- la sua ideologia è debole e lasca, e ogni tentativo di definizione risulta inutile; 

- è anti-intellettuale; 

- è sempre contro l’establishment e contro l’élite di potere; 

- è incline alle teorie cospirative e incline a forme di violenza inefficienti e di corto respiro; (…)

 

Decisamente più organica l’opera di M. Canovan che, edificandosi a partire dal pensiero di H. Arendt, s’addentra in una sistematica esplorazione delle molteplici forme di populismo a partire dalla già citata teoria wittgensteiniana delle somiglianze linguistiche. La prima differenza sostanziale viene marcata tra il populismo “agrario” già introdotto nel paragrafo precedente e quello “politico”. Nella prima categoria sono presenti, come si è visto, sia il populismo americano che quello russo. Con la differenza che il primo aveva “l’obiettivo di sganciarsi dalla subalternità dei monopolisti federali… i quali lucravano a vantaggio degli stessi produttori” e che pertanto traduceva tale interesse economico in un’azione politica contro le élite plutocratiche e i politici nazionali. Al contrario quello russo è un “populismo dell’intellighenzia proposto alle classi sociali rurali, la cui dottrina è tesa a glorificare lo stile di vita rurale in chiave antimoderna, protosocialista e sulla base di un sentimento di riscoperta delle radici slave”.

 

Tra gli autori che hanno contribuito a svecchiare la riflessione sul populismo, Anselmi colloca Ernesto Laclau, preso in considerazione anche per il suo tentativo di proporre una riconcettualizzazione del marxismo in chiave più avanzata, soprattutto con il riferimento a una tradizione di studi – Gramsci, Lacan, Althusser – che a ben vedere è la stessa a cui fanno riferimento i Cultural Studies. Del resto, come i secondi si appoggiano sulla semiotica di Barthes e di Eco, anche Laclau dà grande valore all’analisi del linguaggio, soprattutto quella di “Ferdinand De Sassurre secondo cui il linguaggio è un fatto sociale” (p. 33). La costruzione del “soggetto popolo” è difatti un atto principalmente linguistico che è determinato dall’applicazione di due principi: quello equivalenziale e quello della differenza. Se il primo riguarda un’attivazione e una mobilitazione del popolo dal basso, il secondo invece riguarda una penetrazione del potere nell’ambito dell’organizzazione sociale attraverso una modalità che, usando riferimenti diversi, potremmo oggi definire biopolitica. La spinta postmarxista dell’autore tende difatti a superare alcuni concetti classici della politologica, come quello di proletariato, classe sociale ecc. riferendosi invece a “nuove soggettività sociali”. Il populismo risulta in ultima analisi come un concetto neutro, né positivo né negativo, che è stato corrotto da una certa vulgata neoliberista ma che in realtà indica qualcosa di molto più essenziale, ovvero (un po’ come per Canvan): una “forma originaria del politico”.

 

Nella seconda parte del libro, pur recuperando parecchi temi già discussi nella prima parte, Anselmi si concentra sul fenomeno dei nuovi populismi che, citando lo studio curato da G. Mazzoleni, J. Stewart, B. Horsfield (The media and neo-populism: A contemporary comparative analysis, Greenwood Publishing Group, 2003), riguarda lo stadio in cui le democrazie occidentali sono caratterizzate da “processi di glocalizzazione, dalla ipermediatizzazione della sfera pubblica e della politica in genere e dalla crisi di legittimità dei sistemi di rappresentanza politica”. Soprattutto nel capitolo terzo della seconda sezione l’autore esamina il fenomeno del neopopulismo alla luce di tre categorie fondamentali – ideologia, strategia e discorso – che vengono sistematizzati in una tabella sinottica tratta da Gidron e Bonikoskwy. Di particolare interesse è l’analisi svolta nel capitolo sesto, in cui il neopopulismo è considerato in relazione alla variabile indipendente delle trasformazioni economiche e sociodemografiche che investono le società nella globalizzazione. Il libro si conclude con la proposta di una definizione operativa di populismo che offre alla comunità degli studiosi uno strumento euristico capace di orientare le ricerche future e al lettore comune la capacità di discernere rispetto alla spaventosa moltiplicazione di interpretazioni mediatiche e prét-â-penser del fenomeno.

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