Venezia / Paesi e città

Venezia non è un pesce, come ha suggerito Tiziano Scarpa, ma un labirinto. Esattamente come la rappresentò, nel 1500, con le sue tavole incise nel legno di pero, Jacopo de' Barbari, nella sua sorprendente Veduta a volo d’uccello. Una Venezia disabitata, quasi spettrale, che fa venire le vertigini per la precisione dei suoi dettagli. La sua infinita tortuosità, esaltata in quell’antica mappa, mi fa ricordare le piste per la corsa delle palline sulla spiaggia del Lido. Le costruivamo scegliendo il bambino più piccolo, e leggero, e trascinandolo per le gambe, come fosse un aratro, su e giù per l'arenile fino a riportarlo al punto di partenza per chiudere quegli arzigogolati circuiti, inutili a qualsiasi gara. Le calli e i ponti, che spesso non conducono da nessuna parte e ti fanno tornare al punto di partenza, mi riportano a quei giochi. Quando ci si perde per Venezia si riacquistano le immagini del proprio passato, attraverso piste attorcigliate.
C’è un dettaglio che Jacopo de’ Barbari non poteva mettere a fuoco e che è frequente meta delle mie visite e utile appiglio per i miei ricordi. Nell’alto e vecchio muro che delimita la Corte Centani, sulla Fondamenta Venier dai Leoni, dietro la Fondazione Guggenheim, a tre metri d’altezza, sta conficcata una testina di marmo bianco. Sembra un fantasma, o uno Zefiro, che voleva sbucar fuori, ma è rimasto impigliato nel momento di trapassare i mattoni. E’ il volto di un rubicondo ragazzo con le guance gonfie e la bocca contratta come se stesse per emettere un soffio.
Venezia è piena di pezzi di statue antiche incastonate negli angoli e nelle pareti dei suoi palazzi. Come le statue dei Mori, che danno il nome alla Fondamenta e al Campo. Uno se li trova di fianco all’improvviso, alla sua altezza, come viandanti freddi e misteriosi.
Questi frammenti mostrano come parte della bellezza di Venezia sia stata costruita con le razzie dei palazzi dell’Oriente. Ogni nave che tornava portava – anzi: doveva per obbligo riportare – statue, colonne, pavimenti che servivano ad abbellire la città. La Basilica di San Marco è l’esempio più vistoso di un patchwork di furti, un collage di stili e materiali, estratti dal loro contesto e funzioni originali, che la rendono unica e inimitabile. Penso che così anch’io scrivo quando racconto miei ricordi: a volte rubo pezzi da altre storie, incastonandoli nelle mie.
La natura arlecchinesca degli edifici Veneziani la rende una città allegra. Chi l’ha cantata malinconica o, peggio ancora, triste ha preso un abbaglio (cosa per altro facile perché la città si fonda su continui abbagli ed equivoci). Succede come al Carnevale che un po’ alla volta è scivolato nel novero degli eventi malinconici, confondendosi con la successiva Quaresima. La distinzione ormai non è più netta: proprio come ne La lotta tra Carnevale e Quaresima di Pieter Bruegel il Vecchio, dove la miriade brulicante di personaggi non permette di capire dove sta lo scherzo e dove la moderazione. Venezia, anche in mezzo alla nebbia, la fredda pioggia e l’acqua alta, non cessa di comunicare allegria. E’ come se le acque della laguna (che sono dolci e salate assieme) confondessero e nascondessero le differenze, ma facessero alla fine emergere sempre il suo aspetto più bello e gioioso (che ben rappresentarono Canaletto e il nipote Bernardo Bellotto, prima che arrivassero il Guardi a riequilibrare quei panorami con un po’ malinconia e Turner con gli abbagli della luce).
Se non si rischiasse di prendersi una salatissima multa, almeno una volta nella vita si dovrebbe entrare in Piazza San Marco, come mi capitò quand’ero all’Università. Ero andato a trovare a Venezia un’amica che aveva una parente che abitava uno sbocconcellato appartamento di un palazzo ammuffito sulla riva sinistra del Canal Grande, appena oltre il Ponte dell’Accademia. Là vi si organizzavano delle feste caratterizzate dall’inesauribile disponibilità di bevande alcooliche. Una sera, ormai assai brillo, tentai di riprender la padronanza della mia testa con un po’ di aria fresca scendendo sul pontile. C’era l’acqua alta. Così salii sulla barca lì ormeggiata. Sciolsi la gomena e, con il motorino al minimo, percorsi il Canal Grande in direzione del mare. Era buio, freddo e nebbioso: si distingueva a mala pena l’altra riva. Arrivato all’altezza del Palazzo Ducale virai a sinistra, galleggiando sull’acqua che copriva la Riva degli Schiavoni. Passai tra le due colonne sormontate dal San Teodoro vittorioso sul drago, qui più simile a un coccodrillo, e dal leone alato con il libro e, a pelo del pavimento, navigai fin dentro Piazza San Marco. Le piccole onde riflettevano gli edifici, increspandoli e ingigantendoli. Non c’era nessuno e l’unico rumore era lo sciabordio della barca che fendeva l’acqua. Là nel mezzo, alla luce incerta dei lampioni, guardavo San Marco e mi sembrava di esser dentro la vasca di Bagno Vignoni, che suggestionò Andrej Tarkovskij nel suo film sulla nostalgia. Al centro del colonnato di quella meravigliosa piscina temporanea, rividi tutta la mia vita nel modo che capitò a Fabrizia Raimondino, ne L'isola riflessa, quando si ritirò a Ventotene per cercare di riattaccare, tra alcool e pillole, i pezzi della sua vita: “Come quando si guarda un film che si riavvolge velocemente a ritroso, così mi appare la mia vita passata, scene comiche o insensate, dove ogni gesto è a scatti, ogni parola è inghiottita da un indistinto borbottio, come avessi avuto fretta, di arrivare alla fine - che è poi l'inizio”.
E’ così si capisce cosa intendesse il poeta che scrisse che Venezia era costuita dalle visioni dei sogni e lo scrittore polacco-napoletano Gustaw Herling che l’ammirava “per il particolare legame, verrebbe da dire per il connubio, tra sonno e veglia”.
Venezia è ritenuta una città romantica. Per questo convergono su di lei milioni di innamorati. Le sue calli e i suoi campi pullulano di persone che si guardano teneramente negli occhi, si abbracciano e scambiano carezze. E poi, sui ponti, si baciano appassionatamente. E più in basso, sul limitare dei canali, in precario equilibrio su seggiolini pieghevoli, decine di pittori e acquarelliste fissano, come membri di un coro celebrativo, i contorcimenti luminosi delle nuvole e le luci sbieche sulle antiche pietre. Certo, per chi è solo e triste, non è un bello spettacolo tutta quella felicità ostentata. Ma bisogna esser molto egoisti, o totalmente ripiegati suoi propri dolori, per non venir contagiati da quell’allegra esuberanza amorosa, e dimenticare per un po’ che Venezia sta morendo. Non soltanto perché ogni giorno viene corrosa ed erosa, schiacciata e calpestata: soffocata dal Falso e dalla paccottiglia. E dalla provincialissima convinzione di molti suoi abitanti che tutto sia già stato e non ci sia futuro. Da sempre, per questioni di attrezzature mentali, c’è troppa diffidenza verso tutto ciò che viene da fuori. Ancor oggi il nuovo è considerato pericoloso: come il bel palazzo progettato da Frank Lloyd Wright per l’amico Masieri (1953), che doveva arricchire il Canal Grande e fu respinto a furor di popolino (capeggiato da Antonio Cederna), o il nuovo ponte di Calatrava che ora da il senso sicuro di una spina dorsale all’entrata in città, ma molti veneziani continuano a considerare brutto e sdrucciolevole (finendo per scivolarci davvero). Però nessuno fa una piega se il Ponte dei Sospiri è incorniciato da volgari cartelloni pubblicitari o i palazzi da restaurare vengono coperti da illuminate immagini davvero improprie. Venezia non può finire coll’assomigliare a un piatto e triste fondale di teatro.

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