Steve Earle. Non uscirò vivo da questo mondo

30 Agosto 2013

Steve Earle ė uno dei cantautori più conosciuti e controversi della musica country-rock contemporanea. La sua fortunata carriera – interrotta più volte da turbolente vicende personali – ha inizio nei primi anni ’70, quando si introduce, ancora giovanissimo, nella scena underground texana, entrando in contatto con alcuni tra più dotati songwriters dell'epoca. Tra questi spiccano, per qualità della scrittura, tre nomi: Townes Van Zandt (considerato da Steve Earle il proprio maestro), Guy Clark (recentemente indicato da Bob Dylan come uno dei suoi cantautori preferiti) e Blaze Foley (meno conosciuto degli altri due a causa della prematura scomparsa, nel 1989, durante una sparatoria).

 

Nel bellissimo documentario Heartworn Highways, girato da James Szalapski nel 1976, Steve Earle, appena ventunenne, viene invitato da Guy Clark ad eseguire alcune delle sue prime composizioni, che colpiscono per la maturità e la pulizia della scrittura.





Durante l’assidua e prolungata frequentazione del circuito underground del Texas e del Tennessee, il giovane cantautore non apprende solo il mestiere, ma assimila anche lo stile di vita sregolato e gli sfrenati consumi di alcol e sostanze, fino al punto di superare i propri maestri, non nella scrittura, ma negli eccessi.
Così, quando finalmente arriva il grande successo con gli album Guitar Town (1984) e Copperhead Road (1986), Steve Earle ha ormai assunto la mitologia outlaw come modello estetico e comportamentale: eroinomane, look da motociclista ribelle e tour infiniti. L’unica cosa che lo distingue dagli altri outlaws della sua generazione – oltre all’indubbia qualità delle sue canzoni – è la spiccata sensibilità ai temi politici (un elemento destinato a intensificarsi negli anni 2000, durante i quali diventerà una delle voci musicali più impegnate contro le politiche di George Bush).



La corsa autodistruttiva di Steve Earle si interrompe bruscamente nel 1993, quando viene arrestato per possesso di stupefacenti. Trascorrerà due mesi in carcere e un lungo periodo in un centro di riabilitazione. Negli anni successivi inciderà alcuni tra i dischi più belli della sua carriera (in particolare Train a’ Coming, The Mountain e Transcendental Blues).

 

 

L’esperienza della dipendenza è certamente una delle fonti di ispirazione principali del romanzo Non uscirò mai vivo da questo mondo (Mondadori, 17,50 euro). La citazione è esplicita: “I'll never get out of this worldwide alive” è il titolo dell’ultimo singolo di Hank Williams, che raggiunse il primo posto in classifica pochi giorni prima della sua misteriosa morte avvenuta il primo gennaio del 1953.

 

Il protagonista Doc Ebersole - ampiamente ispirato al dottor P.H. Cardwell, che era solito prendersi cura, nel bene e nel male, delle abitudini di Hank Williams - è un medico tossicodipendente che vive nel malfamato quartiere a luci rosse nella zona sud di San Antonio, Texas. In seguito al ritiro della licenza, si trova costretto a praticare aborti clandestini per mantenere il proprio vizio. È così che incontra Graciela, giovanissima messicana dotata di misteriosi poteri curativi. Quando è sotto effetto della sostanza, Doc è perseguitato dal fantasma di Hank Williams, al quale procurava la morfina negli ultimi anni di vita. In città si mormora addirittura che sia stato proprio Doc a somministrare a Hank l’ultima dose letale. Il romanzo è ambientato nel 1963, sullo sfondo dell’omicidio Kennedy.

 

 

La prosa di Steve Earle risulta particolarmente efficace nel descrivere minuziosamente la dimensione psicologica e quotidiana della tossicodipendenza. Ma il ritmo della narrazione è altalenante e i personaggi, ad eccezione del protagonista, mancano spesso di profondità. A differenza del libro precedente, una riuscita raccolta di racconti brevi (Le rose della colpa, Meridiano Zero, 2005), l’autore fatica a dominare l’estensione dell’intreccio romanzesco.

 

Tuttavia, la vera debolezza del romanzo risiede nell’immagine che restituisce dell’universo della country music, un’immagine che riflette gran parte degli stereotipi che ne hanno permesso la rivalutazione contemporanea da parte della cultura liberal statunitense. In effetti, dopo aver liquidato per anni la musica country come sciovinista e conservatrice, ridicolizzandone i contenuti e gli stili musicali, la controcultura americana recupera oggi quella stessa musica attraverso un immaginario altrettanto mistificante: marginalità, autenticità, sottoproletariato, tormento, droga, alcol, maledizione, redenzione. Tutti elementi certamente presenti nella musica country. Ma considerarli il cuore puro, la natura autentica della sua poetica significa non cogliere la complessità e le contraddizioni sociali che stanno alla base del genere musicale più ascoltato dalla working class bianca americana. Che la si consideri musica dei padroni o musica degli outcast, ciò che resta fuori è proprio la dimensione storica e sociale della country music, strettamente intrecciata con il mondo operaio statunitense.
Purtroppo nemmeno un cantautore raffinato, e tutt'altro che politicamente ingenuo, come Steve Earle sfugge a questa trappola nel momento in cui si cala nei panni dello scrittore.

 

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