Esercizi di sguardo sul paesaggio / Il cannocchiale del tenente Dumont

9 Settembre 2021

Non so di quale pasta siano fatti i liguri, ma quando penso al paesaggio della Liguria, alla sua verticalità quasi metafisica, unita all’orizzontalità del mare, come la vedeva Calvino in La strada di San Giovanni, dove le salite e le discese, insieme ai terrazzamenti e allo sguardo individuano le autentiche dimensioni del paesaggio, mi viene subito in mente Marino Magliani, che è nato a Dolcedo, un paesino della Val Prino, in provincia d’Imperia. Marino Magliani è un autore che ha girovagato in lungo e in largo per il mondo, prima di cominciare a pubblicare. A un certo punto, in uno dei suoi viaggi in Sudamerica, si è fermato a Lincoln, un paese che si trova in mezzo alla pampa argentina (nella pampa, comunque, tutto si trova in mezzo, anche i posti di confine).

 

Di questa esperienza a Lincoln ne ha parlato in un romanzo del 2011 dal titolo La spiaggia dei cani romantici, per poi tornarci sette anni dopo con Prima che te lo dicano altri (finalista dell’edizione 2019 del Premio Bancarella). Dopo il suo ritorno dal Sudamerica e dopo aver girovagato ancora un po’ per il mondo, facendo i mestieri più svariati, il destino lo ha portato a fermarsi in una cittadina costiera dell’Olanda settentrionale, sul Mare del Nord, in una penisola spazzata perennemente dal vento (Soggiorno a Zeewijk del 2014 e Il canale bracco del 2015 sono alcuni dei libri che raccontano la sua vita da quasi esule). Lì, all’imboccatura del Noordzeekanaal, oltre a scrivere e a condurre una vita solitaria, traduce all’italiano i grandi autori sudamericani come, per esempio, Roberto Arlt (Acqueforti di Buenos Aires e Acqueforti spagnole), Enrique González Tuñón (Letti da un soldo), Ricardo Güiraldes (Xaimaca), César Vallejo (Paco Yunque), Haroldo Conti (Sudeste e Marcaró), Daniel Guebel (L’uomo che inventava le città) e tanti altri; alcuni dei quali, tra cui Noé Jitrik (I lenti tran), Eugenio Cambaceres (Sin rumbo) e i già citati Harldo Conti ed Enrique González Tuñón, sono autori tradotti per la prima volta in Italia da Magliani stesso.

 

Come ha detto Francesco Biamonti, autore di riferimento per tutti i liguri, “l’uomo è un essere di lontananza, se non getta ogni tanto lo sguardo lontano non vede neppure quello che ha vicino” e Marino Magliani, abituato agli altrove, non ha mai dimenticato la sua Liguria e i suoi caruggi, i boschi, gli uliveti e le rocce sul mare, ritornano sempre nei suoi numerosi libri. E in una Liguria a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dove la gente “giunge stanca morta a casa e beve vino gramo per calmare il dolore e la fatica”, ha ambientato anche il suo ultimo romanzo, Il cannocchiale del tenente Dumont, pubblicato dall’editore L’orma, nella collana dei Trabucchi, di 286 pagine (testo che prende le mosse da un vecchio racconto di Magliani, L’estate dopo Marengo, uscito nel 2003). È la storia di tre soldati napoleonici che disertano le file dell’esercito francese dopo Marengo, “la battaglia che alle cinque era persa alle sette è stata vinta”. E proprio alle cinque, Dumont e Urruti risultano tra gli sbandati e forse non sapranno mai se quella campagna sia stata vinta o persa.

 

È un romanzo potente, con descrizioni puntuali che ricostruiscono, con una voce poetica e immaginaria, i paesaggi di una Liguria ottocentesca: “Lo spettacolo della vegetazione, fin su per le fiancate, è in ciò che manca: il colpo di luna sulla rugiada; e in ciò che si sente: il filo d’acqua del corso e la brezza e poco lontano le rane, quelle di ieri notte, che s’alternano a quelle di stanotte. I giorni dell’attesa lungo i torrenti non si ripetono come il resto, non si danno il cambio, è solo come se allungassero un rantolo. Se sommassero paure”.

 

 

 

Raccontato a più voci, come un grande dipinto, e ricostruito sulla base di carteggi, dispacci, osservazioni e appunti che un medico olandese di nome Johan Zomer, incaricato da una commissione voluta da Napoleone, riporta per fare il punto sulla situazione della diffusione dell’hascisc, “consumata in un composto chiamato madjound”. Dunque, si tratta della cronaca di una diserzione. Siamo nel 1799 durante la campagna in Egitto delle truppe francesi accampate sulle rive del lago Maryut (la stessa cornice in cui il filosofo Filone di Alessandria, vissuto tra il I sec​. a.C. e il I sec. d.C., in De vita contemplativa, descrive la comunità ebraica dei Terapeuti, filosofi anacoreti che praticavano l’ascetismo sulle rive di quel lago). In questo posto, il capitano Lemoine, nato in Provenza nel 1768, malato di tisi, il tenente Dumont, classe 1778, nato a Tolosa e Urruti, un soldato basco del 1776, a cui è stata strangolata la mamma quando aveva appena cinque anni, scoprono il potere dell’hashish. I tre tornano in Europa su un veliero, il Carrére, portando con sé una grossa scorta, e sullo stesso veliero viaggia anche il medico olandese, Giovanni Estate, italianizzazione di Johan Zomer, che osserva i comportamenti e i movimenti dei futuri disertori, con l’aiuto di spie ed emissari, tra cui il suo più fidato collaboratore, Victor Pangloss, con l’intento di studiare gli effetti dell’hascisc sull’esercito (ciò che d’ora in poi sapremo dei tre militari si trova documentato tra le carte di Zomer e sarà custodito in una cartella col titolo di Mareotis). 

 

La parte centrale del romanzo riguarda la fuga dei tre dal confine piemontese fino ai verdi ulivi della Liguria: “Dopo aver dissertato a Marengo non hanno mai comunicato con nessuno, si sono rifugiati sui monti e lungo i torrenti dove sopravvivono nutrendosi di erbe, frutta e asparagi”. La loro meta è un paesone di nome Porto Maurizio, sul quale il capitano Philippe Lemoine fonda le sue speranze, “pare conservi conoscenze in grado di procurare loro un imbarco clandestino”. È un viaggio con una meta che si sposta di continuo e che li vedrà muoversi a piedi, di vallata in vallata, attraverso una Liguria rurale, puntando verso un porto dove sperano di imbarcarsi per fuggire e cambiare vita. Si spostano, esausti e scoraggiati dalla guerra, in un luogo impervio, di cui non possono fidarsi.

 

Il mare, presente anche quando scompare al loro sguardo, “sta alla fine delle parole, per dire che c’è e si vede galleggiare la Corsica”.

È un romanzo incentrato sullo sguardo ed è spesso l’occhio del tenente Dumont che scruta l’orizzonte attraverso il cannocchiale a darci la misura del paesaggio e a registrare la vita rurale tra i boschi. Dunque, l’esercizio dell’occhio, amplificato dal cannocchiale, ci restituisce una visione che si pone sempre oltre la soglia di un confine che man mano si trasforma in un sogno da raggiungere. Ed è attraverso le sue osservazioni che il tenente Dumont vorrebbe sottrarsi alle conquiste e ad ogni sorta di protagonismo per abbracciare la semplicità di una vita più distaccata e più autentica di quella che finora lo ha visto tra le file napoleoniche.

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