Microfoni & Macerie

21 Marzo 2011

Il 17 marzo 2011, a Milano, è morto Giorgio Medail. Era nato a Dolo, Venezia, il 4 settembre 1945. È stato giornalista, conduttore, autore radiofonico e televisivo. Prima però, ha lavorato alla Edilnord di Silvio Berlusconi e, solo qualche anno dopo, è diventato, come si dice in questi casi, uno dei pionieri della tv commerciale italiana, tra i primi a lavorare per Telemilano Canale 58, emittente da cui nascerà Canale 5. Tra il 1983 e il 1985 ha seguito tutti i viaggi del Presidente del Consiglio, Bettino Craxi. È stato autore di TeleMike, ideatore della testata giornalistica Ciak, che forniva i servizi di spettacolo per i tre Tg Mediaset. Ha lavorato per molti anni in radio, a Rtl. Da giugno 2007 ad agosto 2008 ha diretto La tv della Libertà. Negli ultimi tempi era dirigente della struttura di missione per il rilancio dell’immagine dell’Italia, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Molte informazioni di questa breve scheda sono fornite proprio dal sito della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

 

I principali siti dei quotidiani online, lo hanno ricordato con questo video.

 

Geiar. Dallas è tornato qui, a Canale 5, ha detto Giorgio Medail, nel 1982.

 

Qui era Canale 5.

 

Qui era il marciapiede a pochi passi dal Duomo.

 

Milano era già diventata la tv di Berlusconi. Quando Berlusconi ha fondato Forza Italia, Giorgio Medail lavorava per Italia 1, nel 1993/1994. Conduceva una trasmissione intitolata Qui Italia, poco prima di pranzo. Era la solita sequenza di interviste, allestite attorno a piazza Duomo, a Milano. Non si parlava più di Dallas e J. R. Ewing ma, esplicitamente, di politica, e di Silvio Berlusconi. Giorgio Medail indossava un grande cappotto scuro tipo mantello, portava un cappello e aveva ancora la barba. Sembrava un pubblicitario miliardario travestito da brigante. Aveva un tono deciso, inquisitorio. “Mi dica, in che cosa può essere utile Berlusconi?” Quasi tutti gli intervistati (in una puntata cinque su sette avevano espresso intenzione di voto per Berlusconi, ma quasi sempre la media era più alta) manifestavano entusiasmo per Berlusconi, ripetevano le frasi standard che abbiamo imparato a memoria in questi decenni: “persona seria, bravo imprenditore, magari ne girassero tanti come lui, una faccia nuova, uno che non fa politica per i soldi, i soldi ce li ha già, è uno che va provato, ha carisma, sul mercato è andato alla grande, abbiamo bisogno di lui, delle sue idee, ci darebbe, a noi italiani, un grande aiuto culturale, lui e i suoi collaboratori validissimi.” Queste dichiarazioni le ho prese da un articolo d’epoca, pagina 6 di “Repubblica”, uscito il 19 dicembre 1993, a firma di Alessandra Longo. Purtroppo non ho trovato in rete video di Qui Italia.

 

Ho visto per la prima volta Qui Italia, una domenica mattina, nell’inverno del 1994. Già il titolo era un rimando a Forza Italia. Qui non era più soltanto Canale 5 e Milano, qui era - ed è - l’Italia. Giorgio Medail allestiva le interviste con una naturalezza, una casualità, che il montaggio uccideva e al tempo stesso ricreava. Le persone rappresentavano l’opinione della strada, ma quella non era la realtà, non era la strada, perché solo attraverso il voto - il voto dichiarato e poi effettivamente dato a Silvio Berlusconi - quelle persone si trasformavano in realtà. Prima non erano né opinioni né desideri. Soltanto televisione. La bolla entro la quale, ripeteva Silvio Berlusconi, bisognava trattare i telespettatori come se fossero bambini, perché, come diceva Berlusconi, “la media del pubblico italiano rappresenta l’evoluzione mentale di un ragazzo che fa la seconda media, e che non sta nemmeno seduto nei primi banchi”. Quella domenica mattina, avevo appena compiuto ventisei anni, Giorgio Medail aspettava con il microfono in mano un uomo che saliva i gradini della metropolitana. Si è avvicinato e gli ha chiesto un parere sull’entrata in politica di Berlusconi. L’uomo era entusiasta di Berlusconi, delle qualità imprenditoriali di Berlusconi, molto ottimista per il futuro politico di Berlusconi e dell’Italia. L’uomo era il figlio della vicina di casa di mia nonna. Aveva una dozzina d’anni più di me. Ovviamente non era un passante casuale. Emigrato dopo la laurea a Milano, lavorava a Canale 5. In seguito, sarebbe entrato nei Ds per diventare il vicesindaco di Arcore, con delega all’urbanistica, prima di fondare un gruppo neocon e prendere la tessera di Forza Italia, nel 2005. Attualmente lavora nella redazione di Studio Aperto.

 

Ci siamo abituati a tante cose in questi decenni. Abbiamo assorbito, per difenderci, un senso di stanchezza, a volte di cinismo, diciamo, eh sì, lo sappiamo, sappiamo tutto, lo sappiamo tutti, dove sta la novità? Ma quando, a ventisei anni, ho visto il figlio della vicina di casa di mia nonna, che fingeva di passare per caso davanti al microfono di Giorgio Medail, in un programma intitolato Qui Italia, in cui ogni parola, ogni pausa, ogni inclinazione del microfono, ogni spicchio di inquadratura era uno spot elettorale - spacciato per inchiesta - in favore di Silvio Berlusconi, mi sono spaventato. Pensavo che azioni così mirate appartenessero a un mondo distante, non al figlio della vicina di casa di mia nonna. Avevo parlato con il finto intervistato quando ero poco più che ragazzino, anni prima, durante le vacanze estive. Mi aveva raccontato dei sentieri di montagna sul Pollino, al confine tra Basilicata e Calabria; aveva parlato del pino loricato, magnifico albero presente solo in quella zona d’Italia e in alcune aree della Grecia. Ma nel 1994 che importanza poteva avere un pino loricato a confronto della scheda elettorale, del microfono di Giorgio Medail? Ho capito che le nostre esistenze erano oramai intossicate da un errore iniziale. Un po’ come quando si organizzano eventi in un centro commerciale: c’è pur sempre soltanto la merce in sottofondo a dare senso al tutto. E ogni gesto, come uscire dalla metropolitana, poteva essere utile a Silvio Berlusconi e al suo gruppo di potere: la ricetta di una spaghettata, il soffritto nella padella, l’immagine di un ombrellone, il tramonto, la neve di dicembre, un marciapiede periferico, una prostituta appoggiata al finestrino aperto di un’auto, l’intervista a un’attrice di fiction, la telecronaca di una partita di calcio, un gol in contropiede.

 

In quel periodo il Milan era allenato da Fabio Capello. Qualche mese dopo aver visto Qui Italia, e dopo la vittoria di Berlusconi alle elezioni del 1994, ho fatto un sogno. Era domenica e il Milan giocava a San Siro. Lo stadio era pieno. Io giocavo nel Milan - sebbene sia tifoso dell’Inter - ma quella domenica ero in panchina. All’inizio del secondo tempo, Tassotti zoppicava. Tassotti era il terzino destro. Capello si è girato verso di me e ha detto: scaldati. Ho iniziato a trotterellare lungo la linea bianca del fallo laterale. Il mio rammarico più grande era non prendere il posto di Maldini, sulla sinistra. Mi vergognavo di me stesso. Passando davanti alla panchina, ho detto a Capello, mister, si ricordi, io sono mancino. Capello non mi ha risposto. Mentre correvo con la tuta e la maglietta del Milan, ho iniziato a sudare, e ho visto il terzo anello dello stadio scomparire con tutte le persone, ma senza una deflagrazione da terremoto, o morti. Allora ho sollevato velocissimo le gambe, come fanno i calciatori quando accelerano il riscaldamento. I giocatori erano vicini a me e passavano silenziosi con uno spostamento d’aria, come se fossero ombre, già morte. Tassotti ha chiesto il cambio, con quel caratteristico movimento di far ruotare le mani come le pale di un mulino. Io ero quasi pronto vicino al guardialinee, quando anche il secondo anello è scomparso. San Siro è diventato un piccolo stadio, sono entrato in campo, il primo anello resisteva, ma era fatto solo di macerie. 

 

 

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