Che ne è stato di Sophie Podolski? / La misteriosa poetessa di Bolaño

22 Maggio 2016

 

“In effetti, leggere è molto più importante che scrivere”. Questa potrebbe essere una frase di Roberto (Bobi) Bazlen, l’illustre scrittore sconosciuto senza libri, consulente graffiante degli editori italiani Adelphi, Einaudi e Bompiani nel suo periodo glorioso. Se fosse stata scritta da Bazlen, la coerenza e il senso della frase sarebbero certamente garantiti. Accade che il suo autore sia un altro Roberto, Bolaño. In un’altra occasione, lo stesso Roberto ha affermato che “leggere è molto più divertente che scrivere”. La dichiarazione suona paradossale, data la vasta letteratura scritta e pubblicata dall’autore, ma per i suoi fedeli lettori, ha perfettamente senso.

 

Una poetica della lettura incarna e dà forza alla letteratura di Bolaño - è qualcosa che si percepisce fin dalla gioventù di poeta infrarrealista in Messico fino al suo romanzo postumo, 2666. Tanto ne è già stato detto. C'è una simpatia nel suo volto che conferma il tono della sua voce narrante e ci avvicina a lui, come se anche noi lettori fossimo stati amici di Bolaño, in qualche momento furtivo della gioventù. Credo che anche coloro per i quali la gioventù non è ancora diventata un passato abbiano quella sensazione. I suoi lettori si riconoscono tra loro come un tipo raro di comunità che non ha paura di manifestare il piacere di tale convivio, sono più vicini ai cinefili che ai lettori in generale.

 

A volte, Bolaño ha fatto della prosa una tecnica particolare per incorporare al racconto di finzione le ossessioni prosaiche di un lettore di poesia. Espone così gli indizi di una storia letteraria da costruire, o persa, tormentata e affascinata dal fantasma di autori che lo hanno preceduto o che ha visto scomparire. Nei suoi libri, Bolaño ci conduce semiciechi attraverso un labirinto di titoli e nomi-enigma. Una scrittura da lettore, dunque, e uno dei rari casi in cui non si gioca la poesia contro la prosa, né si è guidati dal desiderio di eliminare dal prosaico la finzione precaria della vita, verso il cielo del sublime.

 

Come ha scritto Vítor Nogueira, “un agente segreto può essere chiunque”, così il lettore di Bolaño, chiunque sia, diventerà facilmente una spia, raccogliendo gli indizi del piacere della lettura altrui. Degli innumerevoli nomi disseminati in quest’opera (con tutti i brividi che la parola “opera” può ancora produrre), ce ne sono due che non hanno mai smesso di incuriosirmi: Sophie Podolski e il Montfaucon Research Center.

Sophie Podolski, ragazza belga suicida a 22 anni, era un membro del Montfaucon Research Center. A lei Bolaño ha dedicato una poesia, inclusa in La universidad desconocida, in cui dice di essere in partenza per il paese di Sophie, paese del nulla e della metamorfosi lunare. Il suo nome compare anche in Vagabondo in Francia e in Belgio, nelle pagine del diario di Juan García Madero, ne I detective selvaggi, e “Autori che si distanziano” incluso in Tra parentesi. In quest’ultimo, Bolaño si riferisce alla Podolski e al poeta francese Matthieu Messagier come esempi di quegli autori stupendi che sono stati amati e molto letti, ma i cui libri sono da tempo esauriti e introvabili. Questa idea della perdita e di una archeologia impossibile della letteratura ricorre anche in diverse poesie di Bolaño: “Tra mille anni non resterà nulla / di ciò che è stato scritto in questo secolo. / Si leggeranno frasi sciolte, macchie / di donne perdute”. Affinché non tutto si perda o sia dimenticato, Bolaño raccoglie e diffonde alcune tracce di questa letteratura in via di estinzione, come un CroMagnon che lascia il segno in negativo delle sue mani all’interno delle grotte per il piacere e la disperazione degli archeologi selvaggi del futuro.

 

Sono pochi i riferimenti a Sophie Podolski, e sempre in forma ellittica, da ciò certamente giunge il loro potere vibratorio. Bolaño potrebbe avere conosciuto Sophie Podolski personalmente? Improbabile. E poco importa. Potrebbe aver letto Podolski nella rivista francese Tel Quel, che ha pubblicato i suoi scritti in tre delle sue edizioni: nel numero 53 della primavera del 1973; nel numero 55 dell'autunno del 1973; e, postumo, nel numero 74 dell’inverno del 1978. Da quello che sappiamo, si deve allo scrittore Philippe Sollers, uno dei redattori della rivista, la pubblicazione dei brani originali da Le Pays où tout est permis. Un’altra ipotesi è che Bolaño sia venuto a conoscenza di questi testi dalla rivista belga Luna Park, edita da Marc Dachy, che viene citato in Tra parentesi.

 

 

 

Nel 2009, Luna Park ha pubblicato un ritratto di Sollers realizzato dalla Podolski accompagnato da una lettera che cominciava con “Philippe Sollers, ti lancio grandi segnali da lontano su pattini a rotelle. tutta verdina scivolo sul tetto, mentre il mondo urla e fluttua ecc giungendo accanto a te, mi racconti la strana avventura. abbiamo deciso di cercarla nel torrente dove riposa nella magnificenza dei suoi ultimi percorsi [...]”. La lettera è del 29 novembre 1972, Sophie aveva 19 anni. Non sappiamo come si sia creato il contatto tra i redattori di Tel Quel, con sede a Parigi, e il Montfaucon Research Center, che stava a Bruxelles, di cui Sophie era membro. La storia del rapporto tra la letteratura francese e quella belga non è sempre molto chiara, ma un possibile indizio può essere contenuta nella fitta corrispondenza (1958-2008) tra Philippe Sollers e l’autrice belga Dominique Rolin, recentemente depositata nella Biblioteca Reale del Belgio.

 

 

 

Dieci anni prima

 

Nel 2006, sono stata a Barcellona per lavoro. Ho alloggiato in una sorta di nascondiglio che si apriva da una porta segreta situata in una falsa parete dell’Istituto Francese, Carrer de Moià, 8. Se arrivavo all'istituto dopo l’orario di lavoro, dovevo disattivare un ingegnoso sistema di allarme. In caso contrario, la polizia del distretto sarebbe arrivata immediatamente. Il terzo giorno, già procedevo senza paura, sentendomi come MacGyver. Il nascondiglio era in realtà un bell’appartamento con due camere da letto, e vi rimasi per alcuni giorni in compagnia di una curatrice francese. Una notte, mentre passeggiavamo dopo cena, ci siamo imbattute in piccole librerie ancora aperte verso mezzanotte. In una di queste ho acquistato Anversa, di Roberto Bolaño. Due giorni dopo, ero su un treno diretto ad Anversa, dove sarei rimasta per un mese con una sovvenzione da parte del Vlaanderen Pen Center.

 

Arrivai ad Anversa con vaghi progetti di scrivere qualcosa su Paul Van Ostaijen, il poeta tisico, autore di una bella poesia grafica in onore della macchina da cucire Singer. Ma la lettura del libretto di Bolaño mi aveva messo in uno stato d’animo da detective selvaggia, così ho trascorso quel mese rileggendo il libro più volte nel tentativo, certamente stupido, di capire il rapporto tra quel titolo misterioso e le scene slegate di cui è fatto. L’unica vera menzione della città appare nel capitolo intitolato “Anversa”, dove Bolaño parla di un incidente tra un camion carico di maiali che era andato in collisione con un’auto, uccidendo l’autista di questa e vari suini. Ho cercato (invano) negli archivi della città la notizia dell’incidente che coinvolgesse un camion di maiali nel 1970. Un altro indizio era il nome della poetessa belga Sophie Podolski, il cui suicidio all'età di 22 anni è commentato dal narratore con un misto di rimpianto e di identificazione.

 

Anversa è stato scritto nel 1980, poco prima del passaggio di Bolaño poeta alla prosa. Alcuni critici hanno visto in essa l'irruzione della finzione all’interno di una scrittura poetica frammentata. Nell’introduzione, Bolaño stesso afferma che il libro è stato scritto in un periodo di troppo caffè e fumo, rabbia, orgoglio e violenza - quel tipo di violenza che comprende l’autodistruzione e uno spirito critico spietato - un periodo in cui leggeva molta più poesia che prosa. Si tratta di un libro di transizione, che articola il materiale finzionale con il modo aperto della sua poesia.

Bolaño potrebbe essere stato attratto dalla tensione tra una scrittura poetica e delirante e l’impulso narrativo propri della Podolski. Si tratta di una scrittura di difficile lettura, in contro ritmo, in frasi e pensieri che scivolano l’uno sull’altro e si abbandonano. Il cuore si situa nel cervello, e il polmone, nel fegato, tutto molto erotico e tossico, qualcosa di beatnik, e qualcosa di stranamente semplice che irrompe nell’ambiente di una lingua asfissiante.

 

Sophie Podolski ha pubblicato solo un libro, oltre a testi sparsi nelle riviste. Il libro, Le Pays où tout est permis, è stato scritto durante il periodo in cui ha vissuto e lavorato nel Montfaucon Research Center. La prima edizione è stata pubblicata dalle edizioni Montfaucon nel 1972, in fac-simile, e due anni dopo il libro è stato ristampato da Belfond, che lo ha pubblicato accompagnato da una prefazione di Philippe Sollers.

 

 

Ma che cosa esattamente è stato il centro di ricerca di Montfaucon e che tipo di ricerca realizzavano i suoi membri? Ecco una storia ancora da raccontare. Le informazioni sono scarse, di solito note senza fonte o menzioni dubbie. Alcuni vi si riferiscono come a una comunità hippy, altri fanno riferimento esclusivamente ai film realizzati tra la metà degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80. Nella sezione Montfaucon del sito del Centro Georges Pompidou compare solo il nome di Joëlle de la Casinière. In Mille Plateaux, Deleuze inserisce una nota a pié di pagina in relazione al lavoro cinematografico di Joëlle de la Casinière e cita Montfaucon. In una nota biografica, Joëlle attribuisce la fondazione del gruppo a se stessa “e altri nomadi a cui piaceva la poesia grafica e l’arte di vivere”. Nella stessa nota si legge: “Montfaucon, c'est rien qu'un gibet pour les pendre, Research, parce qu'ils ne trouveront jamais, et Center, tiens justement il n'y a pas de centre [... ]”. Un blog menzionava due altri membri del gruppo: Alberto Raposo e Pidwell Tavares. Questi sarebbero due poeti dispersi nelle pieghe della letteratura portoghese, non fossero in realtà che una sola persona: Alberto Raposo Tavares Pidwell, meglio conosciuto nel mondo letterario come Al Berto, scomparso nel 1997.

 

Questa sì, era una pista incredibile.

Con Joëlle e altri giovani artisti e musicisti, Al Berto fondò nel 1972 Montfaucon, situato al numero 25 di rue de L'Aurore nel quartiere di Ixelles a Bruxelles.

Curiosamente, è nei libri di Al Berto che si trovano le più preziose risposte all’enigma del Montfaucon Research Center. Sophie Podolski, l’unico membro nato a Bruxelles, si sarebbe unita al gruppo nel 1973 dopo averli incontrarti in un mercato. Gli altri membri di cui si ha notizia sono Michel Bonnemaison, il peruviano Carlos Ferrand, l’italiana Olimpia Hruska e il musicista Jacques Lederlin. À Procura do Vento num Jardim d'Agosto (Alla ricerca del vento in un giardino d'agosto), del 1977, spesso considerato il primo libro di Al Berto, in realtà è il secondo, l’esordio ha avuto luogo pochi anni prima con Projectos 69, pubblicato nel 1972 dallo stesso Montfaucon Research Center sotto la supervisione di Joëlle.

 

 

 

Progetto 69 è una sorta di album di immagini, con l'estetica della fanzine, contenente diverse proposte di azioni e performance all’interno degli spazi della casa dove vivevano in rue de L'Aurore. Sono esperimenti grafici e immagini, alcune delle quali ricordano i lavori di Antonio Dias negli anni Settanta. Bernardo de Montfaucon, il cui nome deve aver ispirato il battesimo del gruppo, è stato un benedettino del XVII secolo, conosciuto come l’inventore della paleografia. È l'autore di una importante opera sulla storia dell’alfabeto greco. Probabilmente per questo ha esercitato una forte attrazione su quel gruppo di artisti-poeti, che sperimentavano la lettera nel suo limite grafico. C’era tutto un ambiente di identificazione e di mutua influenza tra i membri, in modo che molti disegni di Sophie Podolsky assomigliano ai disegni di Al Berto. A lei Al Berto ha altresì dedicato una poesia, inclusa nelle sue opere complete, O medo, La paura (Assyrian & Alvim): apri la finestra affacciati lascia che il mare inondi gli organi del corpo diffonda il fuoco sulla punta delle dita e tocca leggermente quello che deve essere preservato.

 

Al Berto è giunto a Bruxelles nel 1967, in esilio, cercando di sfuggire ai militari portoghesi. Studia pittura presso l’Ecole Nationale Supérieure d'Architecture et des Arts Visuels (La Cambre), dove probabilmente ha incontrato alcuni amici con cui avrebbero fondato il Research Center. Il Montfaucon non era un collettivo artistico nel senso attuale, non c'era l’efficienza della produzione, e la collaborazione non era stata definita in precedenza. Importava più l’ambiente e l'intensità della vita come stimoli creativi, importava la vita che vi si viveva, in generale nei suoi limiti drastici, con molto sesso, eroina, birra, hashish, nausea, vomito, perdita di sé, follia reale e di viaggi senza ritorno. Non si guardavano allo specchio ed erano sempre pronti a offrire a se stessi il diritto alla morte. Anche le stanze della casa servivano come spazi performativi e sperimentali. A giudicare dai testi di Al Berto si legavano l’un l’altro così come gli amori e i corpi si lasciavano attraversare.

 

Nel 1989, tornato in Portogallo, dove si stabilisce definitivamente, Al Berto pubblica Lunário, Calendario lunare, breve romanzo autobiografico in cui rielabora i testi scritti nel 1975 e racconta, in modo molto più sobrio, l’esperienza di quegli anni a Bruxelles. Quello che era un flusso psichedelico e frammentario in À procura do vento num jardim d’agosto appare ora con molta maggiore attenzione, delineando i personaggi e con una voce più stabile che conduce il lettore attraverso il cammino dell’amicizia e di un amore ben raccontato, la cui memoria guida il desiderio di narrare. È la storia del giovane Beno, che lascia la casa dei genitori e arriva da solo e con pochi bagagli in una città di cui non si dice il nome, dove frequenterà assiduamente Lura, il bar dove tutto accade e dove conoscerà Nemu, di cui si innamorerà e con chi vivrà nella mansarda di rue de l'Aurore, con Alba, Kid, Zohía e il suo amore, Alaíno.

 

Naturalmente, Zohía è Sophie. Il capitolo intitolato “Luna calante” è una delle più belle storie di qualcuno che si allontana progressivamente da se stesso fino a perdersi completamente nel delirio per trasformarsi nella voce sorda di un’ombra. È anche il racconto sull’amore devastato dalla follia. Al Berto narra con tatto e in un equilibrio teso e difficile la sofferenza psichica di Zohía fino al momento in cui sarà internata per sempre. Racconta inoltre il dolore di Alaíno, il suo fidanzato, che la va a trovare nella clinica psichiatrica e si prende cura dei suoi scritti. Già internata, Zohía chiede che Alaíno le porti i suoi quaderni. “Pensava che, rileggendoli, forse potesse tornare a ciò che aveva dimenticato quasi del tutto: la vita. Per anni, aveva annotato con frequenza e dettaglio ciò che le stava accadendo. Disegnava molto, isolava le parole in elenchi infiniti o scriveva pagine e pagine raccontando la sua passione per Alaíno. Riempiva quaderni e fogli sciolti, buste, ritagli di stoffa con una grafia a volte curata e leggibile, a volte completamente illeggibile e misteriosa ".

 

 

 

In una intervista realizzata al tempo della pubblicazione di Lunário, Al Berto disse che questo è un libro di “scene di amicizia, di limpidezza. E altre di stordimento, di eccesso. E ha la sua bellezza. Una sorta di sanguinosa bellezza”. È questa bellezza maledetta che riconosciamo nei testi di Sophie Podolski. L’illeggibilità di molti tra questi deriva da una intensità che fa esplodere la scrittura diaristica in varie direzioni, esplosione che parla di un soggetto fatto a pezzi, che non sa più piangere, che fugge ma non sa più dove, che non può proseguire e non può tornare indietro. Bolaño inseguiva la stessa bellezza maledetta, e può essere che abbia incrociato Al Berto o Beno a Barcellona, ma nemmeno questo è certo.

 

Traduzione di Enrico Valtellina.

Laura Erber è scrittrice, artista visuale e docente di Teoria e Storia dell’Arte presso UNIRIO, Università Federale di Rio de Janeiro.

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