Arte contemporanea: che fare nel contesto di crisi?

16 Maggio 2012

Colpisce che un numero sempre maggiore di voci insorga, in ambito internazionale, contro l’arte contemporanea. Parliamo di John Berger o Don DeLillo, Orhan Pamuk o Simon Schama: voci non pregiudizialmente avverse, come potremmo considerare Marc Fumaroli, ma di osservatori attenti e in linea di principio partecipi. Siamo cresciuti nella leggenda (anni Cinquanta, in Europa ancora anni Settanta) dell’artista incurante di convenzioni, giovane, appassionato e ribelle. E non di rado, presso il grande pubblico, ci si attende ancora che l’arte possa restituire senso ai vocaboli eroici della tradizione modernista: libertà, passione, verità. Eppure qualcosa sta accadendo, con più evidenza dall’inizio della crisi economico-finanziaria, nel 2007; qualcosa che ricorda il primo movimento di una frana. L’outsider di genio non è più il beniamino popolare, al contrario. Simile agli artisti-principi di fine Ottocento, zelanti ritrattisti di ministri, banchieri, aristocratici e sovrani, global players come Koons, Hirst o Cattelan gettano una luce che a non pochi appare ormai futile e sinistra.

 

Irresponsabilità sociale, mutazione del collezionismo sempre più distolto dalle ragioni affettive e culturali, conformismo corporate. Tutto questo congiura, inutile negarlo, e spinge al disincanto. In breve: la “differenza” etica, culturale, “antropologica” dell’artista, rivendicata ancora dalle neoavanguardie, oggi appare dilapidata, e non è semplice capire come ricostruire un’autorevolezza smarrita. È poi necessario? Potremmo supporre che occorra perfino contestare i limiti del territorio riconosciuto come “arte contemporanea”. Se cercassimo altrove il punto di intersezione tra pratiche estetiche e “necessità” o “bisogni”, sul piano ad esempio dei conflitti per la legalità, il lavoro qualificato, la difesa dell’ambiente, la partecipazione? Nell’ambito della conoscenza e della trasmissione dei saperi? Non sta scritto da nessuna parte che la produzione di oggetti luccicanti e dispendiosi sia criterio vincolante per la definizione di ciò che è “arte”; e forse possiamo senz’altro concepire un mondo “senza” arte, purché più equilibrato, empatico e retto da processi collaborativi.

 

Dubbi sull’utilità pubblica dell’arte contemporanea sono avanzati da osservatori autorevoli in un contesto di crescente disaffezione. “Tutti sanno che il pianeta Terra e la civiltà globale sono oggi di fronte a una costellazione di problemi che ne minacciano la stessa sopravvivenza”, scrive Robert Janes in Museums for a Troubled World (Routledge, London 2009). “È sorprendente come i musei non entrino se non raramente nel dibattito su questi temi: la circostanza mi induce a considerare come un dato di fatto la loro completa irrilevanza nel ruolo di istituzioni sociali. Il persistere di un atteggiamento di rifiuto nei confronti di simili temi può avere un valore adattivo nel breve termine, ma è innegabile che questo stesso rifiuto stia ormai aggredendo il futuro stesso della collettività”. Julieta Aranda, Brian Kuan Wood, Anton Vidokle si spingono oltre: “l’arte contemporanea è forse neoliberismo allo stato più puro?”, si chiedono in un recente editoriale di e-flux journal. Un’analisi comparata tra estetiche del lusso e populismo di destra in paesi ex-emergenti come Russia, India, Corea del nord, Indonesia, Brasile, Emirati Arabi Uniti (potremmo facilmente aggiungere Cina) potrebbe in effetti rivelare stretti legami tra mecenatismo privato e ideologia ultraliberista corretta in senso paternalistico. Negli anni Novanta del Novecento l’arte contemporanea è divenuta, a opera di politici come Tony Blair, lo smagliante sostegno pubblicitario di sistemi economici nazionali da promuovere e affermare. Nel decennio successivo, con mirabile plasticità, è sopravvissuta alla transizione tra neoliberismo riformista e consumismo autoritario e ha finito per imporsi a livello globale malgrado (o proprio attraverso) il crollo delle socialdemocrazie occidentali.

 

Le pratiche artistiche che trionfano sul mercato dagli anni Ottanta a oggi si sono progressivamente distaccate da istanze etico-politiche o progetti di “fioritura” individuale e comunitaria (citiamo Amartya Sen) per assecondare la (o soccombere alla) domanda di beni di lusso e dispositivi di status. È dunque giusto affermare che, quantomeno dal punto di vista delle etiche e politiche pubbliche, prioritarie sono ricerca e istruzione: non la produzione di bizzarre commodities riservateal collezionismo di pochi, atti di pseudo-denuncia o relazioni fintamente amicali. L’enfasi sui caratteri partecipativi dei progetti ha caratterizzato il discorso critico a partire dagli anni Novanta. Dopo circa due decenni di pratiche “relazionali” occorre tuttavia riconoscere che le retoriche della partecipazione, quando non accompagnate da un’adeguata riflessione su politiche autoriali e processi, si sono spesso risolte in moleste strategie pubblicitarie. L’asimmetria tra “produttori” e “consumatori” non è stata modificata, né l’esclusione ridotta. Solo una precisa distinzione tra arte e mobilitazione civile sembra poter impedire che il proposito di arte politicamente impegnata risulti oggi corrotto dall’uso di estetiche attiviste come ornamento di musei e gallerie.

 

Dovremmo provare a ripensare inventivamente pratiche espositive, museografiche e culturali alla luce della crisi economico-finanziaria attuale: non è immaginabile, certo non in Italia, che flussi di finanziamento pubblici si riattivino vigorosamente a breve. “Buone pratiche” culturali, iniziative di riqualificazione territoriale, diffusione di conoscenza e stimolo di relazioni comunitarie possono rivelarsi obiettivi rilevanti, per cui vale la pena impegnarsi. Le retoriche della “mobilità sovraeccitata” e della non appartenenza cedere a istanze illuminate di residenza, condivisione e cura. L’intreccio tra arte e moda, che oggi appare inevitabile, districarsi. È necessario che riusciamo a cogliere le opportunità dischiuse dalla trasformazione in corso: la crisi può affrancare artisti e musei dalla tirannia del budget o dalle politiche di produzione correnti, creare infine collettività più partecipi e esigenti.

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