Lévi-Strauss e il Giappone

12 Novembre 2015

Nel 1993, Claude Lévi-Strauss rilasciava un’intervista a Junzo Kawada per la televisione nazionale giapponese (NHK). La prima parte, relativa principalmente all’antropologia americanista, era seguita da considerazioni sul Giappone. Viene qui trascritta la seconda parte, di cui è stato mantenuto il tono di conversazione a ruota libera, senza cancellare le ripetizioni né i tratti di oralità che caratterizzano questo tipo di incontri.

 

 

 

 

C. LÉVI-STRAUSS: Mio padre, come tutti gli artisti della sua generazione, amava le stampe giapponesi e me ne ha fatto dono... La prima l’ho ricevuta all’età di sei anni, e ne sono rimasto immediatamente affascinato. Per tutta la mia infanzia, i voti buoni che prendevo a scuola venivano ricompensati con il dono di una stampa che mio padre tirava fuori dai suoi scatoloni.

 

 

J. KAWADA: Quali sono le sue preferite? Le pitture ukiyoe?

 

Ammiro in particolare le pitture del periodo arcaico, infine quelle dell’epoca Kambun. Oppure, un po’ più tardi, Kaigetsudù, Moronobu e qualche altro, ma in fondo queste sono cose che si vedono solo nei musei!... Mi sono interessato a lungo all’arte di Kuniyoshi, spesso considerata come decadente – è così che la si definisce –, ma io credo che vi siano un’invenzione prodigiosa e una violenza che si esprimono nella sua arte... Ciò che per un certo tempo mi ha sedotto sono le sue stampe di gioventù, realizzate verso il 1830 per illustrare la traduzione del Suikoden; infine, in quell’epoca, Bakin ne ha fatto una traduzione dal cinese. Non soltanto trovo che sia molto bello, ma allo stesso tempo trovo che sia interessante dal punto di vista etnologico, perché mostra bene la visione di una Cina molto antica che potevano avere i giapponesi del XIX secolo...

 

Ma si tratta di cose completamente differenti: siamo in piena arte popolare, nei... namazue, vale a dire nel terremoto del 1855 dell’era Ansei, che ha fatto rivivere una mitologia molto antica che forse oggi, in alcuni ambienti giapponesi, è considerata un po’ scioccante. Perché, ad esempio, si vede un ricco obbligato a mettere al sicuro le sue ricchezze, e il terremoto – yonaoshi, “rinnovamento del mondo” – permette ai miseri, ai poveri, di appropriarsi dei beni dei ricchi. Ciò che è piuttosto curioso è che tale simbolismo, che potrebbe sembrare locale, bizzarro, è presente nel nostro Medioevo.

 

Nel XII secolo, quando si eleggeva un nuovo papa – cosa che, in un certo senso, era uno yonaoshi, un rinnovamento del mondo –, il nuovo eletto doveva sedersi, davanti alla basilica, su una sedia bucata chiamata “sedia stercoraria”, e da lì distribuiva ricchezze mentre si recitava il salmo dove si dice che i poveri saranno innalzati come i ricchi. Si tratta dello stesso simbolismo che troviamo nei namazu. Questo ci invita a riflettere su quanto c’è di fondamentale nello spirito degli uomini e che può ritrovarsi in contesti estremamente diversi.

 

In Giappone è il namazu a essere causa di terremoti; in America, o perlomeno in certi angoli dell’America, sono pesci che appartengono alla famiglia degli scorpenidi. In Giappone, la famiglia degli scorpenidi è rappresentata dal pesce okoze, che è un’offerta al dio delle montagne e, evidentemente, in un certo senso le montagne e i terremoti sono legati, al punto che quanto in Giappone appartiene al namazu, in America appartiene all’okoze.

 

E poi, sempre in America, il pesce siluro – in breve, i namazu – è causa di malattie. La parola “namazu”, se non mi sbaglio, con lo stesso carattere designa sia il pesce sia una malattia della pelle, una malattia della pelle che si suppone il pesce causi e faccia guarire. Dunque in America c’è tutto un dominio oscuro, molto più oscuro che in Giappone, ma che meriterebbe di essere esplorato. Per l’americanista, tutto questo è molto interessante.

 

 

Il suo attaccamento al Giappone è stato continuo – anche se non è stato sempre consapevole – a partire dalla sua infanzia o ha maturato più tardi un interesse antropologico per il nostro paese?

 

Non direi che l’interesse sia stato continuo. Durante i miei anni in Brasile ero totalmente preso dalle cose dell’America e non pensavo più molto al Giappone. Durante la guerra, negli Stati Uniti, ricominciai a interessarmi in maniera molto viva, guardando gli oggetti nei musei... E, in fondo, non credevo che sarei mai stato in Giappone. È un’idea che non è partita da me. Poi, nel 1977, è arrivato un meraviglioso invito dalla Japan Foundation, come una specie di fulmine a ciel sereno. Mi sono detto: “Ecco che finalmente vado a vedere questo Giappone a cui, seppure in maniera intermittente, ho pensato per tutta la vita!”

 

 

Prima ancora di questo invito lei aveva già provato interesse per il Giappone...

 

Un interesse antropologico, ma forse non così spiccato come è divenuto in seguito a diverse visite nel paese.

 

 

I nambikwara o i caduveo del Brasile e noi, i giapponesi, discendiamo dagli stessi antichi antenati. Qual è la continuità o la discontinuità che lei ha percepito tra questi due popoli di aree geografiche e culturali così diverse?

 

Abbiamo tutti gli stessi antenati, certamente! Ed è sicuro che, quando ci si rivolge al Giappone, in particolare alla letteratura popolare o alla mitologia, si trovano eco che all’americanista rammentano molte cose. Ma, attenzione: non si tratta solo del Giappone e dell’America. È una partita che si gioca a tre. Perché quanto ritroviamo dal Giappone all’America, o dall’America al Giappone, lo ritroviamo anche in Insulindia, in particolare nella zona delle isole Celebes. C’è dunque una specie di partita triangolare, se così posso dire – nei vostri lavori, voi amate la triangolazione culturale. E non dobbiamo dimenticare che quindici o ventimila anni fa il Giappone faceva parte dell’Asia continentale e, allo stesso modo, l’Insulindia era attaccata all’Asia continentale. Dunque, per millenni, ci sono stati movimenti di popoli, scambi di idee e la costruzione di una sorta di patrimonio comune di cui ritroviamo dei frammenti in America, in Giappone e in Insulindia.

 

 

Qual è stata, nel 1977, la sua prima impressione del Giappone? La trova pertinente anche oggi, nel 1993, dopo così tante esperienze e studi nel nostro paese?

 

Durante una precedente conversazione, mi aveva già posto questa domanda a proposito del Brasile. Avevo risposto: avvicinando il Nuovo Mondo, la prima cosa, la prima impressione è la natura. Per quanto riguarda il Giappone, la prima impressione, la più forte, sono gli uomini. È importante, perché l’America era un continente povero di uomini, ma pieno di ricchezze naturali, mentre il Giappone, povero di ricchezze naturali, era al contrario ricco di umanità. Il sentimento di trovarsi di fronte a... Non dirò un’umanità differente, lungi da me, ma a un’umanità che non era, come nel Vecchio Mondo, affaticata, schiacciata da guerre e rivoluzioni. Sì, è un’umanità che dà l’impressione che le persone siano sempre disponibili, e che credono, per umile che sia la loro posizione sociale, di svolgere un ruolo necessario all’insieme della società e che sono perfettamente a loro agio in questo. Mi sembra che un filosofo giapponese del XVIII secolo, Ishida Baigan, se non sbaglio, che è stato il fondatore del movimento Shingaku insisteva proprio su tale aspetto morale. Questo, per me, è simbolicamente rappresentato dal modo differente in cui si dice “Sì” in francese e in giapponese. Noi diciamo “Sì”, voi dite “Hai”. Ho sempre avuto l’impressione – forse completamente errata, forse un’impressione alla Loti, al contrario – che in “Hai” ci sia molto più che in “Sì”. “Sì” è una sorta di consenso passivo, mentre “Hai” è uno slancio verso l’interlocutore...

 

 

In effetti... A questo proposito, bisognerebbe aprire una piccola parentesi. L’interiezione “Hai” era un’espressione dialettale di Satsuma, la provincia militare che, insieme a quella di Chúsh, aveva sconfitto l’esercito di Tokugawa e realizzato la riforma Meiji. Queste due province si sono spartite il potere nazionale durante mezzo secolo. In quel tempo, nella scuola elementare come nell’esercito, si era tenuti a rispondere unanimemente “Hai” come segno di obbedienza, mentre in altre regioni, comprese Kyoto e Edo, il termine tradizionale per la risposta affermativa era “Hee”, “Hei”, “Ee”, “Nda” ecc. Per la nostra generazione, che ha conosciuto il vecchio regime ultranazionalista e militarista del Giappone prima del 1945, la parola “Hai” evoca dunque lo spirito di obbedienza incondizionata a un potere superiore. Questo, tuttavia, non modifica in nessun modo quanto lei ha detto a proposito del pensiero di Ishida Baigan.

 

Torniamo alla bellezza della natura giapponese: avrei molte cose da dire, perché, dal momento in cui si arriva in Giappone – all’incirca tra Narita e Tokyo, dove ci sono piccole aree naturali lungo la strada –, si scopre una natura più ricca per la varietà dei colori. Ed essa sembra, forse, meglio organizzata, perché in Europa il vegetale è essenzialmente irregolare – Baudelaire non l’ha forse definito così: “Il vegetale irregolare”? –, ed è a partire da questi elementi irregolari che, nei nostri giardini, cerchiamo di creare una regolarità. Gli elementi della natura giapponese, invece, sono molto più regolari: sugi, criptomerie, risaie, bambù, piantagioni di tè... Tutto questo porta in partenza un elemento di regolarità con cui voi create, per così dire, la regolarità di un ordine, un livello più elevato: una regolarità di secondo grado.

 

 

Quando, nel 1986, ha viaggiato in barca lungo i canali di Tokyo e all’isola di Tsukuda, dove ci siamo imbarcati, ha detto alla signora Lévi-Strauss che le sarebbe piaciuto vivere in quell’umile quartiere popolare. Da cosa era attratto?

 

Tsukudajima è stata uno shock. Le piccole case di legno circondate dall’erba, i pescatori che indossavano i loro abiti da lavoro ma davano l’impressione di essere vestiti all’antica, la barca con cui abbiamo navigato... Tutto, all’improvviso, mi ha ricordato Hokusai e l’album Sumidagawa ryúgan ichiran, “Le due rive del Sumida”: in altre parole, qualcosa che, in tutta probabilità, è stato uno dei più grandi successi della civiltà, al pari di Venezia – d’altra parte, quanto lei mi ha mostrato è una sorta di Venezia a Tokyo che non immaginavo. Era tutto così profondamente emozionante per qualcuno che conosceva il Giappone solo attraverso antiche immagini. Mi chiede, dunque, se ho ritrovato tutto ciò da qualche altra parte?

 

Le dirò che quando sono venuto in Giappone, molti giapponesi mi hanno detto: “Soprattutto non si faccia intimidire da Tokyo. Tokyo è una città brutta.” Ebbene, non ho avuto affatto questa impressione nella Tokyo moderna, perché mi sono trovato liberato da qualcosa che non sospettavo fino a che punto fosse opprimente nelle nostre civiltà: le strade! Strade con case congiunte le une alle altre, mentre a Tokyo gli immobili sono, per così dire, disposti con maggiore libertà, e danno un’impressione costante di varietà.

Soprattutto dopo, quando, mentre si cammina, si lasciano le grandi vie con le autostrade sopraelevate (che sono un vero e proprio incubo: non bisogna nasconderlo) e ci si inabissa a destra e a sinistra nelle vie laterali, finendo in piccoli quartieri che evocano ancora la città di altri tempi... Per i parigini questi quartieri rappresentano un lusso straordinario perché... a Parigi non è più possibile, nel cuore della città, vivere in una piccola casa indipendente circondata da un giardino. A Tokyo, almeno fino a un certo punto – ma temo non per molto ancora –, è possibile.

 

 

Lei ha sempre avuto una vivace curiosità intellettuale, ma anche gastronomica. Potrebbe fare qualche commento sulla cucina giapponese a partire dalla sua diretta esperienza?

 

Ho amato immediatamente la cucina giapponese. Per me c’erano tuttavia molte cose nuove. È vero che quando stavo con gli indios del Brasile ho mangiato larve vive – sì, proprio vive! –, ma non avevo mai mangiato pesce crudo: non conoscevo affatto il sashimi...

 

 

Ah, certo, la carpa cruda!

 

Esatto, sì, e anche altri pesci. Ciò che ho amato da subito nella cucina giapponese è quanto mi aveva sempre sedotto nell’ukiyoe, e anche in quella che viene generalmente chiamata l’“arte Yamato”, vale a dire la cura nel lasciare i colori allo stato puro, nel distinguere il disegno e la tinta: applicare una sorta di scomposizione, se così posso dire, degli elementi di cui sia la nostra cucina sia la nostra pittura tentano una sintesi globale.

 

Ma questa maniera di lasciare i sapori allo stato puro, in tutta la loro semplicità, di affidare al consumatore il compito di organizzare autonomamente la gamma di sapori che vuole apprezzare, mi è subito sembrata molto seducente. D’altra parte, devo dire che, da quando sono stato in Giappone, consumo solo riso cotto alla giapponese. E grazie ai vostri doni, sono stato colpito dal ritrovare il riso con yakinori che, con il suo sapore di alga, riesce a evocare in me il Giappone come la madeleine in Proust!

 

 

Secondo un mito diffuso tra i nipponofili stranieri, i giapponesi possiedono la saggezza del vivere in armonia con la natura. Nei loro rapporti concreti con la natura selvaggia, tuttavia, non padroneggiano una tecnica elaborata. Hanno preservato le zone selvagge che rappresentano quasi due terzi della superficie del paese e che sono chiamate yama, che letteralmente significa “montagna”, ma con una connotazione di “dominio selvaggio”. Come ha avuto modo di vedere, in Giappone l’inquinamento e la distruzione del paesaggio procedono furiosamente, e forse, dopo la sua ultima visita nel 1988, a un ritmo ancora più accelerato. Come vede la situazione attuale del rapporto uomo-natura in Giappone, rispetto all’idea tradizionale della natura concepita convenzionalmente sotto aspetti che sono più ideali che reali?

 

Lei ha pienamente ragione. Ci siamo fatti un’idea sbagliata. Viaggiando un po’ ovunque, all’interno, a Shikoku, a Kyushu, unitamente a tante meravigliose impressioni, mi è sembrata desolante la brutalità con cui il Giappone tratta la natura. Ma, allo stesso tempo, si deve rendergli omaggio; lei stesso lo ha detto: due terzi del paese sono costituiti da natura inabitata. Non sono molti i popoli che sono riusciti a creare una prodigiosa civiltà urbana che sia, nello stesso tempo, rispettosa di una grande parte del suo territorio.

 

Ma credo che l’illusione occidentale provenga dal fatto che i giapponesi hanno rivelato all’Occidente che era possibile servirsi della natura come di una materia prima, per creare un’arte solo a partire da elementi naturali. È quanto realizzate con l’ikebana, e anche con i vostri giardini. Direi che l’ordinaria natura giapponese, quella che si vede, rispetto alla nostra è già una sorta di giardino. I vostri giardini rappresentano dei giardini al quadrato. Ho avuto una profonda impressione a Kyushu, visitando il villaggio Chiran...

 

Chiran, certo...

 

È ancora praticamente intatto. Vi si trovano le dimore degli antichi samurai del daymiú del luogo, e ognuna con una casa molto bella e un piccolo giardino. Ma un piccolo giardino di un lusso e di una raffinatezza tali che, passando da un’abitazione all’altra, mostravano una grande diversità: come se ogni proprietario, con la sua personalità, avesse voluto creare, a partire da elementi naturali, un’opera originale che si distingue da quella del suo vicino, così come l’opera di un grande pittore si distingue da quella di un altro. Tutto questo, in Occidente, è stato considerato amore per la natura... La realtà è dunque più complicata!

 

 

Con le sue ricerche antropologiche lei ha rivalorizzato il “selvaggio”. Potrebbe dire brevemente a noi giapponesi – e allo stato attuale della cultura giapponese – perché è importante preservare il “selvaggio”?

 

Non ho valorizzato molto il “selvaggio”. Ho voluto mostrare che il “selvaggio” persiste in noi tutti. E poiché è sempre presente in noi, faremmo male a disprezzarlo quando si trova fuori di noi. Questo vale, credo, per tutte le civiltà. Ma ciò che ho ammirato in qualità di antropologo è la capacità del Giappone, nelle sue più moderne manifestazioni, di sentirsi solidale con il suo passato più remoto. Mentre noi, pur sapendo che abbiamo delle “radici”, facciamo grande fatica a raggiungerle. C’è un fossato che non riusciamo a oltrepassare. Guardiamo dall’altra sponda. In Giappone c’è una specie di continuità, se così si può dire, o di solidarietà che forse non è eterna... Ma che esiste ancora oggi.

 

 

Come ha scritto, in molti campi il Giappone presenta “un mondo alla rovescia” rispetto alla Francia. Nel lavoro artigianale, per il quale ha mostrato particolare interesse, lo si sottolinea in un modo caratteristico. Ma per chiarire le cause di queste differenze di usi, bisognerebbe sicuramente tenere conto dei fattori ecologici e fisici, oltre che di quelli culturali.

 

Bisognerebbe sfumare un po’, perché il Giappone “al rovescio” è stato anzitutto notato, nel XVI secolo, non dai francesi, ma da missionari portoghesi e italiani. Più tardi, alla fine del XIX secolo, Basil Chamberlain, che ha scritto in merito, era inglese. Dunque qui non si tratta in particolare della Francia e del Giappone, ma del Vecchio Mondo e del Giappone, perché anche la Cina, da questo punto di vista, non presenta questi rovesciamenti. Credo che abbia ragione ad affermare che occorre tener conto dei fattori storici, ecologici... Ma mi chiedo se basti. Perché se pure si possono trovare spiegazioni di carattere tecnico al fatto che il seghetto sia tirato invece di essere spinto, sarà necessario trovare un’altra spiegazione per capire che la cruna viene spinta sul filo e non il filo nella cruna, che la stoffa viene cucita sull’ago e non l’ago sulla stoffa, che il tornio viene azionato con un piede nel Vecchio Mondo e con l’altro in Giappone, e che in un caso ruota in senso orario mentre nell’antico paese del Sol Levante in senso antiorario, che nel Giappone del passato si montava a cavallo da destra mentre noi montiamo a sinistra, che il cavallo veniva fatto entrare nella scuderia a ritroso anziché farlo entrare di muso, e così via.

 

 

Per studiare questi fenomeni “Topsy-Turvy” in Francia e in Giappone, penso che sia necessario tener conto delle vicissitudini storiche che è possibile seguire attraverso i documenti scritti o iconografici. Il fatto – sottolineato da Luís Fróis nel XVI secolo – che in Giappone si montava a cavallo da destra, può spiegarsi con l’abitudine propria dei guerrieri del tempo, che tenevano nella mano sinistra un lungo arco – yunde o “mano all’arco” –, e afferravano le redini con la destra – mete o “mano a cavallo”. Tuttavia, alcuni aspetti della vita, come anche alcune tecniche, presentano una stupefacente tenuta malgrado gli enormi cambiamenti sopravvenuti in altri aspetti. Lei ha appena detto, per esempio, che il tornio viene azionato con un piede nel Vecchio Mondo e con l’altro in Giappone...: in Giappone, di fatto, non si aziona con l’altro piede, ma lo si fa muovere con lo stesso piede destro. Tutto ciò, d’altra parte, non è che un ulteriore esempio che conferma la sua ipotesi sul carattere centripeto della cultura giapponese, sottolineato attraverso le vicende storiche. Cosa pensa in generale dei rapporti tra questi due campi – antropologico e storico –, e in particolare nel caso della cultura francese e di quella giapponese?

 

Questi fenomeni sono piuttosto interessanti, in particolare per gli etnologi. Possiamo constatare che anche le società che credono nella storia e celebrano il divenire storico mantengono, senza nemmeno rendersene conto, molte usanze che non sono state minacciate dalle circostanze della storia, che permangono e che sono, per questo, la traccia di un passato molto distante. Sebbene in Europa, per esempio, sia possibile tracciare una frontiera che passa tra coloro che si lavano le mani nell’acqua corrente e coloro che lo fanno nell’acqua stagnante. Poiché è giapponese, le pongo una domanda: quando si lava le mani nel lavabo, lei lo tappa o lo lascia aperto?

 

 

Lo lascio aperto.

 

Anch’io. Lo lascio aperto perché probabilmente si tratta di un atavismo dell’Europa Orientale, da dove provengono i miei antenati.

 

 

Ma certo!

 

Sì. Nel mondo latino, invece, si tenderà maggiormente a tappare il lavabo. Ho sottolineato un interessante esempio di questo genere proprio nel libro che sto per pubblicare, che tratta di problemi legati all’arte. Mi occupo di un filosofo del XVIII secolo, un padre gesuita, che si interessava ai colori. Da qualche parte egli dice: “I francesi non amano il giallo. Lo trovano scialbo, lo lasciano agli inglesi.” L’anno scorso, quando la regina Elisabetta II è venuta in visita ufficiale in Francia, i giornali francesi di moda hanno ironizzato perché, in un’occasione, indossava un tailleur giallo, e per questo hanno scritto: “Il giallo è strambo. È qualcosa di inopportuno.” Ci sono qui degli elementi peculiari che possono perdurare molto a lungo attraverso le vicende della storia, e credo che questa sia proprio la materia del lavoro dell’etnologo.

 

 

Come considera l’opposizione di orientamento culturale tra la Francia e il Giappone, in particolare l’orientamento verso l’universale dei francesi e l’orientamento verso l’elaborazione del particolare dei giapponesi? Paul Valéry scrive che la particolarità dei francesi è sentirsi uomini dell’universo e avere l’universale quale specialità. I giapponesi, al contrario, non hanno mai pensato di essere uomini universali. Si sono, invece, sentiti particolari, diversi dagli altri; hanno creduto di essere impenetrabili da parte degli stranieri mentre elaboravano le loro specificità artistiche e tecniche. Negli scambi internazionali, almeno fino a oggi, i giapponesi sono stati più recettori che promulgatori.

 

Lei sta ponendo almeno due domande. Rispetto alla prima, si potrebbe dire che la logica occidentale è in parte fondata sulla struttura della lingua. Mi sembra significativo, al riguardo, che la struttura della lingua giapponese non abbia determinato la struttura di una logica particolare, ma quella di una gestualità – ne parlavamo poco fa. Una volgeva verso l’astrazione e la teoria, l’altra – seppure con la stessa cura dell’analisi, la medesima attenzione alla precisione del dettaglio, alla scomposizione della realtà nelle sue parti essenziali – volgeva verso l’azione pratica.

 

Per quanto riguarda la sua seconda domanda... lei dice che il Giappone è stato più recettore che promulgatore. Evidentemente ha subito molte influenze, in particolare cinesi e coreane, prima di subire quelle europee o nordamericane. Solo che, ed è questo che mi colpisce del Giappone, le ha assimilate al punto da farne qualcosa di diverso. E non voglio affatto dimenticare un altro aspetto: vale a dire che, prima di aver subito tali influenze, avete avuto una civiltà – quella del periodo Júmon – che non solo ha creato la più antica ceramica esistente al mondo, ma lo ha fatto con un’ispirazione talmente originale che altrove non troviamo niente di equivalente. Non è possibile confrontarla con niente. Allora direi che qui c’è la prova di una specificità giapponese che è stata in grado di elaborare elementi provenienti dall’esterno per farne sempre qualcosa di originale.

 

Come lei sa, per molto tempo in Giappone noi occidentali siamo stati considerati come il modello che si doveva seguire. Mi è capitato spesso di sentire dei giovani giapponesi che, di fronte ai tragici avvenimenti che hanno distrutto l’Occidente e alle crisi che al momento lo dilaniano, dicevano: “Non ci sono più modelli. Non abbiamo più modelli da seguire e sta a noi creare il nostro modello.” Quanto posso augurarmi e chiedere al Giappone è che la stessa originalità del modello (che così è recepito dal mondo) i giapponesi siano capaci di mantenerla come in passato. Con tale originalità possono arricchirci.

 

 

Lei crede che nella storia dell’umanità ci sia uno stadio ottimale della vita umana? E se sì, lo situa nel passato o nell’avvenire?

 

Sicuramente non nell’avvenire, lo escludo!... Prima di tutto, non è il mestiere degli antropologi: il passato è il nostro mestiere. È una domanda a cui è davvero difficile rispondere. Perché non basta dire: “Mi sarebbe piaciuto vivere in una certa epoca...” Bisogna sapere che posizione sociale avrei occupato in quell’epoca! Perché, evidentemente, avrei potuto... Pensiamo sempre a queste epoche passate nella prospettiva della classe privilegiata, e certo non delle altre!

Dunque non indicherò nessuna epoca in particolare. Direi piuttosto: un’epoca in cui esisteva ancora, tra l’uomo e la natura, tra gli uomini e le specie naturali, un certo equilibrio; in cui l’uomo non poteva affermarsi come il padrone e signore della creazione, ma sapeva che era parte integrante di tale creazione, come gli altri esseri viventi che doveva rispettare. In quale epoca questo è accaduto meglio, con maggior verità? In varie epoche è stato differentemente vero. La sola cosa che posso dire è: sicuramente non oggi!

 

 

E nemmeno in futuro?

 

Temo che nel futuro lo sarà sempre meno.

 

 

 

@Editions du Seuil, 2011, Collection La Librairie du XXIe siècle, dirigee par Maurice Olender. Estratto da C. Lévi-Strauss, L’altra faccia della luna. Scritti sul Giappone, traduzione italiana di Silvano Facioni, Bompiani 2015.

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