Un libro di Charlotte Cotton / La fotografia come arte contemporanea

11 Agosto 2021

Viviamo immersi nelle immagini, in un mondo che genera immagini a getto continuo, soprattutto di natura fotografica, e nel quale la fotografia è diventata così ubiqua e a portata di mano (ovvero di smartphone) da non sembrare più una tecnica, ma una semplice estensione del nostro sguardo, capace di generare, recuperare, archiviare, trasmettere immagini con la stessa facilità con cui respiriamo. Cosa succede alla fotografia come pratica artistica e forma d'arte in un ambiente come questo? Ora che l'arte ha raggiunto lo “stato gassoso”, per usare una bella immagine di Yves Michaud, e che l'estetizzazione delle immagini è l'aria stessa che respiriamo, cosa può fare un artista che lavora con questo medium?

Una risposta a questa domanda si può trovare in un fortunato libro uscito per la prima volta nel 2004 e poi aggiornato ed esteso più volte fino alla quarta edizione appena tradotta da Einaudi: La fotografia come arte contemporanea, scritto da Charlotte Cotton, curatrice di importanti raccolte di fotografia come quella del Victoria&Albert Museum di Londra.

 

La risposta non va cercata leggendo la parte teorica, sotto forma di qualche definizione o proposta di criteri estetici, ma guardando le opere e cercando nel testo l'idea o il progetto (spesso si tratta di immagini prese da una serie) che l'artista ha cercato di incarnare in esse, e il processo attraverso cui le ha realizzate. Il miglior pregio del libro è infatti la straordinaria quantità e diversità delle fotografie selezionate: è uno sguardo a volo d'uccello sulla produzione di centinaia di artisti, di cui sono riportate 273 opere, realizzate per lo più negli ultimi trent'anni. In quasi tutti i casi è stata scelta una sola foto per artista, con un breve commento che sintetizza il tipo di ricerca e di poetica che quella immagine e quell'autore perseguono. Questo rende difficile dare il giusto spessore critico alle opere, ma è una «semplificazione indispensabile», come dice l'autrice, per poter avere una panoramica ragionevolmente ampia della recente fotografia d'arte nel mondo.

 

L'impressione complessiva di questa panoramica è rivelata proprio nelle prime righe: l'unica «idea dominante» nella fotografia contemporanea è il suo «meraviglioso pluralismo» (considerazione che peraltro vale per tutta l'arte caratterizzata dal paradigma postduchampiano e da quella che Arthur Danto ha chiamato “anarchia estetica”). Per guidarci in questo meraviglioso pluralismo, Cotton propone una tipologia che, a suo dire, non si basa tanto sui contenuti o gli stili, quanto su «motivazioni e pratiche di lavoro» (in realtà, come vedremo, ci sono anche categorie definite da ambiti tematici e da stili veri e propri). Ognuno dei nove capitoli del libro raggruppa dunque foto e fotografi che condividono un certo modo di concepire la fotografia, un certo tipo di ricerca, e ha un titolo evocativo, come quello che un curatore – qual è in effetti l'autrice – potrebbe dare alla selezione di opere e artisti per una mostra a tema.

Il primo capitolo, intitolato Se questa è arte, propone una modalità ispirata alle ricerche artistiche che hanno dato impulso al paradigma contemporaneo negli anni sessanta e settanta, nei quali dominava l'arte concettuale e la performance art.

 

Zhang Huan, To Raise the Water Level in a Fishpond, 1997.


Il comune denominatore di questi artisti e di queste foto è la progettazione e messa in scena di un evento che verrà catturato dallo scatto fotografico. Il focus però non è tanto il concetto-progetto in sé, né l'evento irripetibile in presenza, com'era nell'arte citata, ma l'immagine costruita attraverso un'azione progettata. Un buon esempio è la foto di Zhang Huan (n. 1965): dall'acqua di uno stagno emergono dal petto in su dei giovani nudi, rigidi e immobili, con lo sguardo di sfida allo spettatore come se stessero facendo un'azione eroica di resistenza. In effetti è un gruppo di dissidenti pechinesi che sta “alzando il livello della vasca dei pesci”, come recita il titolo della fotografia (To Raise the Water Level in a Fishpond, 1997). Il titolo trasfigura concettualmente l'immagine, facendola risuonare di un significato ironicamente rivoluzionario. Un'opera più recente scelta da Cotton per questo capitolo è una foto della serie Experimental Relationship realizzata dalla cinese Pixy Lao (n. 1979), nella quale un giovane uomo nudo è disteso su un letto e legato come un involtino: un'immagine che rovescia ironicamente gli steretipi erotici maschilisti (Homemade Sushi, 2010).

 

Pixy Lao, Homemade Sushi, 2010.


La seconda categoria, presentata nel capitolo intitolato C'era una volta, propone ancora foto che mettono in scena situazioni, ostentando però la dimensione teatrale e narrativa di molta pittura classica. Non a caso, nel mondo anglossassone viene definita fotografia “tableau vivant”. Paradigmatico è il lavoro di un autore famoso come Jeff Wall (n. 1946), del quale Cotton ha scelto la foto in cui è ricostruito con cura un ambiente domestico squallido, illuminato in modo vivido e disseminato ad arte di indizi che suggeriscono una lunga nottata insonne. Altrettanto paradigmatica è la foto, dalla serie Italian School, dell'ucraino Sergey Bratkov (n. 1960): tre ragazzini di un riformatorio inscenano una sacra rappresentazione rinascimentale nel giardino dell'istituto, creando un brutale contrasto tra memoria iconografica e realtà documentata (#1, 2001).

 

Sergey Bratkov, Italian School #1, 2001.


La terza modalità, l'estetica dell'impassibilità, è in realtà uno “stile” vero e proprio, anzi «lo stile fotografico predominante [...] a partire dagli anni Novanta», quello che «ha decretato l’ingresso di questo mezzo tra le forme d’arte contemporanee». Cotton indica tra i motivi del suo successo la qualità tecnica, la ricchezza di informazioni visive, le grandi dimensioni, adatti agli spazi della galleria d'arte che si erano da poco aperti al nuovo medium, e l'effetto novità dopo l'enfasi sulla pittura soggettiva e neoespressionista degli anni ottanta. Rifiuto della soggettività e riduzione dell'emotività sono caratteristiche ricorrenti in questo tipo di ricerca, che ha i suoi punti di riferimento storici nel lavoro e nell'insegnamento di Bernd e Hilla Becher, attivi già alla fine degli anni cinquanta, e prima ancora nella Neue Sachlichkeit («Nuova Oggettività») della fotografia tedesca negli anni Venti e Trenta. Figura di spicco di questa categoria è Andreas Gursky (n. 1955): le sue famose foto di grande formato colgono, con estrema nitidezza, spazi sociali e urbanistici sovraffollati e ripetitivi, spesso ripresi dall'alto, e sembrano sguardi alieni che osservano il formicolio alienante del mondo umano. L'estetica dell'impassibilità è stata applicata anche ai foto-ritratti (anzi la definizione “deadpan photography” deriva proprio dall'espressione deadpan, “faccia morta”, che era stata usata per la comicità di Buster Keaton). Esemplare in questo caso è la serie di ritratti di Thomas Ruff (n. 1958), con taglio da fototessera ma di grandi dimensioni, che guardano con ostentata inespressività lo spettatore (Portrait (A. Volkmann), 1998).

 

Thomas Ruff, Portrait (A. Volkmann), 1998.


Il quarto capitolo, Qualcosa e niente, mostra esempi di fotografia capace di attribuire a oggetti e situazioni banali e ordinari «una carica visiva e una potenzialità immaginativa», di trasformarli cioè in «attivatori dell’immaginazione». Cotton parla di un «concettualismo giocoso» e ne suggerisce delle affinità con certa scultura postminimalista che punta a «fare arte con le cose della vita quotidiana», di dinamiche concettuali che «creano confusione e contraddicono le nostre aspettative». Si parte da esempi di autori ampiamente storicizzati come Fischli & Weiss (la «comica drammaticità» di una grattugia che sorregge in un equilibrio impossibile una carota e una zucchina), Gabriel Orozco (l'infrasottile alitata sul coperchio nero e lucido di un pianoforte) e Félix González-Torres (la famosa gigantografia dei due guanciali sgualciti esposti come un cartellone pubblicitario), per arrivare a lavori di artisti più recenti come la giapponese Kawauki Rinko (n. 1972): effimere epifanie create da piccoli incontri casuali di cose nella natura, la sensazione che sta per succedere qualcosa, un evento magari minimo ma imminente (Untitled, 2004).

 

Kawauki Rinko, Untitled, 2004.


Il capitolo Vita intima – probabilmente tra i più sentiti dall'autrice, attenta alle tematiche femministe e di genere che trovano qui molta eco – presenta una pratica fotografica come «esercizio di patologia, un montaggio e una messa in sequenza di momenti privati apparentemente senza filtri che rivelano le origini e le manifestazioni delle vite emotive dei soggetti». Capostipite di questa pratica è la statunitense Nan Goldin (n. 1953), il cui lavoro documenta con grande intensità ed autenticità le proprie relazioni affettive e amicali. Cotton cita anche l'influenza delle foto di Araki Nobuyoshi (n. 1940), un diario senza censure delle proprie fantasie erotiche, e di quelle di Larry Clarck (n. 1943), che negli anni sessanta e settanta ritraeva con grande complicità il nichilismo sex & drug & rock'n'roll dei giovani americani. Un esempio molto efficace, sia per l'espressività delle immagini, sia come paradigma di questa categoria, è la foto dell'inglese Richard Billingham (n. 1970), che aveva cominciato a scattare istantanee della sua famiglia alla Andy Capp – padre alcolizzato, madre obesa e irascibile – come bozzetti per i suoi quadri alla scuola d'arte (Untitled, 1994). Nel giro di pochi anni le sue foto sono finite in un libro (Ray's laugh) e si si sono guadagnate una mostra alla Royal Academy.

 

Richard Billingham, Untitled, 1994.


Nel capitolo sulla fotografia artistica di taglio “documentaristico”, intitolato Momenti nella storia, emerge un altro aspetto a cui l'autrice è evidentemente sensibile: l'attenzione ai temi politico-sociali. Di fronte al declino della pubblicistica specializzata nei reportage fotografici, alcuni fotografi documentaristi hanno trovato nelle forme e nella ricerca dell'arte una nuova linfa. Zarina Bhimji (n. 1963) torna nell'Uganda da cui era stata espulsa ai tempi del dittatore Idi Amin per realizzare foto che sembrano still life, ma che in realtà rendono evidenti le assenze e le tracce del tempo, evocando storie di eliminazione e sterminio (Memories Were Trapped Inside the Asphalt, 1998-2003). Un registro completamente diverso è quello su cui lavora il francese Luc Delahaye (n. 1962): per la sua serie History adotta il formato panoramico e le stampe giganti per realizzare dei “tableau storici” in cui emerge il fortissimo contrasto tra la composizione esteticamente impeccabile e la crudezza della situazione, come nella foto della folla attorno ai cadaveri su una strada afgana. Il britannico Patrick Waterhouse (n. 1981) affronta il retaggio della fotografia coloniale in Australia offrendo agli aborigeni, come risarcimento simbolico, di “recludere” le proprie immagini coprendole con il dot painting tradizionale di queste comunità (Hip-Hop Gospel and Tanami. Restricted with Athena Nangala Granites, 2016).

 

Zarina Bhimji, Memories Were Trapped Inside the Asphalt, 1998-2003.


La settima categoria, Ripreso e rifatto, si concentra sulla pratica artistico-fotografia più esplicitamente legata al modo di pensare del Postmodernismo, che ci ha insegnato a guardare (anche) le fotografie non come opere create da autori, ma come segni «all'interno di un più ampio sistema di codificazione sociale e culturale». Le fotografie selezionate mostrano «esperienze che si basano sulla galleria di immagini della nostra memoria» e rendono esplicito il fatto che si nutrono di una cultura di immagini già note. Le fotografie “postmoderniste” più celebri sono quelle di Cindy Sherman (n. 1954): nei suoi Untitled Film Stills impersona gli stereotipi della figura femminile nell'immaginario collettivo mettendo in scena momenti tipici del cinema degli anni cinquanta e sessanta. In questo modo «è al contempo colei che osserva e colei che viene osservata» e mostra come la “femminilità” sia un artefatto culturale da indossare e cambiare. Altri ben noti rappresentanti della fotografia artistica postmodernista sono Richard Prince (n. 1949) e Sherrie Levine (n. 1947). Il primo è diventato famoso rifotografando i cartelloni pubblicitari, senza marchi e testo, delle sigarette Marlboro con le loro visioni idealizzate dei cow-boy americani. La seconda ha portato all'estremo la pratica dell'appropriazione ri-fotografando spudoratamente classici della fotografia come Walker Evans (1903-1975).

 

Patrick Waterhouse, Hip-Hop Gospel and Tanami. Restricted with Athena Nangala Granites, 2016.


Ma se nel caso di Levine quello che conta è l'aspetto concettuale di critica all'autorialità, altri autori hanno lavorato sulle immagini ereditate dalla tradizione in modo più attivo e stimolante. È il caso dell'inglese Tacita Dean (n. 1965), che nella serie The Russian Ending ha ingrandito alcune cartoline russe di inizi Novecento scovate in un mercatino delle pulci e sulle immagini sgranate ha aggiunto annotazioni a mano da leggersi come indicazioni di un regista. Suggerendo possibili finali di sceneggiature immaginarie rende evidenti le ambiguità di quelle immagini e la loro natura ipotetica: non fatti, ma potenzialità sospese alle interpretazioni dei nostri sguardi di posteri (Ein Sklave des Kapitals, 2000).

 

Tacita Dean, Ein Sklave des Kapitals, 2000.


Il capitolo Fisico e materiale prende spunto dalla reazione alla smaterializzazione imposta e sbandierata dal digitale, che ha portato molti artisti-fotografi a rivalutare lo status di oggetto fisico delle immagini, lavorando artigianalmente sui supporti e le loro tecniche di produzione, e recuperando tavolta le radici ottocentesche della fotografia. Tra le molte opere selezionate ci sono quelle di Ellen Carey (n. 1952) che negli anni ottanta lavorava con una Polaroid gigante e in anni recenti con la carta fotografica spiegazzata e lampi di luce in camera oscura; quella dell'americana Penelope Umbrico (n. 1957) che fotografa schermi di televisori LCD malfunzionanti trovati su eBay, creando pattern cromatici astratti; di Daniel Gordon (n. 1980) che stampa immagini trovate online, le usa per comporre un elaborato collage tridimensionale che poi fotografa ottenendo una natura morta ipnoticamente in bilico tra due e tre dimensioni. Ma gli esempi forse più suggestivi sono quelli di alcuni artisti che recuperano processi fotografici risalenti agli albori ottocenteschi quando le invenzione tecniche avevano un sapore quasi alchemico, come l'inglese Susan Derges (n. 1955) che, rievocando i “disegni fotogenici” di Talbot, ha immerso la carta sensibile sotto il pelo dell'acqua di un fiume di notte e l'ha illuminata in modo da catturare i movimenti dei riflessi in negativo (River, 23 November, 1998). È interessante notare che, pur partendo dal tema contemporaneo del rapporto tra analogico e digitale, questo tipo di ricerca fotografica porta ad esiti estetici in evidente continuità visiva col modernismo pittorico. Emblematico in questo senso il lavoro della canadese Jessica Eaton (n. 1977), che nella serie iniziata nel 2011 e intitolata significatvamente Cubes for Albers and LeWitt, fotografando un semplice cubo bianco con esposizioni multiple e diverse luci colorate, realizza astrazioni geometriche che sembrano quasi trompe l'oeil tridimensionali.

 

Susan Derges, River, 23 November, 1998.


L'ultima categoria proposta da Charlotte Cotton è quella che rende conto delle ricerche più recenti e avanzate. Nel titolo scelto, Fotograficità (Photographicness), risuona probabilmente l'idea che oggi «la fotografia come forma culturale è un campo aperto» e la convinzione che questi artisti-fotografi indichino «cambiamenti culturali» e «nuovi paradigmi». Ma suona un po' paradossale perché in realtà i lavori selezionati suggeriscono una specie di mutazione genetica del medium fotografico, che si allontana dalla sua natura per ibridarsi con le più varie modalità di espressione artistica. In realtà soprattutto qui – ma anche nei due capitoli precedenti – la categoria più appropriata sembra quella di “reinvenzione del medium” proposta da Rosalind Krauss: questi artisti stanno cercando di reinventare la fotografia immaginando per essa un nuovo linguaggio e spingendola verso esiti del tutto inattesi. Un caso esemplare è quello di Isa Gentzen (n. 1948) che usa la fotografia come uno degli elementi oggettuali delle sue installazioni (Untitled, 2006). Forse anche per questo le opere qui presentate sono più disomogenee per forza visiva e valore concettuale rispetto a quelle dei capitoli precedenti. Gli artisti «post-Internet», sostiene Cotton, «attraversano tutto il campo fotografico» e sono «consapevoli dei modi in cui i sistemi mercificati della comunicazione visiva [...] influiscono sul significato e la creazione delle opere d’arte fotografiche e sull’inseparabilità dell’arte dal suo piú ampio contesto visivo». Non sempre però tale consapevolezza si traduce in opere convincenti.

 

Ma anche il critico, come ben sapeva Leo Steinberg, può trovarsi smarrito e infastidito di fronte a un'arte nuova. Ci sono opere, come i primi Jasper Johns, che Steinberg confessa di non aver capito, che si presentano come «sfide all'immaginazione, e modi “corretti” di pensarle o sentirle semplicemente non esistono». Il che non esime i critici da cercare di pensarle – e aiutare a pensarle – usando le parole nel modo migliore.

Questo è, a mio avviso, il punto debole del libro di Charlotte Cotton, che ogni tanto cade in forzature ideologiche e analisi un po' superficiali, e spesso indulge a una scrittura concettosa e legnosa, ulteriormente appesantita da una traduzione che lascia spesso a desiderare. Ma il suo sforzo di selezionare e pensare il panorama così vasto e meravigliosamente pluralista compensa ampiamente i difetti. E ci invita a diventare noi stessi critici e curatori, tentando nuove analisi e cercando altre connessioni – magari inserendo quegli artisti italiani che qui mancano, pur avendo contribuito con grande originalità e qualità a diversificare l'arte della fotografia.

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