Da oggi a Palazzo Reale / Keith Haring a Milano

21 Febbraio 2017

La pagina dei Diari reca la data del 13 giugno 1984. C’è un disegno. Uno dei suoi omini le cui mani entrano nel corpo passandolo da parte a parte, disegnando così una specie di esse rovesciata. La mano di destra attraversa la testa e sbuca oltre; quella di sinistra attraversa la pancia. L’omino non ha occhi, bocca, orecchie e neppure naso. A fianco: 84. Sotto, un cuore, da un lato, e un intestino o stomaco, dall’altro. Keith Haring, la cui mania di tenere un diario personale discende dal suo mentore, Andy Warhol, spiega che questo disegno l’ha fatto per la prima volta a Milano nel 1984. Vuole sintetizzare la “riconciliazione tra testa e stomaco”. Spiega che il puro intelletto senza sentimenti è inutile, e potenzialmente pericoloso – e fa l’esempio del computer suo grande nemico –, mentre “l’espressionismo (stomaco) senza intelletto è insensato e in genere noioso”. 

 

Strano disegno perché, per quanto ai piedi del personaggio ci sia il cuore, le due mani attraversano la testa e lo stomaco, non propriamente il cuore, che culturalmente dovrebbe essere la sede dei sentimenti, almeno da qualche secolo in qua. Che il cuore per Haring stia nello stomaco? In quella pagina di diario che somiglia a quella di uno studente universitario con qualche buona lettura dietro le spalle, l’artista americano spiega che l’uomo moderno deve affrontare la riconciliazione tra intelletto e sentimenti/cervello e cuore/razionale e irrazionale/mente e spirito. Il nemico sarebbe la tecnologia, i computer, l’avidità umana. Non dice male, ma le idee non sono proprio chiarissime. Del resto non si può chiedere a un artista coerenza e sottigliezza filosofica. Tuttavia è quella mano infilata nella pancia, verso il basso ventre, a far pensare. Certo, c’è la necessità di dare vita a una forma equilibrata e la esse composta dalle due mani e braccia viene meglio lì in basso ,che non in alto, dritta al cuore. 

 

 

Queste pagine del Diario che parlano di Milano sono state senza dubbio scritte a posteriori (13 giugno), non solo come certificano i tempi al passato, ma come mostra il confronto con altre pagine del libro (Mondadori, 2001), di cui non condividono l’immediatezza e l’icasticità della scrittura a caldo, fatta subito dopo gli eventi vissuti, quasi in contemporanea. Keith è arrivato a Milano nel mese di giugno. Ce l’ha portato Salvatore Ala, il gallerista che gli allestirà la mostra. Lavora tutto il giorno nei grandi spazi, coccolato da Ala e dalle persone del suo entourage. Poi la sera va al Plastic dove c’è Nicola Guiducci, l’amico dj che mette sui piatti la musica che Keith ama, e per questo lo fa sentire a New York. Insieme tirano coca e bevono champagne, come racconta qualche pagina dopo in occasione di un altro passaggio, o scalo rapido, nella città italiana, nel 1986. Un altro dei suoi frenetici viaggi per il mondo, che però gli permettono di vedere gli amici dell’arte e dell’editoria, e nelle serate milanesi Guiducci, suo mentore notturno. Haring è stato come altri artisti e scrittori un uomo dalla doppia vita. Quella diurna fatta di pittura, lavoro, contatti con galleristi, poi quella notturna nelle discoteche; sono gli anni che seguono “la febbre del sabato sera”. Lì s’immerge in un mondo che gli piace, che lo arricchisce emotivamente e sessualmente, che lo rende felice. Sballo, incontri, sesso. 

 

Le tre o quattro pagine del resoconto italiano, che si leggono anche nel catalogo postumo della mostra, Keith Haring a Milano (a cura di Alessandra Galasso, Johan&Levi 2005), dove ci sono le immagini delle opere esposte e tante foto di lui e della gente che lo circondava, sono improntate alla parte chiara dell’artista e contengono il racconto della sua irresistibile attività che in capo a tre settimane lo ha portato a dipingere installazioni, vasi, statue, grandi fogli di legno a Milano, e anche per la Biennale di Venezia. Ci sono in quei fogli i nomi dei collaboratori, fornitori di oggetti, pizzaioli, fattorini, negozianti e, soprattutto, di Salvatore Ala, suo custode, soccorritore, accompagnatore e finanziatore di questa frenetica attività milanese. Migliaia di persone affolleranno l’inaugurazione, tutte per vedere da vicino l’angelo newyorkese, il graffitaro che aveva toccato il cielo con un dito, l’erede, più o meno presunto, di Warhol. Artista ricco, autore di un fantastico merchandising con il suo segno unico riprodotto in migliaia di copie. 

 

Mancano ancora poco meno di sei anni a quel 16 febbraio 1990 in cui, a trentun anni, Keith Haring muore di Aids, all’alba, quando la luce del giorno sta per nascere ma non è ancora spuntata e il corpo è stato abbandonato dai segni indelebili della notte. Muore quando l’energia è minima, e il punto vitale di rottura massimo. Si cessa di respirare all’alba o al tramonto, nei momenti critici della luce. Haring, artista super energetico, non ha fatto eccezione, proprio lui che è stato il simbolo perfetto degli anni Ottanta, decennio che spazza via di colpo le ubbie della rivoluzione e annuncia la liberazione totale del consumo. Principe dei gadget, il graffitaro newyorkese ha interpretato benissimo quella stagione che ha nell’Aids il suo marchio negativo, là dove pulsione di vita e pulsione di morte si toccano e si combinano in uno scambio continuo, in un vero e proprio chiasmo pulsionale. 

 

Il segreto dell’arte di Haring, che torna ora a Milano a distanza di trentatré anni, due in più della sua età fatale, sta in un’altra pagina di diario di quattro anni prima dell’arrivo nella città: 18 marzo 1980. Keith parla dei ragazzi che lo fanno impazzire. Li guarda in metropolitana a New York e l’immaginazione corre: “Posso averli tutti questi ragazzi , ognuno di loro, stanotte, da solo nella mia cameretta, al buio, è la mia immaginazione che va: occhi scuri, capelli scuri e corpi favolosi”. Ha letto di recente Genet e lo cita: “Grosso pene bramoso che sorge da un letto di riccioli neri”. Trascrive se stesso, scrive e aggiunge rivolto al sé: “smetti di pensarci e muta quest’energia in un’altra forma”. Haring sa bene di quale energia si tratta: energia sessuale. Conclude l’appunto: “Quest’energia, è l’energia sessuale, è forse l’unico e il più potente degli impulsi che sento: più dell’arte? (!)”. Domanda imbarazzante: “Più dell’arte?”. Ma non è forse arte anche quella?

 

Accanto ha disegnato con uno spesso tratto nero un busto maschile incompiuto da un lato; si vede la testa, la mano dietro il capo, il braccio muscoloso teso, i peli dell’ascella, il capezzolo e un fianco. Niente volto, niente pube, niente occhi, niente pene. Lo sa bene Keith che tutto scaturisce da lì, dal desiderio. Dalla passione sessuale. La sua arte è infatti tutta segno, tutta energia, tutto svolgimento. Non c’è nulla di riflessivo, di meditato, nulla di temporalmente fisso. Tutto evolve e avvolge come in un atto sessuale. Dipinge come se facesse l’amore con quei ragazzi, circondando lo spazio con il suo segno che è un prolungamento della mano, del braccio, del corpo. Segni ripetuti, come gesti, attorno ai corpi dei ragazzi: “i bei fottuti ragazzi” intravisti in metropolitana. Nelle interviste l’ha spiegato bene: lui non è che un tramite delle immagini. Le immagini sono in lui, lo abitano, e grazie a lui diventano forma. Come fare sesso. Dirà che dipingere con i suoi pennelli quei segni ampi e avvolgenti, è compiere una specie di magia. E cosa è del resto il sesso stesso, se non una magia?

 

Non solo per lui, ovviamente. Mentre dipinge si sente posseduto e porta in superficie, dice in un’intervista, alle immagini che lo abitano. Solo Jung, tra i fondatori della psicoanalisi, ha visto chiaramente questa magia, e l’ha collegata giustamente all’inconscio collettivo, e all’energia del sesso: volontà cosmica. Keith Haring dà forma proprio a questo. Ecco perché tutti, quando hanno visto per la prima volta i suoi segni nella metropolitana di New York, piuttosto che su una maglietta o su un quaderno, nelle gallerie o invece in un museo, hanno riconosciuto in quei segni qualcosa che già conoscevano. Haring dà forma a qualcosa che ci riguarda tutti, e che solo pochi hanno la ventura e la fortuna di realizzare sotto forma di arte. Dà continuità sulle pareti ai nostri gesti più intimi, quando pensiamo, o lo facciamo, d’avvolgere il corpo dell’altro in un abbraccio, di possederlo, di circoscriverlo e di proiettarlo, attraverso la nostra immaginazione, in uno spazio cosmico. L’immaginazione corre nelle tavole, sui muri, intorno ai vasi, nelle T-shirt, che Keith dipinge a ritmo forsennato e distribuisce a Milano. Vorrebbe averli tutti quei ragazzi, quelli che adesso vede nel suo dipingere, sia che si tratti di uomini con la testa di cane, di uomini senza volto, di calligrammi, o puffi azzurri, donne con sei seni e peni prominenti, bocche fameliche dentate, dinosauri dal collo lunghissimo. Averli tutti. Il cazzo è una delle sue più frequenti tag, ma nonostante questo, nonostante il suo bestiario, questo allegro Hieronymus Bosch degli anni Ottanta, possiede senza dubbio qualcosa di spirituale, di gioioso, pur nella evocazione di sabba e danze macabre a scopo orgiastico. C’è in Haring il sesso animalesco, ma anche la leggerezza dello sfioramento, della carezza, del bacio. C’è un mondo bifido, diviso, partito in due: giorno e notte, amore e brutalità, tenerezza e abrasione. Keith Haring, come ha scritto la critica, è un voyeur, uno che vuole vedere. Prima di tutto le visioni, le immaginazioni che lo abitano. La stessa vorticosa energia con cui ha lavorato è il segno di questa impellenza del vedere e del far vedere.

 

Alla fine del Diario è ancora in Italia. Prima ad Amalfi, con Francesco e Alba Clemente. Poi vola a Parigi. Riparte per Milano in aereo. Racconta cosa legge: Cities on a Hill, su una comunità di pensionati. Si rende conto che alla pensione non ci arriverà. Eppure lo interessa. Parla dell’AIDS: “Perché dovrei esserne esente? Perché io no?”. E conclude: “nessuno può sfuggire alla morte”. Due pagine dopo è il 22 settembre 1989. L’ultima pagina del diario. Di nuovo a Milano, in giro per la città. Deve andare a Pisa. Stanno per concludersi gli anni Ottanta. Poco prima della caduta del Muro di Berlino l’ha dipinto, fotografato e mostrato in tutto il mondo. Ora l’aspetta Pisa. Là c’è la Torre; la osserva alla luce del giorno, poi ancora di notte. Non lo scrive, ma forse lo pensa: è un grande simbolo fallico. Non la dipingerà. L’ultima riga è per quell’edificio inclinato: “È veramente grandiosa e al tempo stesso esilarante. Ogni volta che la guardi ti fa sorridere”. 

Chi c’era in quel giugno del 1984 a Milano, ricorda ancora i manifesti che annunciavano per le vie la mostra da Salvatore Ala. Ritraevano un volto giallo con due occhi spiritati a cerchi concentrici e un gran sorriso a denti scoperti. Sotto, tre omini reggevano il sorriso. Come il Gatto dello Cheshire. Lo Stregatto Keith se n’è andato, ma il sorriso resta.  

 

Keith Haring. About Art, a cura di Gianno Mercurio (Palazzo Reale, Milano, dal 21/02/2017 al 18/06/2017).

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