Tecnologie della sensibilità

29 Gennaio 2015

Quando parliamo di interattività, ci riferiamo come noto a quel tipo di comunicazione specifica che i media digitali hanno gradualmente lasciato emergere: un tipo di comunicazione che prevede, in ogni caso, l’intervento attivo da parte di un utente, in grado di partecipare al processo stesso di costruzione della comunicazione. All’utente, per esempio, è richiesta l’attivazione di un’interfaccia, che è esattamente lo strumento attraverso il quale ha luogo l’interconnessione fra il programma e il suo utilizzatore, ai fini dell’ottenimento di un’informazione. È interattivo il ruolo dell’utente di una pay per view che, seduto sul divano di casa sua, sceglie il film che vuol vedere (selezionandolo fra categorie che il programma ha predisposto: film per tutti, commedie, thriller, etc.), paga (anche in questo caso tramite un sistema previsto dal programma) per la visione in anteprima e finalmente si gode il risultato delle sue operazioni. Opera interattivamente il telespettatore di un telegiornale che col suo telecomando decide di rispondere a uno dei sondaggi su temi di politica, attualità e costume che la testata decide di rivolgere a coloro che sono davanti al televisore. Forme elementari di interattività che la comunicazione televisiva ha fatto propria e che si sono complicate, assumendo connotati ben più complessi, in rete, almeno da quando il web 2.0 ha previsto strutturalmente il contributo degli utenti nella costruzione di un piano della comunicazione integrabile ed espandibile. In questo senso, forme di interattività sono i commenti lasciati dai lettori in calce a un pezzo come questo, i post degli utenti di un qualsiasi social network, o i match giocati in rete fra gli utilizzatori di uno stesso videogame.  

 

Era il 1998 quando J.F. Jensen tentava di dare una prima definizione di interattività, seguita da un abbozzo di categorizzazione di fenomeni variamente riconoscibili come interattivi (Interactivity: Tracing a new concept in media and communication studies). Da allora parecchie cose sono cambiate, tanto che oggi questo fenomeno appartiene alla nostra quotidianità, ma in merito ad esso, nonostante  già molto – e da molti punti di vista – sia stato detto, permangono ampi margini di oscurità e incomprensione. Ed è proprio dal tentativo di chiarire cosa sia e come vada intesa l’interattività (indagata nelle forme e nei modi in cui essa è messo in gioco da una serie di tecnologie mediali, recenti e meno recenti, che su di essa fondano la possibilità stessa del loro funzionamento) che prende avvio l’ultimo libro di Pietro Montani: Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva (Cortina, 2014). In via del tutto preliminare, va detto che se da una parte il contributo di Montani si inserisce all’interno della già ampia letteratura sull’argomento, dall’altra segna un decisivo punto di scarto. La prospettiva da cui il problema dell’interattività è affrontato non è infatti quella per certi versi più consueta della sociologia dei media, dalla quale sarebbe possibile aspettarsi un’analisi di dati e fenomeni quantitativamente sempre più rilevanti e per questo significativi agli occhi dello scienziato sociale. Qui invece è il filosofo che sceglie di occuparsi di questo problema non tanto (o non soltanto) in quanto pratica, ma anche (soprattutto) in quanto nodo teorico capace di richiedere attenzione a quanti oggi vogliano continuare a produrre filosofia. È infatti in questa prospettiva che va intesa la posta messa in gioco nel volume di Montani: leggere la questione, sotto certi aspetti recentissima, dell’interattività (divenuta a questo punto, oltre che una pratica, un concetto) in stretta connessione con quella tradizionalmente più fondata dell’immaginazione. La tradizione a cui si fa riferimento è, con ogni evidenza, quella dell’estetica moderna, che nella grande opera kantiana ha trovato la propria origine sul finire del XVIII secolo. Chiunque conosca il lavoro di Montani sa inoltre che questa tradizione è da sempre oggetto di riflessione da parte del filosofo, che al problema dell’immaginazione nello specifico ha dedicato alcuni dei momenti più rilevanti.

 

 

In particolare – mi si passi l’espressione – Tecnologie della sensibilità è il capitolo conclusivo di una “trilogia” aperta da L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario (Guerini, 2000) e continuata con L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile (Laterza, 2010). Ma se la questione dell’immaginazione (intesa, dovendo qui semplificare radicalmente, come la facoltà da cui dipende il lavoro di organizzazione dei dati sensibili, in vista, per esempio, della produzione di immagini capaci di farsi veicolo di un pensiero) attraversa e tiene uniti i tre volumi fra loro, sebbene secondo direttive di volta in volta diverse, il corpus di oggetti all’interno del quale se ne mostra il lavoro subisce, in quest’ultimo volume, una radicale modificazione. Sono spariti, fra le altre cose, il cinema e i film, dal momento che essi possono chiedere al proprio spettatore al più operazioni di “cooperazione interpretativa”, a volte anche molto complesse, come nel caso di autori particolarmente cari a Montani (da Ejzenštejn a Lynch, da Kiarostami a Bellocchio), ma comunque non interventi propriamente interattivi.

 

È infatti la declinazione radicale (e dunque già molto lontana dagli esempi da cui questo intervento ha preso le mosse) di un concetto come quello di interattività che Montani propone, e che cercherò di esemplificare, a determinare in maniera pressoché necessaria il superamento non solo del dominio dell’arte, ma anche dell’idea di “opera”, finanche nelle sue elaborazioni più problematiche e complesse, come quelle sperimentate, per esempio, dal lavoro di Studio azzurro, e nello specifico dall’istallazione del “Museo Laboratorio della Mente”, realizzata nei locali dell’ex-ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà a Roma. Mi preoccuperò di spiegare il perché, mostrando allo stesso tempo le ragioni per cui, al fine di illustrare la sua idea di interattività, Montani trovi molto più agevole e fruttuoso interrogare oggetti come le Wearable Technologies (tecnologie indossabili, come per esempio i Google Glass), l’Augmented Reality o più in generale quel grande magazzino di immagini che oggi è la rete. Con una sola macroscopica eccezione (che forse eccezione non è): il lavoro di un grande regista come Dziga Vertov, soprattutto il progetto interrotto di Kinoglaz, al quale Montani riconosce la posizione privilegiata di precursore di quella idea di interattività che il volume intende precisare e mettere in luce.

 

È allora giusto, di questa idea di interattività, enunciare almeno alcuni dei caratteri più rilevanti, per poterne comprendere fino in fondo tutte le implicazioni teoriche e filosofiche. Si può parlare di una vera e propria forma di interattività, “irriducibile ai processi della cooperazione interpretativa”, quando “l’oggetto sorto dal processo interattivo così concepito” si emancipa “in via definitiva dallo statuto di opera per assumere quello di una vera e propria forma di vita tecnica, capace di trasformarsi (…) in modo non programmabile, benché conforme a regole: evolvendo, se ce ne sono le motivazioni, o anche estinguendosi, se quelle motivazioni non ci fossero o fossero troppo debolmente raccolte da un ambiente associato” (p. 77). “L’interattività destinata a prendere il posto della cooperazione interpretativa è tale solo quando venga autorizzata (o si autorizzi da sola) alla modifica, per espansione o per alterazione, del testo (audiovisivo o di altro tipo) di partenza” (p. 79).

 

Il punto che emerge è di una certa rilevanza teorica e non solo perché, lo si è già ricordato, un’idea così concepita di interattività sarebbe in grado di mettere in discussione l’idea stessa di opera e di autore, attorno a cui il concetto di arte per secoli si è fondato. La questione, ben più complicata di questa, ha a che fare con il fatto che il destino e l’evoluzione di queste forme di vita tecnica di cui stiamo parlando dipendono, molto di più di quello di un’opera, dall’uso che spettatori-utenti decidono, più o meno creativamente, di volta in volta, di farne. Considerazione questa che, per esempio, conduce Montani a interrogarsi sullo sviluppo di “oggetti” tecnici come i Google Glass o l’Augmented Reality, il cui futuro, ora semplicemente anticipabile, sarà istruito dall’evoluzione che darwinianamente conosceranno, sulla scorta dell’uso che di essi gli utenti avranno deciso di fare.

 

Ecco dunque la sfida che il lavoro di Montani lancia ai propri lettori: si possono pensare interventi creativamente qualificati degli utenti sulla vita degli oggetti tecnici di cui fanno uso, che li allontanino dagli esiti giocosi ai quali sembrano in molti casi indirizzati, per destinarli, per esempio, come in qualche episodio pare accadere, alla creazione di nuovi spazi di elaborazione politica e comunitaria? La scommessa passa evidentemente attraverso la possibilità che l’immaginazione (si legga ancora qui immaginazione non come fantasia, ma come facoltà di produrre immagini, comprese nello spettro amplissimo che va dall’arte alle nuove tecnologie digitali), messa in gioco in tutti i processi interattivi di cui si parla, riscopra, in linea – più o meno fedelmente – con la tradizione filosofica a cui Montani fa riferimento (da Kant a Dewey, fino a Benjamin), la propria vocazione intimamente politica. Perché ciò accada è allora necessario ritornare a parlare di qualcosa come un’educazione estetica, che è evidentemente alfabetizzazione all’uso del mezzo e presa di coscienza critica delle sue potenzialità: “se di quest’ultimo il libro che state per leggere avrà saputo abbozzare efficacemente i prolegomeni, l’autore sarà pienamente ripagato del suo lavoro” (p. 19). È l’augurio con cui il volume si apre e forse anche il miglior invito alla lettura con cui la pur breve presentazione di un volume può chiudersi.  

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