Poesia / Chandra Livia Candiani, La domanda della sete

12 Gennaio 2021

I lettori di “Doppiozero”, e ormai i lettori italiani di poesia in generale, non hanno bisogno di molte informazioni preliminari su Chandra Livia Candiani. Conoscono la sua figura e le sue parole «che non si danno arie», «leggere eppure capaci di sfamare e dissetare», «parole disobbedienti ma anche candide», «parole aghi che cuciono e parole che strappano la stoffa del discorso». Soprattutto – anche attraverso un acuto articolo di Moreno Montanari (“Doppiozero”, 20 febbraio 2019) conoscono la sua peculiare capacità di percepire la realtà con uno sguardo che sorprende e con un pensiero che, tenendosi appena un passo indietro allo sguardo, ma pronto a scavalcarlo, ci fa riflettere su «L’io e il corpo, le relazioni e il male, l’universo e gli oggetti», ovvero sulle principali questioni della filosofia contemporanea occidentale (nonché della nostra vita), con una angolazione diversa e spesso spiazzante, regalandoci cioè «un’altra vista» (così G. Morale, “La nazione indiana”) che magari credevamo di non avere o di non avere più, offuscata dall’eccesso di stimoli che caratterizza il nostro comune modo di stare al mondo. 

 

Nel suo ultimo libro uscito per la prestigiosa Collezione di poesia Einaudi, La domanda della sete tutte le questioni prima ricordate sono presenti, sapientemente orchestrate – almeno a me sembra - come i movimenti di una sinfonia in cui certi temi e frasi appaiono, poi restano sottotraccia per poi tornare a imporsi in un successivo movimento. E dato che questi nuclei sono quelli tipici del percorso poetico di Chandra Candiani, i lettori hanno l’impressione di riprendere, insieme all’autrice, un filo non interrotto di una meditazione che può durare quanto la vita stessa. 

 

Così, La domanda della sete si apre con una sezione (“Il corpo battello”) che pare riprendere il tema, già molto importante nel precedente libro La bambina pugile (Einaudi 2014), dell’io. Alla domanda che si poneva in quel libro (“Cosa diciamo / quando diciamo me”) “Il corpo battello” sembra rispondere attraverso una sorta di gioco che può ricordare certe esperienze didattiche che si fanno con i bambini (che la Candiani frequenta perché lavora con loro sulla poesia): il corpo viene scomposto in parti. Ecco quindi una poesia – nell’ordine – per il cuore, i piedi, le mani, le faccia, l’ombelico, la pelle, gli occhi, le orecchie, la bocca, la voce, di nuovo il cuore, il sangue. In questa fictio personae ciascuna di queste entità gioca un ruolo:

- Piccolo cuore notturno / che mi tira per la manica / spella il sonno / dimmi di cosa manchi (5)

- I piedi hanno un grande arco / per disegnare il bordo del mondo / seguono le tracce dell’invisibile / lo disegnano (6)

- Le mani rotolano la terra / la farina l’acqua il sale / impastano, bevono / e distinguono, raccolgono, / addormentano, addomesticano / il dolore, accarezzano, come un gesto / che prende il posto del pensiero, i suoi / manovali. (7)

- La faccia è molto sola / cosí sempre affacciata / e invisibile a se stessa. / Non ha ringhiera / ma le tante facce della faccia / si susseguono in un cinema tra muti (8)

- La pelle è sempre in prima linea / come i cappotti le madri i villaggi, /è un confuso conoscitore di mondi (10) 

- Non parlarmi degli occhi / non piacciono a nessun animale / li feriscono bucano il loro velo / di riservatezza. (12) 

Attorno a queste entità ormai autonomizzate si addensa un gioco di metafore: L’ombelico è la nostra ferita / la ferita di essere al mondo (9); La pelle è educazione sentimentale (10); La bocca è la cucina del cuore / lí si preparano le feste e i lutti (12); Sono il tuo cuore. Il tuo straniero (16). Qualche volta esse prendono la parola, più spesso ad esse ci si rivolge e se ne accontano le funzioni, le abitudini, le traversie. Il gioco (forse un po’ medievale: viene in mente la poesia di Cavalcanti che scindeva l’io in cuore, corpo, anima, spiriti, voce) di trasformare le res in signa è scoperto, ma non per questo meno riuscito poeticamente. L’io in quanto tale fa un passo indietro, ma la storia dei suoi componenti è sempre – pur così “rashomonizzata” – una vicenda di sofferenza e, talvolta, di salvezza che accomuna “io” alle cose e alle creature, secondo una costante tipica di Candiani:

 

Non parlarmi degli occhi

non piacciono a nessun animale

li feriscono bucano il loro velo

di riservatezza.

Guardare parlare sono frecce

scagliate nel segreto.

Lo spogliano lo mancano.

L’occhio illumina

e l’universo ha le finestre

l’occhio notturno vede i sogni.

Povero molto povero

è l’occhio

finché non è il mondo.

Meglio non fissare, meglio galleggiare

senza la pressione dello sguardo,

la sua rapina, stare tra tutti

i suoni svegli delle creature

e delle cose,

presenza zitta e movimentata. (12)

 

 

Posta in testa alla raccolta, la sezione dà la tonalità al libro anche perché alcune delle sue parole chiave ricorrono moltissime volte nelle successive sezioni (pelle: 21, 22, 25, 27, 30, 31, 55, 65, 90; cuore: 43, 65, 72, 80, 97, 113, 123, 131, 134; mani: 29, 48, 68, 70, 79, 85, 88, 111, 126; ecc.)

Se “Il corpo battello”, anche nella commistione di vitalità e sofferenza, è un “allegro” (o almeno un “allegro ma non troppo”), i successivi movimenti sembrano rallentare. 

La sezione “Testimoni glaciali” (dal verso I bambini specchio / testimoni glaciali / della ferocia adulta, 38) appare come una meditazione sul passato e sul dolore. Le sue parole chiave, un apparente ossimoro, sono il fuoco e il ghiaccio, le coordinate della purgatoriale condizione umana. Con il male la Candiani ingaggia un mite duello per il quale occorre trovare le parole che lo definiscano e lo giustifichino:

 

Dove ti sei perduta

da quale dove non torni,

assediata

bruci senza origine.

Questo fuoco

deve trovare le sue parole

pronunciare condizioni

di smarrimento dire:

«Sei l’unica me che ho

torna a casa». (35)

 

anche se la “guarigione” è sempre possibile, affidata al suo consueto movimento di superare l’io in nome di un’adesione alle cose dell’universo: 

 

Non fare parole né fiori

non dire mezzanotte né torna presto

non aggiudicarsi malanni

restare in bilico come fa la pioggia

sui fili del bucato, come una

nuvola deserta, contare momenti magnifici

sulle dita, assaporarli come semi sconosciuti

e chinarsi fino a terra chinarsi e chinarsi

fino a essere polvere. Ecco, sei salva. (39)

 

Le successive sezioni – “La domanda della sete”, “Chiamati al volo”, “I nascosti” – sembrano tematicamente incentrarsi rispettimente: sull’amore (e più in generale gli amori); sulla morte e sul colloquio con gli scomparsi che restanto tuttavia in altro modo presenti; sulla quotidianità contemporane e le sue relazioni spesso inautentiche, disturbanti. 

Nella sezione “Chiamati al volo” l’immagine del “volo” ci riporta ad un nucleo di meditazioni di cui la Candiani ha dato conto proprio su queste pagine, scrivendo «Ma se noi la smettessimo di considerare la morte un muro invalicabile solo perché non la conosciamo o ci siamo dimenticati di averla conosciuta, e non vediamo oltre il muro, avremmo una grande avventura in cui arrischiarci. Un’avventura di decifrazione e di segni sottili e di educazione al sentire e al percepire oltre l’apparenza.». Di questa “avventura di decifrazione” danno conto alcuni testi molto belli della nuova raccolta, la cui tonalità trascorre dall’evocazione struggente:

 

Un altro tipo di nascita

ti ha rapita

lasciando qui

l’ingombro del corpo.

Hai il sonno della neve

un silenzio disseminato

come una città di lucciole

in campo nero.

Siamo foresta qui

io e te da sole,

non siamo gli alberi

non siamo i cespugli

né gli uccelli e nemmeno

le impronte degli animali

ma gli spazi

tra gli alberi, gli uccelli,

le impronte degli animali:

chiamami. Siamo state sorelle

e adesso stringi il cuore

con un morso, con un nome

qualunque, chiamami. (80)

 

alla fierezza (come diceva Giudici) di “vivere la propria morte” e non “morire la vita”. 

 

Io temo i brutti versi

del commiato

l’animale prostrato

l’uggiolare per lo scampo

sono bestia delle steppe

me ne vado con un balzo

scalpitando

per l’infinito vuoto

che mi scorta

a un volere sconosciuto

e grande. (86)

 

Il libro termina – proprio come una sinfonia – con l’ultimo movimento che riprende l’andamento brillante del primo. 

Gli “abitanti della meraviglia” che intitolano l’ultima sezione sono l’erba, i sassi, i fiori del melo, le betulle e i faggi, il misterioso “puma blu”, ma anche i più domestici rosmarino e basilico, l’ibisco, il “pesce buio” delle profondità marine, la pioggia e altre creature. Il lettore potrà scoprire che cosa li distingue e soprattutto cosa li accomuna all’io che presso di loro conclude il suo percorso di acquisizione di saggezza.

Forse la rinuncia, di fronte al mistero, a usare “gli strumenti umani” della ragione (Allora il ciliegio dice: / «Non usare piú la ragione, / è cosí vecchia. /  Lascialo cadere nei suoi frantumi /  il vecchio cuore, te ne daremo uno nuovo. /Sarà di lepre e di giaguaro», 131) e persino della parola (Scompaiono gli animali / con il silenzio elegante / di chi si affida al decreto / di assenza e presenza, 128 ; Badare alle minuzie dell’insieme / senza pronunciare verbo, 130) perché forse solo il silenzio può custodire i «segreti di un ciclo più grande» (122). 

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