Coscienza / Noi siamo, tu sei, io sono

25 Ottobre 2019

 

“Chi sono io e chi sei tu se non ci comprendiamo”, scrive Lou Andreas Salomé a Rainer Maria Rilke.

Come facciamo a comprendere l’altro e a comprenderci con gli altri? e come facciamo ad avere coscienza di noi stessi, degli altri, del mondo?: sono per molti aspetti domande della vita di ogni giorno a cui tendiamo a dare risposte di senso comune, e allo stesso tempo si propongono come le questioni delle questioni. Sembrano, infatti, a prima vista, domande banali e scontate, salvo scoprirne la profondità appena siamo toccati direttamente nell’esperienza della nostra vita. In buona misura, dalle più grandi tradizioni poetiche, letterarie e filosofiche, fino alle domande che oggi si pongono le neuroscienze cognitive e affettive, non abbiamo mai smesso di interrogarci sulla nostra esperienza intersoggettiva e sul rapporto tra quell’esperienza e la nostra individuazione. L’altro lo comprendiamo e allo stesso tempo siamo spesso incagliati nell’incomprensione, nell’incomunicabilità e nell’indifferenza. Quando ci sembra di avere tutto chiaro, si affacciano dubbi ed esperienze sconcertanti e inspiegabili. Così come sappiamo di esserci e abbiamo coscienza di noi e di quello che ci accade, anche se, allo stesso tempo, non solo non è facile dire come e perché, ma spesso ci accadono eventi che ci fanno dubitare persino di tutto questo.

Viviamo anni affascinanti, in quanto non solo stiamo scoprendo cose intorno a noi che ci collocano negli universi infiniti e nella storia profonda, rispetto a cui ci sentiamo piccoli e pieni di meraviglia. Non meno meraviglioso è quello che scopriamo guardando dentro noi, né meno complesso e stupefacente è quello che vediamo. Non è ancora tutto, né molto. Anzi, per certi aspetti siamo solo agli inizi. Possiamo però trarre molti benefici da alcune importanti scoperte scientifiche che ci aiutano a capire meglio cosa significa essere umani. Capire un poco meglio se stessi diventa allora una delle imprese più coinvolgenti tra quelle immaginabili.

 

Una delle evidenze che la ricerca ci consegna negli ultimi anni con sempre maggiori approfondimenti e conferme è quella del ruolo e delle funzioni che i sistemi mirror – o neuroni specchio – svolgono nell’esperienza relazionale, nell’intersoggettività e nell’individuazione; in poche parole, nella comprensione di noi e degli altri. Giacomo Rizzolatti, guida scientifica del team che, con Vittorio Gallese e ad altri importanti ricercatori, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso ha scoperto i neuroni specchio, insieme al filosofo della scienza Corrado Sinigaglia, ci fornisce un decisivo approfondimento, con estensioni più ricche e dettagliate, della rilevanza di quella scoperta in un libro, Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno, pubblicato da Raffaello Cortina Editore, Milano 2019. Lo stesso editore aveva pubblicato, nel 2006, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, libro degli stessi autori, che ha avuto meriti di particolare importanza nell’innovare le conoscenze e gli stessi approcci di ricerca sul comportamento umano e degli altri animali.

La rilevanza del corpo e del movimento sono stati posti al centro dell’attenzione dopo decenni di prevalente orientamento cognitivista. La relazione e l’intersoggettività sono progressivamente riconosciute come la base dell’individuazione soggettiva. Quelle che erano state intuizioni e ipotesi rilevanti di alcune tradizioni di pensiero ricevono verifiche sperimentali importanti e decisive. 

 

 

Come è ormai noto e verificato, infatti, in un numero sempre più ampio di ricerche sperimentali condotte nei più importanti centri di ricerca mondiali, quel particolare tipo di cellule cerebrali degli umani e di molti altri animali che chiamiamo metaforicamente neuroni specchio, si attivano e rispondono sia quando noi compiamo direttamente un’azione, sia quando osserviamo un altro compiere la stessa azione o anche solo manifestare comportamenti che indicano l’intenzione di compierla. In tal modo le nostre dotazioni cerebrali relative al meccanismo dei neuroni specchio è alla base della nostra possibilità e capacità di comprendere le azioni e le emozioni altrui. 

Fin dagli inizi di questa che si configura come un’importante svolta nella conoscenza del comportamento umano, fu evidente la rilevanza del sistema sensori-viscero-motorio per la comprensione delle vie mediante le quali diventiamo capaci di sapere quello che fa l’altro e di sentire quello che sente, di riconoscere le sue emozioni e i suoi comportamenti, mentre la risonanza incarnata con l’altro – l’ embodied simulation come la definisce chiaramente Vittorio Gallese – contribuisce a plasmare la nostra stessa esperienza.

 

Il corpo, che decenni di cognitivismo avevano tenuto in disparte come una specie di accessorio irrilevante, irrompe sulla scena e manifesta la sua centralità non solo per quello che accade a livello sub-personale ma anche per la relazionalità umana, la nostra esperienza intersoggettiva e, quindi la nostra stessa individuazione. Del resto è la nostra natura corporea che esprime e sostiene la nostra mente. 

Oggi, come si evince dal nuovo libro di Rizzolatti e Sinigaglia, le proprietà mirror caratterizzano non solo una parte consistente del nostro cervello di primati, ma anche regioni di cervello di specie diverse ed evolutivamente distanti tra loro. Nel libro gli autori affrontano con evidenza di esperimenti e chiarezza di argomentazione una svolta in atto, e sostengono: “è ormai il momento di correggere quello che oggi appare come un classico ‘errore di prospettiva’, riconoscendo non solo che molteplici aree – si pensi, per esempio, a centri come l’insula, l’amigdala, la corteccia del cingolo o l’ippocampo – hanno proprietà mirror, ma anche che molte di queste aree sono evolutivamente più antiche e funzionalmente più basilari di quelle di network parieto-frontali” [p. 261]. In relazione a questi approfondimenti della ricerca, e per semplicità in questa sede, è importante evidenziare che le conseguenze sono del tutto fondamentali: il meccanismo mirror emerge come regolatore interveniente non solo per comprendere quello che l’altro fa, ma anche per cogliere aspetti del suo stato mentale mentre lo fa, anche se ulteriori verifiche sembrano necessarie in proposito; la stessa possibilità di comprendere le emozioni altrui vede all’opera i meccanismi mirror, che intervengono non solo nella comprensione basilare, ma sembrano dar conto anche della piena comprensione, e quindi degli stati emotivi. Non solo comprendiamo l’altro, insomma, ma la comprensione mostra di plasmare la nostra esperienza, come se diventassimo anche un po’ l’altro [pp. 222-223].

 

“Questo non significa che, perché si dia qualcosa come una comprensione basilare dell’emozione altrui, occorre che chi osserva abbia la stessa risposta emotiva di chi è osservato, come accade, per esempio, nei casi di contagio emotivo. Non abbiamo bisogno di avere un conato di vomito e neppure di ritrarci con un forte senso di disgusto per comprendere che la persona di fronte a noi è rimasta disgustata nell’assaggiare o anche solo nell’annusare il cibo che le è stato portato.” 

Se agli inizi delle ricerche su questa fondamentale scoperta scientifica, al centro del processo di rispecchiamento è stato riconosciuto esserci l’azione, il libro documenta gli avanzamenti delle scoperte più recenti e l’amplificazione delle inferenze per la nostra esperienza. In primo luogo abbiamo oggi la prova che in molteplici specie differenti ed evolutivamente distanti tra loro gli stessi circuiti neuronali possono essere reclutati per processi e rappresentazioni che riguardano tanto se stessi quanto gli altri. In atto è un meccanismo di trasformazione cui è stato dato, appunto, il nome di meccanismo mirror. Documentare le implicazioni del ruolo del meccanismo mirror vuol dire considerare almeno tre domini in cui la risonanza incarnata e il rispecchiamento agiscono: il dominio delle azioni; il dominio delle emozioni e quello delle forme vitali, che li comprende entrambi. La capacità di rappresentare motoricamente possibili scopi d’azione e l’impiego di quelle rappresentazioni nell’esperienza attiva svolgono un ruolo decisivo nello sviluppo dello stesso sistema mirror. Una circolarità ricorsiva intercorre tra la dotazione mirror, il suo utilizzo e il suo sviluppo. La ricerca evidenzia, inoltre, che vi sono neuroni mirror in grado di rispecchiare lo spazio di azione di chi ci sta intorno, mentre si sta sempre più esplorando la possibilità che le risposte dei neuroni mirror possano andare oltre il rispecchiamento dell’azione effettivamente osservata, per riguardare anche gli scopi di azioni di per sé puramente potenziali. I risultati della ricerca sulle implicazioni dei neuroni specchio si ampliano, così, fino a riguardare le emozioni e le forme vitali. Da non molti anni e grazie al proficuo incontro con Daniel Stern, il gruppo di scienziati di Parma ha iniziato a esplorare le aree cerebrali specificamente coinvolte nella rappresentazione delle forme vitali proprie e altrui, in particolare per quel che concerne l’azione [p. 129]. Le forme vitali riguardano le componenti motorio-affettive che fanno inestricabilmente parte delle azioni e reazioni emotivamente connotate.

 

In base agli scopi un’azione umana, infatti, può essere energica, ferma, decisa o fredda, titubante, gentile, e può assumere altre forme che di volta in volta possono affermarsi. Gli studi attuali si stanno concentrando sull’indagare in maniera sistematica le eventuali risposte mirror in contesti emotivi diversi, cercando di individuare le forme legate alle differenti reazioni emotive, a cominciare da quelle più elementari. È già evidente, tuttavia, il ruolo distintivo che le risposte mirror hanno nella comprensione delle azioni e delle reazioni emotive altrui [p. 207]. Il quadro complessivo del ruolo del sistema mirror si approfondisce e amplia segnalandone la funzione nella comprensione, sia delle azioni, sia degli scopi che delle reazioni emotive. La tesi sostenuta nel libro può essere così sintetizzabile: “se l’osservazione di un’azione determina in chi la osserva il reclutamento dei processi e delle rappresentazioni di tipo motorio che sono simili a quelli che sarebbero reclutati se fosse lo stesso osservatore a pianificare ed eseguire quel tipo di azione, allora tale reclutamento può consentire a chi osserva l’azione di individuarne lo scopo (o gli scopi) e di realizzare che l’azione osservata è diretta a esso (o a essi). Questo significa che il modo in cui identifichiamo lo scopo (o gli scopi) di un’azione osservata e in cui realizziamo che quell’azione è diretta a esso (o a essi) può dipendere dal modo in cui rappresentiamo quello scopo (o quegli scopi) motoricamente. Se il nostro modo di rappresentare motoricamente lo scopo (o gli scopi) di quell’azione cambia, cambierà con esso, a parità di condizioni, anche il nostro modo di comprenderla.” 

L’evidenza sempre maggiore dell’intersoggettività nell’individuazione psichica chiama in causa domande riguardanti il ruolo e la funzione della coscienza, forse la questione più complicata e controversa nel percorso di ricerca delle neuroscienze, ma anche della psicologia e della filosofia, con domande che hanno la stessa durata del tempo in cui la specie umana è diventata capace di riflettere su se stessa.

 

Del resto non disponiamo di conoscenze sperimentali sufficienti per comprendere come si passa dai neuroni alla mente. Non sappiamo ancora come possa accadere che un aggregato di atomi, molecole, sostanze chimiche e cellule producono la capacità di esprimere in modo vivido il nostro mondo interno.

Michael Gazzaniga ha provato a fornire un contributo sul tema della coscienza che si propone come riesame di quanto finora la scienza ha cercato di comprendere sulla questione, nel volume La coscienza è un istinto. Il legame misterioso tra il cervello e la mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019. 

Il baratro che si apre tra il cervello e la mente è stato affrontato in molteplici modi, ma nessuno di essi appare esaustivo e, spesso, neppure convincente. Il cervello è una macchina biologica eppure esprime proprietà emergenti non riducibili alle condizioni iniziali. Vi è chi sostiene che sia una federazione di moduli indipendenti che lavorano in parallelo. Gettare luce su alcuni dei problemi più profondi che la mente è in grado di formulare, risulta perciò particolarmente difficile. Michael Gazzaniga parte dall’ipotesi che “non esiste alcun sistema centralizzato preposto al grandioso miracolo dell’esperienza cosciente. La coscienza è ovunque nel cervello, e nulla, neppure un male devastante come il morbo di Alzheimer, sembra capace di estinguerla del tutto” [p. 16].

 

 

“Tra la vita e la materia inanimata, tra la mente e il cervello, tra il mondo dei quanti e il mondo dell’esperienza quotidiana esiste uno scarto, un salto nel buio, e lo sappiamo bene”, scrive Gazzaniga, e poi prende posizione: “Come procedere per colmare quel divario? Con l’aiuto della fisica: io almeno ne sono convinto” [p. 17].

Come in una pentola di acqua che bolle sul fuoco, dove è difficile prevedere quale bolla verrà a galla in un dato momento, dove una bolla che prevale è subito incalzata da altre bolle, e sarà poi la freccia del tempo a tessere il tutto in un’unica sequenza, alla stessa maniera la coscienza può essere descritta come il “sobbollire del nostro cervello, come un’effervescenza di bolle, ciascuna delle quali è dotata di strumenti per scavalcare il divario ontologico e ciascuna delle quali ha diritto a un effimero momento di gloria” [p. 18]. Questa a Gazzaniga sembra la descrizione più plausibile della coscienza. 

Costruendo un excursus attraverso la storia delle scienze della vita, l’autore approda all’assunzione di responsabilità sceintifica, seppur tenendo conto delle resistenze, nello studio della coscienza. Citando il messaggio di Francis Crick giunge a sostenere che non c’è niente di male a studiare la coscienza, anche se la difficoltà consiste nel fatto che “la coscienza non è una cosa” [p. 106]. Secondo Gazzaniga “coscienza” è solo la parola di cui ci serviamo per descrivere il versante soggettivo di una serie di istinti e ricordi che si esprimono ne corso del tempo all’interno di un organismo. “Coscienza” sarebbe un termine di comodo che rimanda al modo in cui funziona un organismo complesso: per comprenderne il funzionamento è necessario riferirsi al cervello e all’analisi dell’organizzazione delle sue parti che consente di esprimere l’esperienza cosciente così come la conosciamo.

 

L’ipotesi di Gazzaniga, che è decisamente diversa da quella di Rizzolatti, di Gallese e del gruppo di Parma, è che la coscienza indivisa che ognuno ha di se stesso sia prodotta dall’operato di migliaia di unità di elaborazione del cervello, relativamente indipendenti, che propone di chiamare, per semplicità e in base a una certa tradizione di studi, moduli. L’utilizzo della modularità, in modi originali e peculiari, da parte di Gazzaniga è piegato al suo tentativo di dimostrazione che la coscienza sia “parte integrante della vita degli organismi. Nessuno di noi deve apprendere come produrla o come servirsene” [p. 307]. Il divario epistemico tra l’esperienza soggettiva e l’elaborazione oggettiva, apparso con l’avvento della prima cellula vivente, esige il ricorso al linguaggio della complementarità. Quel linguaggio potrà consentire di cogliere il modo in cui la sponda fisica, i neuroni, coopera con la sponda simbolica, le dimensioni mentali. Scrive Gazzaniga:”Le macchine inanimate a base di circuiti al silicio funzionano in un certo modo; i sistemi viventi a base di carbonio funzionano in modo diverso. Le prime obbediscono in forme deterministiche a set di istruzioni, i secondi agiscono per mezzo di simboli che comportano per loro natura un certo grado di certezza” [p. 306]. Il proposito scientificamente ambizioso è collocare la coscienza nel grande mondo della biologia evolutiva, con la sua storia, la sua ricchezza, la sua incertezza, le sue alternative, i suoi conflitti, il suo continuum: un prodotto di una circolarità cieca tra selezione naturale ed esperienza. Rileggendo il contributo pionieristico di William James a centotrenta anni circa dalla sua prima pubblicazione, Gazzaniga considera quelli che chiama istinti e la loro capacità di dare vita a sequenze coordinate che rendono possibile azioni più complesse, suscitando l’impressione di istinti di livello decisamente superiore e conclude: “La successione a valanga di quelle sequenze è quella che chiamiamo coscienza”.

 

La coscienza assume così le caratteristiche di un’espressione propria della materia vivente, la quale “non si limita a soggiacere alle interazioni descritte dalla fisica classica, ma possiede un carattere intrinsecamente arbitrario reso possibile dalle informazioni simboliche immagazzinate sul lato buono dello Schnitt, scritte in forma fisica e nondimeno arbitrarie”[p. 298].

E che cos’è lo Schnitt?

I fisici designano una separazione ineludibile tra il soggetto (colui che effettua la misura) e l’oggetto (ciò che viene misurato) con un termine tedesco particolarmente efficace: der Schnitt, il taglio o la cesura. Quel taglio epistemico tra conoscente e conosciuto, quella compresenza di due diversi modi di comportamento e di due livelli di descrizione complementari è parte integrante della vita stessa, ha accompagnato le sue origini, è stata conservata dall’evoluzione e continua a risultare necessaria per differenziare l’esperienza soggettiva dall’evento stesso. “È un’idea che dà le vertigini”, scrive Gazzaniga [p. 238].

Secondo un approccio di biologia relazionale, la coscienza è una proprietà naturale ed evolutiva derivante dal fatto che l’organismo stesso gioca un ruolo nel proprio destino e questo riguarda in modo distintivo e specie specifico gli esseri umani. Se, infatti, la chiusura semiotica, il nesso che colma il divario tra la materia vivente e la materia non vivente, esiste in tutte le cellule, negli umani giunge a una complessità che si fonde con l’esperienza e la grande differenza sta nell’organizzazione delle parti, cioè nell’architettura del cervello e delle relazioni. Gazzaniga, insomma, riconosce, che è molto difficile stabilire come la coscienza insorga negli esseri umani, ma, secondo il suo punto di vista, iniziare a concepirla come un aspetto intrinseco di una pluralità di moduli potrebbe aiutarci a trovare una risposta. Secondo la sua proposta “quella che chiamiamo coscienza è un sentimento che fa da sfondo o accompagna in un dato istante un evento mentale o un istinto” [p. 140]. “La coscienza”, insomma, “è l’esito di un processo incorporato in un’architettura, non diversamente dal modo in cui la democrazia non è una cosa, ma la risultante di determinate procedure” [p. 141]. 

 

Rimane una domanda, dopo aver seguito l’impegnativo e schierato percorso di Gazzaniga, e riguarda un dialogo del tutto mancato o trascurato con le ricerche di Gerald M. Edelman e Giulio Tononi e di altri studiosi, sul tema della coscienza. Una comparazione e un confronto tra approcci diversi potrebbe aiutare ad approfondire l’analisi e le sue possibili risultanze.

Dal basso, dal livello sub-personale e dal sistema neuromotorio, così a lungo trascurati dalla ricerca psicologica, sembra di poter oggi ricavare una base di risposte alla domanda: cosa significa essere umani?, che seppure ben lungi da fornirci risposte esaustive, ci conduce a un approccio naturale e evolutivo della nostra presenza e della nostra esperienza. Nel farlo, anche grazie ai risultati delle ricerche del gruppo di Parma e al percorso speculativo sulla coscienza di Gazzaniga, abbiamo l’evidenza del ruolo che l’intersoggettività, il noi, ha nella definizione dell’altro e di noi stessi, e che l’esperienza e il movimento siano le condizioni per cui la nostra natura lasci emergere la coscienza di noi stessi e del mondo. 

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