Rosso nella notte bianca / Valenti. La follia della vendetta

14 Maggio 2016

Bianca è la neve, il «bianco incorrotto del mondo» che annulla ogni forza, ogni violenza, ogni voce, bianchi sono i gas tossici e la polvere nel cotonificio e il cielo vuoto di novembre, chiuso a rimpianti e preghiere. 

Nero è il fumo di un recinto di bestie a cui viene dato fuoco, il colore dentro le palpebre chiuse mentre si ascolta il lamento degli animali che bruciano e si viene trascinati via dai fascisti, neri sono i fascisti, nero è il fango che appesantisce la fuga e ciò che resta sui muri di una casa bruciata, nero è il nome di Nerina.

Rosso è la lotta, la vergogna, la colpa, il fuoco che brucia, rosse sono le budella e il sangue che macchia e che tutto lava, rossa è la vendetta, rossi i capelli di Ulisse, Rosso il suo nome di battaglia sui monti.

Dal titolo alla copertina, fin dentro le storie dei personaggi, Rosso nella notte bianca ((Feltrinelli, p. 160, € 12), l'ultimo romanzo di Stefano Valenti è interamente impregnato di questo cromatismo.

 

Ulisse Bonfanti eredita dalla madre Giuditta l'origine contadina, il destino di miserabile in una Valtellina arida e ingrata e una fede che non vacilla. Una fede che si fa forte, invece, di tormenti e paura, elaborando rituali e cerimonie per arginare lo sgomento e raddrizzare le asimmetrie: contare gli oggetti, spegnere e accendere la luce un certo numero di volte prima di lasciare una stanza, non calpestare le fughe tra le piastrelle o andare sui monti con i ribelli.

 

Ulisse cresce «con il difetto, con la mancanza» e la religione non basta, fioriscono sempre nuovi peccati; serve un modello, e sui monti ci sono il comunismo, lo stalinismo, l'“Ordine Nuovo”, e appare tutto così sensato, così attuale la necessità della lotta di classe, così chiaro il senso di una missione, non tanto assoluta da scalzare Dio, ma abbastanza necessaria da invocarlo a testimone di una rivoluzione.

Così Ulisse si unisce alla Resistenza, lascia la madre e la sorella Nerina e va sui monti per contrastare l'ingiuria fascista, per uccidere i neri uno a uno.

 

Ma la nera ferocia risponde a ogni assalto e si infila nelle case, brucia e strappa le vite e se le restituisce, come nel caso di Nerina, è per rigettarle sporcate, guastate, annientate.

Ma l'estate ribelle è un incubo che dura un attimo, poi torna la realtà, come uno schiaffo: «siamo finiti in fabbrica che è diverso da fare il contadino, che la Guerra ha cambiato tutto e noi ci siamo trovati che non avevamo un mestiere, un posto, che nei monti non potevamo restare con quello che era accaduto e nemici da tutte le parti». E la fabbrica è fatica, malattia, ingiustizia e soprusi, ma è meglio della povertà infeconda dei monti.

 

Il mondo di Valenti, dopo La fabbrica del panico, è ancora un mondo operaio, un mondo di fatica e povertà, di violenza, di ribellione, con la pesante consapevolezza di essere trattati come bestie, soggette a un padrone indifferente e di subire un destino senza misericordia, piombato addosso come una sentenza. La condanna alla lotta richiede stabilità e robustezza, mortifica la sensibilità e mette alla prova i nervi; e c'è una genetica, forse anche una vocazione nella pazzia che scorre nel sangue e convince che niente ha senso e bisogna rimediare, che ogni istante lasciato al caso è dolore, angoscia, spasmo e peccato mortale.

Ulisse ha la tara di una malattia diffusa nella sua famiglia, una debolezza dei nervi che trascina le sue vittime giù dai burroni e sugli alberi, a penzolare appesi. La sua è una follia popolata di voci e allucinazioni, di racconti e di fantasmi che gli sono rimasti invischiati nella mente, e da lì chiedono udienza e riscatto: «quelli che vedi», diceva la madre a Ulisse, «sono reminiscenze, memorie del mondo, ricordi ricordati da Dio. Ed è il freddo a conservarli, a tenerli accesi, in inverno, nella neve, in montagna, diceva. Quelli che vedi, Ulisse, sono ricordi conservati dal freddo in tutta freschezza, cresciuti dentro la mente e fioriti con forza e bellezza».

 

Ulisse torna in malga, dopo quasi cinquant'anni, dopo la fabbrica e la vita, torna nella vecchia casa bruciata in mezzo alla neve. Il silenzio è pieno di voci, di storie, della grande Storia e della storia privata di Ulisse. Dentro è confusione di miraggi e peccati, fuori è il silenzio della neve: «Ulisse si commuove della vita e tutto prende paura», la vita intera è un assurdo senza soluzione, un incendio nella mente.

 

La citazione di apertura del romanzo viene da Una questione privata e recita la promessa di Milton di ammazzarli tutti, i fascisti. Lo promette al vecchio dagli occhi umorosi che spia i fascisti dalla collina. Ma quel vecchio fenogliano, fuori dalla citazione di Valenti, continua così: «quando verrà quel giorno glorioso, se ne ammazzerete solo una parte, se vi lascerete prendere dalla pietà o dalla stessa nausea del sangue, farete peccato mortale, sarà un vero tradimento».

Ulisse vive sulla sua pelle l'abiura di quella promessa. I neri, dopo la liberazione, sono tornati ai loro posti, improvvisamente guariti dal fascismo e sembra quasi non ne siano stati contagiati mai.

E Ulisse è un eroe che ha perso tutto per la Storia e dalla Storia è stato rigettato e umiliato, finito a contare i morti offesi per l'eternità e quelli che immeritatamente l'hanno scampata.

La sua allucinata purezza gli impedisce di sporcarsi con il compromesso; la guerra non è finita, non finisce mai, finché le cose non vengono messe in ordine.

 

La vendetta apre e chiude il romanzo, ed è una vendetta gelida, che arriva dopo quasi cinquant'anni, fredda come la neve che fa da sfondo e come il ferro del piccone che apre la testa del nemico come un cocomero maturo, e poi infierisce sul corpo disfatto e disordinato, rosso e bianco e grigio, tutti i colori mischiati sotto il livido cielo della malga.

La vendetta apre e chiude il romanzo e ciò che sta in mezzo è la confessione del fallimento nel domare il disordine della vita.

Il romanzo di Valenti non si sviluppa in lunghezza, ma in profondità, il montaggio puntuale incasella i racconti, uno dentro l'altro, tre, quattro livelli di narrazione che filtrano il discorso senza smorzarne l'intensità. Valenti ci racconta di Ulisse, che ci racconta di Giuditta che racconta della fabbrica e della sua vita; di Ulisse che parla con Nerina e Nerina che, attraverso il delirio di Ulisse, risponde dal suo mondo di ombre.

 

La scrittura di Valenti coincide con la voce del protagonista, vi aderisce fino a diventare, con quella, una cosa sola, fino a far coincidere la narrazione con la memoria sconvolta del personaggio e il flusso narrativo con l'emorragia di riflessione e illusione nella testa di un omicida.

 

Il racconto risale la corrente per trovare l'origine della violenza, l'origine della follia e non può che finire con Ulisse che parla del resistere, del restare, perché dopo la vendetta c'è ancora lui, seppure quasi non più umano: tolta la fede, la rabbia, il rimpianto e la giustizia, rimane la sua voce e l'inettitudine a trovare le parole per definire tutta quell' infelicità.

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