Ricette immateriali / Erba cultura e paesaggio. Preboggion

23 Ottobre 2019

La ricchezza e la varietà della cucina di Genova e del Levante ligure, cui la ricetta della quale parliamo appartiene, si basa generalmente su pochi o semplici ingredienti, spesso vegetali e “poveri”, ma nobilitati da una grande arte combinatoria.

Non esiste una ricetta obbligata del preboggion, che con questo nome o sue varianti è diffuso perlomeno da Genova alla Riviera di Levante, ma anche in alcune zone dell’appenino parmense che con quest’ultima hanno una lunga storia di scambi, di migrazioni interne e stagionali. Mentre a Levante il termine indica «un misto di erbe di campo ove entrano anche rosolacci ancora non vegetativi, oltre a varietà d’insalate selvatiche» (come riportato nel dizionarietto genovese-italiano di A. Sismondi, in  G. Battista, G. Ratto, Cuciniera genovese, Pagano, Genova, 1963), a Genova dovrebbero essere ingredienti principali le bietole e le foglie giovani di cavolo cappuccio, che tuttavia possono essere integrate da altre erbe miste occasionalmente disponibili ed eventualmente da riso o pasta.

 

Della “ricetta” genovese esistono alcune rare testimonianze scritte, in particolare quella indiretta fornitaci da un documento della Rota Criminale delle Serenissima Repubblica di Genova del 1628, relativo a un fatto di sangue avvenuto durante la festa del “preboglione”, che verosimilmente si svolgeva tradizionalmente in città il 1 agosto. Nel documento si dice infatti: “Che in Genova è antichissima usanza di cuocere nelle strade pubbliche e in la maggior parte della città preboglione, che sono erbe mescolate insieme con altro e si mangiano poi in compagnia parimenti nelle strade o vicinanze facendo festa pubblica, il giorno primo di agosto, e questo segue ogni anno pubblicamente” (Archivio di Stato di Genova, Rota Criminale, filza 15, anni 1628-1631, citato in P. Giacomone Piana, La festa pubblica del preboglione, «A COMPAGNA», agosto 2008,).

 

L’altra importante testimonianza proveniente dal capoluogo, anzi da quella «città nella città» costituita dalla delegazione di Sestri Ponente dove, almeno fino ai primi del Novecento secondo quanto racconta Giuseppe Marcenaro, si svolgeva all’inizio di agosto la festa del “prebuggion”, ci svela una particolare dimensione del gioco festivo della raccolta, del mescolamento di erbe e di ingredienti. La lunga tavola veniva imbandita in mezzo alla strada verso il tramonto nella sera d’estate per una «mangiata» in comune all’aria aperta, «un pranzo che era un gioco» che prevedeva un «meccanismo»,  o potremmo dire un rito, di preparazione e di allestimento, con tanto di formula da recitare, quel «Niente per o prebuggion?» con cui i bambini annunciavano la raccolta a cui tutti contribuivano quando, nei giorni che precedevano la festa, «con cestine, sporte e sacchetti andavano cantilenando di porta in porta e di negozio in negozio» per procacciare le materie prime, erbe, ortaggi, riso ma anche manciate di pasta di tutte le forme, che poi le donne avrebbero diviso e vagliato, per cuocerle il giorno della festa di «santo Zoeggio» (sant’Eusebio martire, antico vescovo di Vercelli).

 

Pranzo a base anche di polpettone (anch’esso vegetale) e di fette di “patêca”, che anzi non poteva dirsi concluso, come ricorda G. Marcenaro (Le cronache di Sestri Ponente, Tolozzi, Genova, 1968), senza battaglia finale a colpi di scorze d’anguria (patêca, appunto). La leggenda di epoca moderna vuole che l’usanza della festa dovesse essere fatta risalire all’assedio di Genova da parte della seconda coalizione antinapoleonica quando, stretta tra le navi inglesi e le truppe austriache, nella primavera del 1800 la città restò per due mesi in balia della carenza di cibo e delle malattie (ibid.). In questa occasione, le “erbe” raccolte ai margini delle mura della città sarebbero divenute una risorsa preziosa (F. Bampi, L’assedio di Genova, Il Secolo XIX, 4 aprile 2000).

 

Piatto povero, quindi, ma addirittura salvifico, come d’altronde le erbe spontanee e altri prodotti della raccolta erano in varie zone montane e appenniniche, per placare i morsi della fame nei periodi invernali o di carestia (vedi Vito Teti, Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, Milano, 2019). Piatto semplicissimo, che dà origine a piatti più complessi e festivi, come il minestrone alla genovese, che prevede anche la presenza di ortaggi e l’aggiunta preziosa del pesto, come i pansotti e le torte salate di cui può diventare il ripieno.

Semplicissima, anche nella versione diffusa in varie aree della Riviera di Levante, è in ogni caso la modalità di preparazione, che richiede solo di mondare le erbe, sbollentarle e condirle con olio e sale o, a seconda dei casi, con uno spicchio d’aglio, un po’ d’aceto, un rametto di rosmarino. Senza un numero fisso di ingredienti (anche se per qualcuno dovrebbero essere quattordici) né una formula da rispettare, la ricetta finale dipende in realtà dalle incertezze della ricerca. È, a suo modo, una sfida di attenzione, di conoscenza e di affetto per il territorio, alla ricerca delle erbe che crescono sulle fasce abbandonate, sbucano tra i muretti a secco dei sentieri tra le case, lungo i ruscelli.

 

 

Favorita dal clima di luoghi in cui le erbe del preboggion si possono raccogliere in giorni di sole anche nei mesi più freddi dell’anno, spesso da febbraio in avanti, la raccolta è un’attività più tipicamente femminile e, di recente, è oggetto di crescente interesse, di corsi, di passeggiate guidate che si concludono di solito con la preparazione e il consumo collettivo di quanto scoperto e riconosciuto. Oltre al piacere di una passeggiata assieme in campagna, chi partecipa a queste iniziative è spinto dalla nostalgia di una familiarità con il territorio che passa attraverso il dono delle sue disponibilità alimentari e dal desiderio di reinventare la comunicazione tra l’uomo e la natura; di riconoscere e farsi riconoscere dalle erbe. La natura spontanea degli ingredienti, rigorosamente non coltivati e raccolti nel primo di stadio di sviluppo, e la semplicità della preparazione, in un’epoca in cui le preoccupazioni per pesticidi, cibi industriali di scarsa qualità o adulterati sono sempre presenti, sembrano suggerire anche un desiderio quasi “sapienziale” di conoscenza e di vicinanza alla terra, di cui “nutrirsi” direttamente, senza o con minima intermediazione. Anche a Sestri Ponente, dove nel 1968 Marcenaro ripensava con nostalgia alle tavolate all’aperto di inizio secolo, da qualche tempo si è “reinventata” in versione “eco” la distribuzione gratuita della minestra di erbe, in corrispondenza però della festa patronale di Sant’Alberto (8 luglio).

Anche l’interesse e la fascinazione per le erbe medicinali, ingredienti principali della demoiatria, contribuiscono al valore culturale del preboggion. La cottura minima conserva principi attivi e proprietà curative e disintossicanti delle erbe, ritenute in particolari utili al fegato dopo la fatica imposta al fisico dai mesi invernali.

 

Alle varie erbe selvatiche che possono comporre il preboggion, come ad esempio borragine (buraxe) cicerbita (scixèrbua), tarassaco (dente de can), sanguisorba (o pimpinella), ortica, prezzemolo, grattalingua (rattalêgua), silene (s-cioppettina), raperonzolo (ranpónso), aglietto selvatico, finocchietto, bietole di prato e molte altre, si possono riconoscere anche proprietà medicinali.

In un lavoro di alcuni anni fa a proposito dei significati culturali della cucina tradizionale calabrese, Vito Teti parlava suggestivamente di «nostalgia dell’insalata» come di una «nostalgia dell’universo». Anche il preboggion, insalata di erbe cotte alla cui preparazione si dedica tempo e cura, come l’insalata nella tradizione calabrese rimanda a un’inusuale unione di estremi ed è ricerca di un equilibrio universale, tra insipido e salato, dolce e amaro, delicato e piccante, povero e ricco, normale e magico (V. Teti, Nostalgia dell’insalata, nostalgia dell’Universo, in F. Guglielmelli, a cura, Alla scoperta delle identità regionali. La Calabria, Event, Milano, 1985). La varietà è il suo primo merito, un’eterogeneità che si riflette nel detto “u l’è tutto ’n preboggion” a indicare disordine, confusione, ma anche il valore della mescolanza che è fonte di rigenerazione del mondo. Come cibo “marginale” ci rimanda oggi alle metafore di una difficile e sempre più sfuggente alleanza con la natura, con il paesaggio e forse con l’universo. Poco importa che l’umile pratica della raccolta delle erbe spontanee sia ora entrata nel mondo della cucina patinata e televisiva con il nome di “foraging”.

 

Ma dove nasce, invece, il termine preboggion? La derivazione più credibile sarebbe dal verbo preboggî, riferito alla leggera bollitura cui devono essere sottoposte le erbe prima del consumo. Esistono però almeno due versioni in circolazione sulla possibile origine del nome che lo fanno risalire all’espressione “per Buggiùn” o “pro Buglionis”, probabili frutti della fantasia divertita di autori recenti: in quella che ha avuto maggiore diffusione, il condottiero cristiano Goffredo di Buglione, ammalatosi durante l’assedio di Gerusalemme della Prima Crociata, sarebbe stato guarito dalle prodigiose capacità di una miscela bollita di erbe selvatiche che i genovesi, agli ordini di Guglielmo Embriaco, grazie alla loro conoscenza di un territorio altrettanto gramo quanto quello dell’arido deserto della Palestina, avrebbero saputo distinguere e preparare.

 

In queste zone in cui l’agricoltura tradizionale era una fatica di Sisifo, spesso praticata su fasce costruite artificialmente e costantemente riparate a ogni stagione per trattenere il terreno coltivabile dall’essere trascinato a valle, e in qualche caso a mare, dalle precipitazioni, il folklore alimentare partecipa di quello che sembra essere un tratto più generale, che è possibile ritrovare anche nei racconti e nei proverbi popolari. Un folklore che non manca di contrapporre l’inclinazione pratica e commerciale dei genovesi con la più spirituale ruvidezza e la diffidenza nei confronti di ciò che è estraneo delle popolazioni dell’entroterra (come ricorda G. Ferraro, Leggende e racconti popolari della Liguria, Newton Compton, Roma, 2017). Un’opposizione che nasce dai riflessi sul piano culturale di una grande antinomia economica, quella tra un vortice di attività finanziarie e di scambio la cui scena nei secoli passati è stata lo spazio mediterraneo da un lato, e un territorio compresso, per la maggior parte inadatto alle attività agricole e generalmente incapace di ripagare in misura proporzionale la fatica del lavoro e gli investimenti dall’altro, segnato nei secoli da movimenti migratori sia stagionali che permanenti.

Sospinta alle imprese sul mare dalla sua stessa geografia, aperta all’orizzonte per natura e per storia, tuttavia e forse proprio per questo, l’intera regione ama rappresentarsi nelle sue tradizioni folkloriche in termini rigorosamente «endogeni», raccontandosi in una chiusura quasi mitica.

 

La cucina ligure “tradizionale” è un buon esempio della costante ricerca e valorizzazione di questi riferimenti rivolti verso l’interno, potremmo dire dando le spalle al mare. Vi si trovano relativamente poche tracce di un grande passato storico di scambi e di navigazione, nel quale è necessario includere anche il fenomeno dell’emigrazione transoceanica responsabile, a partire dalla metà dell’Ottocento e assieme ad altri fattori, della crisi di intere comunità e dell’abbandono di larga parte del territorio coltivato.

Così, alla fine, la ricetta apparentemente più autoctona finisce per riportarci a ciò a cui forse nascostamente alludeva: ai lunghi viaggi, alla conoscenza di altre sponde del Mediterraneo, alle migrazioni interne ed esterne con cui i liguri si sono ampiamente “mescolati” e che costituiscono uno dei motivi di questa particolare “nostalgia dell’insalata”.

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