Giuseppe Longo / La gerarchia di Ackermann

5 Maggio 2017

“L'età d'oro della sicurezza”, la chiamava Stefan Zweig e spiegava che “nella nostra monarchia austriaca, quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità.” Dopo la prima guerra mondiale quell’edificio fatto di tradizione, di buone regole e di pacifiche gerarchie sociali andò irrimediabilmente in frantumi. La monarchia danubiana sparì, ma a preservarne la memoria e le tracce ancora visibili e soprattutto a conservarne le voci, gli stili, l’arte della conversazione, l’identità culinaria e la nostalgia per una felicità che sembrava infinita s’incaricò la letteratura che diede rappresentazione al crollo di quell’epoca.
Una fine apparentemente inattesa ma in realtà preparata quasi con cura nelle pieghe della follia della macchina burocratica, nella gigantesca rimozione collettiva del disastro politico che si stava apparecchiando e di cui erano visibili, a chi li voleva vedere, gli indizi.


Quel mondo che improvvisamente diventò passato, quella Welt von gestern, come s’intitola il celebre libro di Stefan Zweig, costituisce la filigrana nascosta del romanzo di Giuseppe O. Longo La gerarchia di Ackermann, già uscito in una prima edizione nel 1998 e ora riproposto dall’editore Jouvence.
Di quella grande macchina politica e della sua miserabile fine la storia che qui viene narrata sonda gli effetti postumi portandoci in una Budapest degli anni del socialismo reale. Qui una piccola comunità intellettuale, fatta di scienziati, matematici, musicisti, intreccia una relazione apparentemente di normali ritualità borghesi che tuttavia si carica progressivamente di misteriose affinità e repulsioni, di sintonie e antipatie, di attrazioni erotiche e complessi giochi psicologici.
Le figure che incontriamo in questo romanzo dalle atmosfere insistentemente mitteleuropee, tra la Budapest di un vischioso spazio della memoria e il presente incolore e malinconico ambientato a Trieste una ventina di anni dopo, sono anzitutto emblemi viventi di un’arte della conversazione in cui il mondo si presenta come un’affabile e quasi rassicurante scena teatrale. I drammi, che pure ci sono, restano come anestetizzati dall’inesauribile facondia del protagonista, dall’incontenibile bulimia retorica che caratterizza il suo apparire e le sue performance dialogiche.


La storia ruota intorno al ricordo di un’esuberante e altrettanto tormentata relazione erotico-amorosa tra il protagonista, Guido Marenzi, un matematico triestino, ricercatore, ospite dell’Istituto di matematica dell’Accademia delle Scienze di Budapest ed Eva Farkas, moglie di un critico musicale, sempre in viaggio per l’Europa, e sempre più preoccupato dello stato di salute mentale di sua moglie. Ed è proprio il marito di Eva a chiedere all’amico italiano di assistere la moglie pregandolo di accompagnarla dal neurologo e di supplire così alla sua prolungata assenza.
La relazione di Guido con Eva evolverà rapidamente verso un’intensa intimità erotica, un formidabile tripudio dei sensi, intrecciato tuttavia e fin da subito a una disperazione sottile fatta di sensi di colpa, di improvvise reminiscenze, di corto circuiti tra passato e presente, di sospetti, paure, presagi.
Nei luoghi di questa memoria danubiana, che incombe su un oggi di rassegnata e metodica solitudine, si vedono aggirarsi gli spettri di un mondo in decomposizione: la grande narrazione imperiale precipitata nella finis Austriae sembra ora franare per la seconda volta nell’imminente fine dell’Ungheria socialista. E in questa catastrofe prolungata della storia, che rimane sullo sfondo del romanzo, i personaggi vivono la loro personale sconfitta che non ha il sapore tragico della fine di un’utopia politica o della resa dinanzi a un destino che non dà scampo all’eroe ma quello assai più banale del fallimento di una vita normale con il suo carico di progetti e di desideri di felicità condivisa.

 

 

D’altra parte quando le esistenze scolorano e la disperazione s’impossessa anche del gesto erotico crollano le certezze, tutto si fa indeterminato, persino la scienza più esatta manifesta le sue crepe. Durante una partita a scacchi con l’amico Tramer Guido azzarda un’ipotesi che suona quasi blasfema: “E poi – riprese – le teorie scientifiche hanno una sospetta parentela con i vizi e le virtù del corpo e dell’agire quotidiano. Questo legame è ritenuto imbarazzante e molti vorrebbero tagliare il cordone ombelicale che lega la matematica ai reni, alla milza o alla fede e alla lussuria per ottenere una scienza fredda, angelica, non perturbata dal disordine, dalle passioni.”


Questa scienza embodied, questo sapere astratto che si fa physis, carne, erotismo, pulsioni vitali e pulsioni di morte è forse il tratto più saliente di un romanzo che ha la capacità di mostrare come le grandi costruzioni di senso e i riti sociali della ‘civiltà delle buone maniere’ affondino le loro radici nella precarietà delle vite in balia del caso e nella perversa commistione tra stile e informe, tra rigorose geometrie e angosciosi labirinti, tra ordine e caos.


E sembra di riascoltare le parole di Nietzsche laddove nei Frammenti postumi dichiara che la sfida vera dell’uomo è “dominare il caos che si è, costringere il proprio caos a diventare forma”.
Il romanzo di Longo sa offrire una rappresentazione veritiera, realistica della lotta tra caos e forma, guardandosi bene tuttavia dall’assumere una benché minima intonazione tragica. Semmai è la memoria di un passato che non può passare che trasforma i momenti di felicità, ad esempio l’entusiasmo erotico provato per l’affascinante moglie del musicologo Farkas, in una tragicommedia fatta di abbandoni, di depressione e di morte ma insieme di abbuffate di pasticceria austroungarica, di abbondanti libagioni e comiche apparizioni sociali nelle grandi sale dei palazzi un po’ fanè di una Budapest che aveva conosciuto in passato i fasti della seconda capitale dell’ impero.


Ma se la grande narrazione è finita portandosi nella tomba le sue illusioni artistiche e politiche non c’è da sperare che la salvezza venga dalla sobria razionalità della scienza, dal pragmatismo della ragione strumentale e dal calcolo delle probabilità. Anche la scienza è destinata allo scacco. Lo sa bene il protagonista matematico Guido Marenzi che in uno splendido dialogo con il professore di filosofia Pausler dichiara con affabile disincanto: “Fare tanti calcoli non serve a niente, ci si illude di esattezza, ma le Sirene sono figlie del caso…”. Inutile programmarne la comparsa, mancheranno sempre l’appuntamento, forse solo di poco, ma quando siamo certi di vederle si sono già dissolte. E poco dopo: “Viviamo nell’incertezza, caro Pausler, nell’approssimazione. C’è un lato oscuro della realtà che, per quanta luce vi gettiamo, resta sempre in ombra. È un’ombra che si mangia la luce. Perciò forse è meglio una società basata sulla poesia che sulla matematica”.


La coscienza di questo esito fallimentare della ragione strumentale è preceduto in Guido da una serie di passaggi dolorosi, di tentativi di lettura della sua esistenza destinati al fallimento ma nondimeno latori di un’illusione di senso: “Io non faccio altro che ricapitolare la mia vita – dichiara Guido –, continuo a raccontarmi la storia della mia vita per ricucirne i brandelli. La mia storia, spezzettata e tritata, partorisce tante piccole storie. È una continua narrazione, un po’ demenziale, se vuole, ma allo stesso tempo salutare. Può sembrarle assurdo, ma raccontandomi queste storie della mia vita dimentico la mia vita, trovo un attimo di requie. Come ha detto lei, memoria e vita sono incompatibili”.


Le storie e il male di vivere: in definitiva, forse, la capacità di narrare si rivela come un efficace anestetico, un aiuto alla sopravvivenza che consente di dimenticare il dolore e soprattutto fornisce l’illusione di essere se stessi grazie alla capacità di mettere ordine e dare un senso alla caotica successione dei fatti e all’altalena indecifrabile dei sentimenti.

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