La malattia della civiltà (3) / Guerre contro il futuro: Wilfred Bion

12 Maggio 2022

“Sono morto l’8 agosto 1918” dirà e continuerà a scrivere Wilfred Ruprecht Bion, dopo il congedo e il ritorno in Inghilterra il Natale del 1918. Può esibire una medaglia al Merito e la coccarda rossa della Legione d’onore. Non riesce ad avere però la sensazione di essere tornato alla vita civile, perché “in realtà uno continua a puzzare. Hanno trovato il sistema di farci sentire vivi, ma in realtà siamo morti. Anch’io? Ma certo, anch’io ero morto…, l’8 agosto 1918”. Ricorda di essersi sentito intrappolato “come un topo nell’angolo”, mentre qualcuno era interessato a far fuori proprio lui, e immaginava che ai genitori arrivassero lettere che annunciavano la sua scomparsa.

L’esperienza della guerra, nel corpo dei carristi, lo accompagna per l’esistenza intera: riemerge nei sogni e negli incubi, nei ricordi di amici, di volti noti e sconosciuti rimasti sommersi nel fango. Da quel senso di paura, di angoscia, dall’insicurezza su quanto da un momento all’altro poteva accadere nascono le parole chiave della sua teoria: terrore senza nome, rêverie, contenitore-contenuto, gruppo di lavoro, gruppo in assunto di base. Al fronte un Bion giovanissimo percepisce e impara a conoscere gli stati mentali dei suoi futuri pazienti psicotici. 

 

La parte principale di La lunga attesa. Autobiografia 1897-1919 (Astrolabio 1986), da cui sono estratti i testi qui ripresi, è dedicata agli eventi bellici, gli episodi traumatici ritornano più volte. “‘Mamma, mamma… Scriverà a mia madre, signore, non è vero?’ ‘No, accidenti a te! Non le scriverò! Sta’ zitto! Non vedi che non desidero essere disturbato?’ Vecchi fantasmi, che non muoiono mai. E neanche scoloriscono; conservano meravigliosamente la loro giovinezza. Davvero, si riescono ancora a scorgere le gocce di sudore, ancora fresche, ancora distinte, contro il pallore della fronte. Com’è possibile? Sono come gocce di rugiada sui petali delle rose Redouté. Una meraviglia, vero? Così, così… hanno un che di funereo, non è vero? Per favore, per favore, sta’ zitto. Scriverò, davvero, lo farò. A Mamma Inghilterra: quella vecchia puttana!”.

 

In A ricordo di tutti i miei peccati. Seconda parte di un’autobiografia (che comprende anche L’altra faccia del genio. Lettere ai familiari curata dalla moglie Francesca Bion, Astrolabio 2001) scrive: “La scoperta di avere una MENTE è sempre traumatica, perché non si sa mai che cosa mostrerà di essere questo strano oggetto. Uno slancio in alto; è una psicosi, è follia – prego, qualcuno faccia una diagnosi! – genio, filosofo, poeta, musicista, compositore? Poi, mentre si cerca di sopravvivere a tutto questo, di qualunque cosa si tratti, è il Corpo che si slancia in alto, richiedendo a gran voce attenzione e lamentandosi di essere stato trascurato”. 

 

Wilfred Ruprecht Bion è nato a Muttra, in India, nel 1897. In La lunga attesa si presenta come un bambino pauroso e frignone, si considerava un pappamolle mai all’altezza delle aspettative paterne. I suoi ricordi ruotano intorno alle due grandi cesure della sua infanzia e giovinezza. La prima è il trasferimento, intorno agli otto anni, dalla natia India (che rimarrà sempre un luogo mitico) a un collegio vittoriano dell’Inghilterra di inizio secolo, accompagnato da una madre algida che lo lascia inesorabilmente solo davanti alla porta. La seconda è, appunto, la partenza per la guerra come volontario. Il bambino fifone si rivelerà un soldato coraggioso, insignito di una medaglia al valore, di cui tenderà sempre a svalutare l’importanza. Ma riuscirà a entrare a Oxford per studiare storia proprio perché considerato un eroe, anche se lui si sente ignorante e stupido. Farà poi medicina e psichiatria, nel 1932 inizia a lavorare alla Clinica Tavistock, quando scoppia la seconda guerra è assegnato, come ufficiale medico, insieme al suo terapeuta di allora, John Rickman, all'ospedale militare di Northfield, dove verranno incaricati del supporto ai militari colpiti da PTSD. I suoi metodi di cura, le sue idee sullo shock e sulla psicologia della guerra non saranno considerati adatti alla disciplina militare e nonostante i successi con i soldati – Bion si rifiuta di trattarli come carne da cannone da rimandare al fronte –, non farà carriera e non avrà alcun riconoscimento. Invece delle batterie di test per selezionare ufficiali, introduce la tecnica del “Gruppo senza leader”. Mentre è in Normandia scopre di essere diventato, insieme, padre di Parthenope e vedovo, perché la moglie muore pochi giorni dopo il parto.

 

Dal 1950 in poi una vita domestica stabile e affettiva con la seconda moglie Francesca – Bion aveva sempre vissuto in istituzioni collettive – gli permette di tornare mentalmente all’esperienza della guerra. Sarà pubblicato postumo il suo “Diario, Francia” del 1919 dedicato ai genitori “al posto delle lettere che avrei dovuto scrivere” (cfr. War Memoirs 1917–19, Karnac 1997). Nelle sue note Bion sottolineava l’importanza del calore, del cibo e del riposo per il soldato. Un buon sistema di precauzione antiraid aereo può aiutare il soggetto a “sentire la cura di una buona figura parentale che nutre e veste”. Favorire da parte dei capi “le nostalgie di casa” può trasmettere sicurezza, influire sul morale della truppa.  

Le prestazioni dei carri armati più piccoli aiutano le persone ad avere più sicurezza di fronte all’attacco: ricordava “i sentimenti di soddisfazione nati in una occasione durante l’ultima guerra, quando la situazione obiettiva appariva disperata e il nemico cominciò un attacco, per il semplice atto di avere la fibbia della cintura e l’attrezzatura prima di prendere le armi”.

 

Stati di paura, di angoscia, l’ansia estrema sperimentata prima della battaglia: in mezzo al fragore delle bombe “fissavo il granello di fango tremando nella paglia”. Il suo vissuto del ruolo di comandante come figura di protezione per gli uomini che gli sono affidati contribuisce all’elaborazione del concetto di contenimento materno. 

In Memoria del futuro, la trilogia che definisce una “narrazione fantastica della psicoanalisi”, usa la tecnica del dialogo interno per contrapporre frammenti della memoria di guerra e insight psicoanalitici. Se la si legge a voce alta si incontra il teatro dell’assurdo, la catastrofe tragicomica delle pagine di Beckett. Che era stato uno dei primi pazienti di Bion.

 

***

 

La stazione di Waterloo era una cosa spaventosa. Divise cachi dappertutto, indistinte, anonime. Brookwood. Il Crematorio di Londra. “Ci siamo quasi, ragazzi; ce ne sono più per il Crematorio di Londra?” Quando fummo per arrivare a Bisley, l’intero treno si mise in agitazione. Pensai che ciò fosse dovuto al fatto che eravamo tutti in libera uscita, e ci stavamo avvicinando al campo. Ma non erano tutti in libera uscita; dubito che lo fosse più di uno sparuto gruppetto, me compreso.

 

 

Qualcuno tirò la corda del segnale di fermata, il treno si arrestò, e i passeggeri, tutti in uniforme, sciamarono fuori dalle carrozze per la campagna, in modo da tornare al campo senza incappare nella polizia militare. Io rimasi dov’ero, sentendomi un idiota per tutta la mia presunzione militaresca, e desiderando di smettere una buona volta di sentirmi come un poppante. A Bisley quei pochi di noi che erano rimasti sul treno perché avevano un regolare permesso di libera uscita si avviarono faticosamente nel fango verso il campo. Perché doveva essere sempre buio? Perché doveva sempre piovere?

 

 

La nostra destinazione? Un luogo misterioso chiamato ‘il Fronte’.

Per forse una mezz’ora (il tempo era già divenuto qualcosa che non poteva essere misurato dall’orologio) viaggiammo lentamente ma in una maniera che poteva far pensare all’Inghilterra prebellica. Le carrozze avevano una certa somiglianza con quelle dei treni delle linee per la costa orientale, per Norwich, Walsham, Cromer. Quindi il treno si fermò. Novizi com’eravamo, ne avremmo voluto conoscere il perché. Dopo qualche tempo, alcuni di noi ne chiesero il perché. Un ferroviere arrivò lungo le rotaie. Sembrava una persona ammodo, e si fermò per meditare sulla questione. Alla fine, sebbene non potessimo esserne certi in quanto parlavamo solo il francese delle scuole private, suggerì l’ipotesi che il treno si fosse fermato. Anche in francese vero, come risposta non sembrava illuminante. In seguito ci abituammo, non facemmo più domande che richiedessero una risposta. Era più saggio mettersi a dormire.

 

 

Nell’oscurità, riuscivamo appena a distinguere delle rovine; forse un volta erano state stalle. La Fattoria Inglese, così la chiamavano. Era qui che i nostri mezzi corazzati dovevano radunarsi per entrare in battaglia. Tutti arrivarono all’ora prestabilita, e potemmo metterci in marcia senza attenderci a vicenda, ma non prima che alcuni aerei tedeschi sganciassero le loro bombe. Erano dirette proprio a noi? Il nemico era a conoscenza dell’attacco imminente, oppure era soltanto un’incursione di routine sulla Fattoria Inglese, solo perché si trovava lì? Quindi un razzo illuminante cadde proprio di fronte a noi. Ci fermammo sull’istante, o almeno così ci piacque pensare; tutti rimasero immobili. L’intera colonna di carri armati, otto, luccicava di un bagliore metallico sullo sfondo della vellutata oscurità della notte. Ma quando mai si decideranno ad aprire il fuoco? Bayliss, accanto a me, avanzò l’ipotesi che stessero semplicemente facendosi quattro risate al vederci restare lì sull’attenti, come tanti soldatini idioti. Non ci eravamo ancoraripresi dal primo bombardamento; la paura del futuro immediato si ripercuoteva pesantemente sui nostri tentativi di dimostrare spensieratezza. Non c’è peso più gravoso di quello della spensieratezza. Forse la signorina Whybrow e la signora Thompson avevano ragione; avrei dovuto scappare. Troppo tardi, troppo tardi.

 

Trascorsi altri dieci minuti, ciò che avveniva alla Fattoria Inglese non ci toccava più. Il nostro timore, tuttavia, era che la presenza dei carri armati avesse rivelato al nemico l’attacco imminente. È difficile ora, credere che la nostra ansia avesse così poca sostanza.

La strada che stavamo percorrendo era adesso intasata dal traffico, sempre nuove truppe comparivano senza preavviso, come spuntassero dal nulla. Aspettammo. Non si apriva uno spiraglio. Ordinai ad Allen di spegnere il motore. Sulla strada congestionata nessuno parlava. Ogni tanto si sentiva il nitrito di un mulo, o il tintinnio dei finimenti.

Mentre scrivo queste righe, so di non aver dimenticato ciò che accadde quella notte alla Fattoria Inglese, o cosa sarebbe poi accaduto sulla strada St. Jean-Wieltje, a Cambrai, ad Amiens, nel train bleu, anche dopo anni trascorsi nelle zone buie di una seconda guerra mondiale; vedo ancora quei fatti alla luce dei fuochi da campo di mille notti insonni, perché l’anima vive ancora. 

 

 

Dunque, l’ufficiale era morto per le ferite riportate… o per choc da guerra? Lo choc da guerra era ovviamente una faccenda complicata: si andava dal caso di Quainton che, secondo Clifford, si stava preparando la strada, a quello dell’ufficiale che non si preoccupava delle sue ferite ma pensava che tutti, dai crucchi all’infermiera, lo volessero uccidere; tutti quanti, apparentemente, avevano avuto uno choc da guerra. Anche la guerra era una faccenda complicata. La mia esperienza in proposito fino a quel momento avrebbe ben potuto permettermi di trarre qualche conclusione, ma per quanto mi riguardava non avevo imparato proprio nulla. Questo, probabilmente, perché a diciannove anni il mio modo di fare e di pensare si era ormai troppo consolidato. Oggi sospetto di essere stato consapevole di una mancanza di disciplina, sia di quella che deriva da una maturazione spontanea, sia di quella che si basa su innumerevoli ripetizioni meccaniche quali le esercitazioni militari. Di quest’ultimo genere di disciplina ero stato testimone quando le Coldstream Guards avevano preso Gouzeancourt; potevo quindi immaginare imprese militari che non potessero essere descritte a parole, per quanto eloquenti. In mancanza di un simile addestramento, avevo la mia cultura familiare e scolastica. Certo, qualcosa mi dava; ma né la disciplina dei comandi ripetitivi, né il ‘paradiso’ dell’Inghilterra della classe media, né un esoscheletro che prendesse il posto dello scheletro in un animale normalmente dotato di endoscheletro, potevano servirmi; ancor meno potevano farlo nei domini della mente.

 

 

La fanteria doveva passare bene al largo del bosco, a causa di quel bombardamento che non era tanto inteso a distruggere i pezzi pesanti, quanto quei pezzi anticarro più leggeri che a loro volta si riteneva fossero lì per proteggere le mitragliatrici. Sarebbe toccato a due dei miei carri, quello di Asser e quello di Corkran (al quale adesso stavo appoggiato), entrare nel bosco all’ora zero più venti minuti, quando i nostri cannoni avessero smesso di sparare e i cannoni nemici fossero stati ridotti al silenzio. La funzione dei due carri armati sarebbe stata quella di occuparsi delle mitragliatrici. Ma non sarebbero stati ormai ridotti al silenzio anche i pezzi più piccoli, meno importanti, vista la quantità di fuoco che vi sarebbe stata concentrata sopra? I dinosauri dell’artiglieria si sarebbero distrutti da soli; quelli da 9 pollici perché non avevano la potenza di fuoco dei mostruosi obici da 12; gli obici da 12 perché li avrebbero distrutti la loro stessa enormità e la loro stessa potenza, che li rendevano inamovibili e inutili.

 

Le mitragliatrici sopravvivevano perché quegli schiavi deboli e molli che le servivano contenevano qualosa di ancora più debole e molle, il cervello umano, che andava soggetto a colare fuori dalla parte posteriore del cranio se quel cranio veniva deliberatamente perforato da un’altra arma ancora, imbracciata da un animale ancor più debole e vulnerabile che disponesse di una quantità sufficiente di molle cervello umano da imitare i suoi antenati e arrampicarsi su un albero. Ecco dunque che i mitraglieri, avendo avuto sufficiente spirito d’iniziativa da emulare i loro antenati e vivere in buche scavate nel terreno, una volta che gli artiglieri avevano fatto tutto il male possibile con quei loro pezzi simili a dinosauri, emergevano da quelle buche, scavate sempre piùb in profondità, e aprivano il fuoco sulla fanteria.

 

Altri artiglieri, sfruttando il loro apparato cerebrale, in particolar modo nelle sue facoltà scimmiesche, costruttrici di utensili e manipolatorie, avevano creato una mitragliatrice dotata di un cranio più resistente: il carro armato. Cosa fosse successo allora,  io (mentre mi appoggiavo a quello contenente Corkran, Hayler, O’Toole e Forman) non riuscii a immaginarlo, né allora né per molti anni a venire, perché venni interrotto dalla paura, una paura che mi attanagliò all’improvviso quandi il motore riprese vita con un ruggito, il quale subito si acquietò trasformandosi in un sommesso mormorio.

 

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