Il teatro e le rivoluzioni / Asja Lācis, l'agitatrice rossa

14 Febbraio 2022

Ci sono personaggi che, seppur rivoluzionari, spariscono dalla memoria e tornano a vivere solo dopo il disseppellimento di loro documenti dagli archivi. A questa schiera appartiene Asja Lācis (1891-1979), attrice, regista teatrale, pedagogista e rivoluzionaria lettone, protagonista del volume Asja Lācis. L’agitatrice rossa. Teatro, femminismo arte e rivoluzione, curato da Andris Brinkmanis e pubblicato da Meltemi nel 2021. La riemersione di Asja Lācis dagli archivi berlinesi avviene nel 1968, quando è ancora in vita e, grazie al lavoro di Hildegard Brenner, vede la luce Professione: rivoluzionaria, il primo volume della regista, curato da Brenner e pubblicato a Monaco nel 1971. Cinque anni dopo appare in Italia l’opera tradotta, di cui il recente L’agitatrice rossa costituisce una versione ampliata, con testi inediti tradotti dal lettone.

 

 

Ci giunge, quindi, rinfrescato da nuovi documenti teorici, il ritratto di una donna che nel pieno spirito delle avanguardie ricercò sul campo, sperimentando e osservando, nuove forme artistiche ed espressive. I testi biografici offrono al lettore ritratti essenziali ma vividi di grandi personalità del tempo, primi fra tutti Walter Benjamin e Bertolt Brecht, che fu lei a far incontrare nel 1925, stando alla sua testimonianza, o nel 1929, secondo gli studiosi. Le memorie sono seguite da alcuni saggi, più e meno teorici, sul teatro rivoluzionario in Germania, sull’importanza dell’uso del cinema nell’educazione dei bambini, sulla vita quotidiana e il teatro di Parigi in cui non mancano notazioni di costume, come quella pungente sulle donne parigine: «Il piumino della cipria attraversa il naso, il lipstick rosso fa il cerchio intorno alla bocca. Ciò si ripete circa ogni dieci minuti. Quei volti […] sono marionette immobili, senza vita, con il sorriso e le labbra rosse. Sono maestre in due specialità: la toilette e il flirt».

 

Uno degli esperimenti più interessanti dell’attività teatrale di Lācis è il teatro dei bambini, organizzato per la prima volta ad Orël nel 1918-19 con gli orfani di guerra e i bambini abbandonati. Lācis si era formata in un liceo privato di Riga, nonostante la famiglia fosse di umili origini. Aveva poi frequentato l’università a Pietroburgo, mentre a Mosca era stata allieva del registra teatrale Fëdor Komissarževskij. Quando arriva ad Orël, città a sud di Mosca, per lavorare come regista al teatro cittadino, la sua attenzione è attratta dai bambini abbandonati che vede numerosi nelle strade. Ottiene il permesso di realizzare il suo progetto di un teatro di bambini per i bambini basato sull’improvvisazione. Propedeutica all’improvvisazione era la stimolazione della vista, dell’udito e della manualità attraverso la pittura, la musica, la ginnastica e la costruzione di oggetti. L’esperimento pedagogico-teatrale, che si fonda sull’osservazione dei bambini, trae il suo fondamento teorico dai principi dell’educazione comunista che mirava, tra le altre cose, a una formazione generale di alto livello. A questa educazione si contrapponeva quella borghese, con la sua stimolazione unilaterale degli individui, utile poi, per dirla con Brecht, alla loro «commercializzazione».

 

 

Si può tuttora apprezzare la freschezza di questo gioco teatrale di ispirazione mejerchol’diana, il cui momento finale consisteva in una rappresentazione pubblica, all’aria aperta, in forma di festoso carnevale inglobante che risucchiava bambini e adulti che si incontravano sul suo percorso. Questa educazione estetica, come la definiva Lācis, fa riflettere sul tipo di formazione verso cui la scuola di oggi indirizza i ragazzi. Penso, ad esempio, ai percorsi PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) che hanno sostituito l’alternanza scuola-lavoro, e in generale a una certa idea di settoriale aziendalismo che sta pervadendo la scuola.

 

È proprio il teatro dei bambini uno dei primi argomenti di conversazione con Benjamin. I due si conoscono a Capri nel 1924, dove Lācis trascorre la primavera e l’estate con la figlia Daga e il futuro marito Bernhard Reich. È piuttosto noto l’episodio che la vede in difficoltà mentre cerca di comprare delle mandorle di cui non conosce il nome in italiano, quando Benjamin, che da giorni la osservava da lontano, accorre in suo aiuto. Si può leggere qui il bel racconto dei rapporti tra Benjamin e Lācis dal punto di vista del filosofo, che non ha mai nascosto la fascinazione che la regista esercitava su di lui. A volte la scrutava così intensamente che a stento ascoltava ciò che lei diceva, scrive nel Diario moscovita, resoconto del viaggio che Benjamin fece tra il dicembre 1926 e il gennaio 1927 nella Russia ‘soviettista’, come veniva allora chiamata la Russia sovietica nella pubblicistica italiana.

 

 

L’asciuttezza delle memorie di Lācis, invece, non indulge in sentimentalismi nel raccontare di Benjamin, verso cui a volte si mostra quasi scostante. «Mi raccontava spesso i suoi sogni. Io lo ascoltavo malvolentieri e lo interrompevo, ma lui proseguiva» scrive lei a proposito di quando, dopo il soggiorno in Italia, si incontrano di nuovo a Berlino. È infastidita quando lui, a sorpresa, si presenta a Riga nel 1925, il giorno prima di uno spettacolo che sarà gremito di spettatori e che le farà rischiare quattro anni di galera. (A Benjamin invece lo spettacolo non piace.) Nel 1928-30 si trovano entrambi a Berlino, Benjamin le fa conoscere persone importanti che le sarebbero state utili per il suo lavoro, le procura un alloggio e, dopo essersi ammalata, la accompagna dal famoso psichiatra Kurt Goldstein. «Era servizievole» racconta con un aggettivo così tiepido che non restituisce alcun coinvolgimento emotivo. Ma forse si tratta di una traduzione infelice o del contegno di una donna sposata che ricorda persone e fatti della sua vita di quaranta anni prima. Eppure traspare il suo affetto per Benjamin, magari spigoloso, ma schietto, anche se non esplicitamente dichiarato.

 

Il loro rapporto è fatto di grandi scambi intellettuali e di collaborazioni. Dopo l’incontro a Capri scrivono il saggio Napoli, che viene pubblicato sulla rivista «Frankurter Zeitung» nel 1925, e che contiene molte acute considerazioni sulla città, di cui Lācis osserva la porosità. Concetto, questo, che è poi penetrato nella filosofia di Benjamin (se ne può leggere qui). Curiosamente anche Viktor Šklovskij userà un aggettivo simile, ma per descrivere la Puglia: «Mi ha colpito la terra, spugnosa come il pane» scrive allo slavista Ettore Lo Gatto in una lettera del 1968. È Benjamin, inoltre, a scrivere il Programma per un teatro proletario di bambini, esperimento che Lācis esporta a Berlino nel 1928 dopo il successo di Orël. «Scriverò io il programma» le dice Benjamin entusiasta «e spiegherò e motiverò teoricamente il tuo lavoro pratico». L’appoggio di Benjamin le dovette senz’altro giovare nell’immediato, ma probabilmente la penalizzò nel lungo periodo. Nel saggio introduttivo del volume, il curatore sottolinea che alla base della rimozione di Lācis ci sia stata una «deliberata marginalizzazione e svalutazione patriarcale». E se probabilmente non è questa l’unica ragione della sua rimozione, colpiscono le scelte dei curatori della prima edizione degli Scritti completi di Benjamin di attribuire solo a lui il saggio Napoli e di rimuovere dall’opera Strada a senso unico la dedica a Lācis: «Questa strada si chiama/VIA ASJA LĀCIS/dal nome di colei che/DA INGEGNERE/l’ha aperta dentro l’autore». Una potente testimonianza di quanto Lācis riuscì a essere rivoluzionaria anche nell’animo di un «solido» intellettuale, come lo descrive lei nel primo incontro caprese. 

 

Insegnare ai bambini è un’ottima palestra e infatti improvvisazioni di temi rivoluzionari saranno riprodotte dalla regista nel cosiddetto teatro perseguitato. Nei primi anni Trenta Lācis lavora come assistente alla regia di Erwin Piscator nel film La rivolta dei pescatori. Poi seguirà una lunga prigionia che nelle sue memorie viene evasivamente riassunta in una frase: «Fui costretta a passare dieci anni nel Kazakistan», dove pure organizza un collettivo teatrale.

 

 

Quando torna dal Kazakistan diventa regista del teatro di Stato di Valmiera, in Lettonia, e riallaccia i rapporti con i vecchi amici, primo fra tutti Brecht, di cui negli anni Venti era stata preparatissima informatrice della scena teatrale sovietica, nonché assistente, incaricata di provare le scene di massa. Di quest’uomo gentile racconta che «lavorava con incredibile precisione: un’inflessione o un gesto che gli sembravano importanti poteva farli ripetere all’infinito», rimanendo sempre cortese e paziente. È proprio da Brecht che viene a sapere della morte di Benjamin. Le memorie si concludono in modo netto, senza nessun bilancio o formula conclusiva, lasciando spazio ai saggi e a un ricco apparato iconografico.

 

Malgrado i tentativi di rimozione che hanno colpito il lascito di Lācis, le preziose testimonianze contenute nel bel volume – di cui i molti refusi sono l’unico difetto – attribuiscono alla regista la centralità che le spetta nella scena teatrale europea. Una centralità che si giocò perlopiù nel suo presente, nella concretezza della pratica, nel tessuto delle relazioni, nell’immediatezza della propaganda, nell’avvicinamento di realtà teatrali lontane, ma simili, da mettere in comunicazione. Tutto questo fece di Lācis il punto di convergenza e di irradiazione delle avanguardie russa, tedesca e lettone. Fu lei, ad esempio, alla fine degli anni Venti, a promuovere il cinema di Dziga Vertov a Berlino e a far invitare il regista sovietico nella capitale tedesca. Come scrive Eugenia Casini-Ropa, traduttrice di Professione: rivoluzionaria e autrice del saggio introduttivo, Lācis ebbe «quell’insolita capacità di essere presente nei luoghi e nei momenti in cui, nell’addensarsi dei fermenti e delle inquietudini della società e dell’arte, si coagulano gli impulsi innovatori che alla società e all’arte possono mutare il volto». La sua esistenza dimostra inoltre la capacità di far coincidere teoria e pratica, di fondere teatro e vita, e dare corpo, con i suoi continui spostamenti per l’Europa, alla sua massima: «Tutto ciò che diventa statico nella vita non è necessario, anche se si tratta di arte». 

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