Ukuku / Viaggio a Cuzco

16 Settembre 2018

Inseguiamo gli Ukuku nella Plaza de Armas di Calca, un piccolo pueblo nel “Valle Sagrado” degli Incas che si apre tra le montagne a una decina di chilometri da Cuzco. Sono coperti di una veste di lana a trecce bianche e rosse, divise in due fasce lungo il corpo fino ai piedi. Al volto hanno dei passamontagna di lana con un naso a punta, gli occhi cerchiati. Un’aria di angeli o di demoni. Sono in realtà i figli del ghiacciaio sacro, quello di fronte al quale ogni anno per la festa della Mamacha Assunta (in quechua il suffisso cha viene usato come vezzeggiativo) in maggio vanno a dormire dopo aver danzato continuamente. Rappresentano un mondo a metà tra gli animali e gli umani, parlano in falsetto tra di loro e danzano al suono dei tamburi e dei flauti, strumenti per eccellenza degli Incas. Adesso in piazza si muovono velocemente, sono uomini e donne, anche se indistinti nei loro costumi. Sono una specie di confraternita dedita al culto delle presenze che popolano ancora fortissime il paesaggio del mondo andino. Ne sono l’espressione più pura, più ascetica, meno turistica. Emanuele Fabiano è un antropologo italiano che è venuto a vivere a Urubamba e ha sposato una indigena, Yenny e ha da poco finito un documentario sugli Ukuku, che la tv svizzera italiana ha trasmesso non molto tempo fa, Il Signore di Quylluriti.

Sono la confraternita incaricata di fare le offerte al ghiacciaio di Quylluriti: in passato erano quelli che portavano giù fino alla Plaza de Armas di Cuzco degli enormi blocchi di ghiaccio sulle spalle. Depositati in piazza, la prima goccia che si distaccava decretava l’inizio della grande festa di maggio. Oggi è proibito farlo perché il ghiacciaio si è molto ridotto. Ma il loro pellegrinaggio continua ad aprire gli altri. Emanuele dice che più gli Ukuku si allontanano dalla valle e si avvicinano al ghiacciaio e più la loro anima inca viene fuori e quella cristiana sfuma. Più salgono verso i seimila e più diventano esseri animali. Per questo parlano in falsetto, perché la loro natura è ibrida, non solo umani, ma neppure completamente animali. Si dice siano nati dall’incrocio tra un umano e un lama o un orso cogli occhiali (Ttemarctos Ornatus). È così che parlano tra di loro alpaca e lama e altri esseri, lepri d’altura e perfino i puma, l’animale sacro per eccellenza degli Inca. Alcuni di loro hanno attaccato alla schiena dei piccoli lama di lana, altri dei piccoli Ukuku, dei piccoli sé stessi. È l’alter ego che li accompagna e che viene presentato alla gente quando si chiede un po’ di chicha di mais da bere o qualcosa da mangiare.

L’insieme delle maschere qui nel Valle Sagrado ha un aspetto di totale travestimento. Perfino le donne si travestono da donne con maschere di donne, alcune invece sono in gonna e blusa tradizionale, ma hanno il volto coperto da un fazzoletto nero – sono le donne nere, le schiave che gli spagnoli costrinsero a lavorare per loro nei campi e nelle miniere. E poi ci sono i bianchi, la loro caricatura in maschere dai lunghi nasi, spesso pelosi, calvi, che danzano con la bibbia in mano, il loro strumento di tortura preferito. Nathan Wachtel, nel suo La visione dei vinti ha lavorato a lungo su queste maschere queste danze, sul loro riassumere e rievocare la conquista e la resistenza india ad essa. Tra i gruppi di danza ce n’è uno che rappresenta gli indigeni dell’amazzonia, un altro con maschere di facce deformate e gialle, la bocca a o, sono gli indios che si sono presi la malaria andando a lavorare in amazzonia e che hanno una guancia deformata dal “bolo” di coca che masticano continuamente. Con Emanuele e suo figlio vivacissimo di cinque anni ci infiliamo tra un gruppo e l’altro. “Unu” questo è il nome quechua del bambino – significa acqua – tra qualche giorno avrà il suo primo taglio di capelli, che è un momento fondamentale nella crescita di un bambino. Ad esso partecipa tutta la comunità che taglia una piccola ciocca per ogni padrino membro di essa. Siamo invitati al “corte” al taglio, ci sarà da mangiare, da bere chicha, da ballare.

Più tardi, verso il tramonto, dopo che gli Ukuku si sono rifocillati (son due giorni che danzano continuamente) nella casa di un amico della confraternita, saliamo su un camion che ci porta a Urco, un tempio inca, al centro del Valle Sagrado. Sul camion dove stiamo fitti in piedi o gli Ukuku arrampicati sulle sponde si continua a suonare e a parlare in falsetto – lo fanno quando sono mascherati (con una naturalezza assoluta passano dal falsetto al tono normale appena si tratta di questioni pratiche, come attaccare una scala al camion o aggiustare uno strumento). Arriviamo a un tempio circolare in mattoni su una collina. È uno dei posti sacri, tantissimi, che costellano questa valle, sovrasta i resti più ampi di una costruzione di pietra dalle caratteristiche finestre svasate dell’architettura inca. Il tempio guarda una montagna ripida dietro cui durante il giorno appariva la sagoma della “Veronica” il ghiacciaio a seimila metri. Dietro di noi la valle si restringe. Siamo protetti tra due sponde di montagne. Gli Ukuku entrano con strumenti e bandiere nel tempio circolare e cominciano a danzare in cerchio. La luce del giorno si affievolisce. Qui, a tremila metri il passaggio tra giorno e notte è rapidissimo. Ma c’è ancora luce. Quando smettono le danze, il gruppo si sposta in uno spazio erboso circondato da mura, parte del tempio più sotto e in circolo si inginocchia in silenzio. 

 

È a questo punto che comincio a sentire, vagamente il qui dell’essere nel Valle Sagrado. Per gli inca, ma per tutte le popolazioni precolombiane il paesaggio è una fitta rete di presenze. Cuzco è ancora il centro sacro di un paesaggio da cui si diramano a raggi migliaia di huacas, di luoghi sacri, sorgenti, ruscelli, pietre dalla forma particolare, ombre, lomitas, piccole alture, montagne, gli “apu” che sono i veri dei di questo mondo al punto tale da essersi tramutati nelle vergini adorate nelle chiese e nelle feste che con il loro mantello simulano le montagne stesse. D’altro canto vivere di fronte a queste montagne, essere installati in questa valle che offre tutte le meraviglie del mondo in termini di risorse e culture ( è un biotopo costruito sapientemente dagli Incas come macchina per l’abbondanza agricola) non può che dare questo tipo di cosmogonia. Però se uno non ci si trova dentro non capisce cosa doveva essere e cosa è questa religione spazio-temporale, fatta di stelle e stagioni, ma anche di andenes, di terrazze da coltivare a spalliera fin sulle cime. È una religione di presenze, un sentire i luoghi come principi personali con cui interagire in rispetto e venerazione e spesso in timore reverenziale. Non si tratta qui di un’interpretazione alla Tylor, il “numinoso inesplicabile” trasformato in divinità, ma di qualcosa che solo i popoli in stretto connubio con un luogo hanno conosciuto e conoscono. Penso a Piero Zanini e a una discussione che abbiamo da anni che parte, dice lui, da qualcosa che ho detto io.

Mi sono chiesto una volta “uno cosa deve fare di fronte a un paesaggio?” e la risposta è che c’è un imbarazzo di noi contemporanei di fronte a un luogo bello, a una veduta, a un “patrimonio” naturale. Cosa devo fare? Prendo il telefono e scatto una foto, faccio un selfie, catturo lì su uno schermo qualcosa che io non sono capace di catturare. Ma questo gesto, oggi così diffuso è una forma di imbarazzo. I più scaltri dicono che fanno meditazione, una parola passe-partout per un silenzio salutare. Ma quello che ci manca è una forma dialogica. Nel Valle Sagrado i luoghi sono presenze, lo erano per gli inca, ma in qualche modo è difficile sfuggire al loro “spell”, al loro incanto, una parola strana che però indica l’influenza che un luogo può avere su di noi, il farci sentire che c’è qualcosa che va ascoltato, di fronte al quale bisogna porsi come se ci fosse un principio personale, quasi intenzionale. È difficile esprimere questo con i nostri concetti, proprio perché l’estetica del paesaggio è di una povertà autoreferenziale che ci ostruisce la vista. “Le montagne non sono belle”, c’è qualcos’altro in esse, nelle cime innevate, nelle valli che si estendono pacifiche sotto dei formidabili picchi. La ritualità degli Ukuku è una forma del fare dialogico col paesaggio, è l’attivazione di un dialogo tra presenze, la trasformazione reciproca di due presenze nello stesso luogo. Altrimenti come spiegare la cura, la minuzia, la conoscenza dettagliata dei processi agricoli correlati con quelli astronomici e stagionali, la cura di ogni singola zolla sulle pendici di montagne ripidissime. Machu Picchu, la visione india sarebbe pura cartolina al di fuori di questa vaga intuizione, che però per gli andini di oggi non è così vaga. Cuzco, il Valle Sagrado, la quantità immensa di presenze costruite dai popoli precolombiani sono il risultato di una cultura montanara fortissima. Vorrei che Piero Zanini fosse qua perché lui da montanaro queste cose le capisce molto più di me e soprattutto le sente.

Quando sono calate le tenebre, gli Ukuku intonano un canto acutissimo accompagnato ai flauti. La giornata si spegne in un silenzio che è la protezione che le montagne che abbiamo intorno ci danno. Una culla di stelle con la luna a barchetta di chi sta sotto l’Equatore.

Quando il giorno dopo il recorrido con gli Ukuku, Emanuele ci affida a un amico antropologo di Cuzco, Bertin, che ci porta in giro per il Valle Sagrado, si apre un altro spiraglio. Le rovine che vediamo, i magnifici enormi muri pre-inca vicino al Cuzco, e poi le fortezze, i templi, come dice Bertin, sono stati “destrozados”. Noi le vediamo come rovine, ma lo sono diventate così perché qualcuno le ha fatte saltare in aria, le ha distrutte volutamente, ha scalpellato ogni scultura e bassorilievo. La distruzione sistematica capeggiata dai domenicani dell’inquisizione è stata atroce. Una cultura immensa come quella dei popoli andini, una cultura che era fiorentissima nel 1500, che aveva costruito 190 città che somigliavano a Machu Picchu e qualcosa di immenso come il Cuzco, viene distrutta nel giro di vent’anni. Se quello che ci è pervenuto è ancora così ingente, cosa doveva essere la sua presenza viva, in monumenti, muri, città , maniere di abitare?. È proprio un’operazione di puro etnicidio, lo si è detto più volte, ma non ci si rende mai abbastanza conto di quale tipo di censura totale sia stata operata nei confronti di un mondo intero. Oggi degli Incas, scomparsi non più di seicento anni fa, non sappiamo quasi nulla, tutto è stato scalpellato, coperto, fatto saltare in aria. Come se nell’Italia del 500, del Rinascimento, una cultura estranea e ostile e armata fosse arrivata improvvisamente e avesse fatto esplodere il novanta per cento di architetture, pitture, città, saccheggiandone le ricchezze per solamente scioglierle in lingotti. E quello che è successo qui, qualcosa per cui spagnoli, domenicani ed europei rimarranno imperdonabili. Oggi quello che sappiamo degli Inca e dei popoli preincaici è legato all’archeologia, allo scavare per ritrovare tombe, come se qualcuno oggi per capire il Rinascimento cercasse di farlo attraverso le tombe e non attraverso Caravaggio o Michelangelo. Sono le cronache spagnole che ci spiegano cosa erano gli Incas, secondo una lettura difettata da una visione eurocentrica, ma anche dalla resistenza culturale andina che ha nascosto una parte, una buona parte dei suoi contenuti ( oggi si parla addirittura di una scrittura scomparsa, attivamente fatta scomparire).

Quando la sera rientriamo al Cuzco, le sue strade ripide e perfettamente pavimentate in basole nere, la sua quasi umoristica maniera di porsi nei confronti di alture e rilievi del terreno mi consola. Questa visione montanara di una città è un’altra forma di resistenza. Una città così gli spagnoli non potevano costruirla ma solo occuparla. La prima cosa che essi cercarono di fare era di forzare tutte le popolazioni a stare in luoghi piani, controllabili. Gli andini invece vivevano e vivono tutt’ora in comunità sull’altipiano a quattromila metri. Ancora si sente la loro capacità di sistemarsi “comodi “tra vette innevate di piantarci le loro ragioni. È il senso consolatorio che ti prende quando, a Machu Picchu, senti che tutto sommato poteva essere un posto piacevole per viverci, perché protetto dalla capacità di abitare così in alto.

Per ora è tutto, vado a dormire con lo smarrimento dovuto al soroche, quel mal d’altura che a me non montanaro dice qualcosa che ancora non intendo che si trasforma in sogni strani, voglia di masticar coca e strano affanno – e non è solo l’affrettarsi del cuore e del respiro, c’è il fatto di essere cosciente che io “non ci arrivo”.

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