Per una vecchiaia meno seria / OK, BOOMER!

9 Dicembre 2019

Fermo restando che “rendere la vita meno seria è una fatica immane e una grande arte”, come dice John Irving, vale comunque la pena insistere nella riflessione sulla vecchiaia per la semplice ragione che solo facendolo possiamo pensare di riuscire a escogitare qualcosa di meglio che ce ne possa difendere. Chissà, magari proprio nella vaghezza del qualcosa sta il “meno serio” di cui abbiamo bisogno.

 “Ok, boomer!” si è sentito rispondere sarcasticamente un anziano deputato neozelandese qualche settimana fa dalla sua giovane collega venticinquenne Chlöe Swarbrick che intendeva dire “Adesso tocca a noi”. E così il baby-boomer diventa il nuovo soggetto sulle spalle del quale dovrà compiersi il salto evolutivo della concezione della vecchiaia, piaccia o no. Con la cultura disinvolta, spregiudicata e ribelle della sua umanità rock dovrà affrontare la sfida. E, per questo in particolare, sono convinto che François Jullien abbia ragione quando dice che “quel che viene prima è la dimensione culturale”, che ciò che si pensa, oggi, può essere più determinante di ciò che si fa, più di quanto si creda. Personalmente sono convinto che la nuova vecchiaia ne sia un’importante verifica.

 

È un vero tourbillon antropologico con cui stiamo facendo i conti. Tutti possono verificare che nella propria vita quotidiana degli ultimi tre decenni sono apparse nuove abitudini alimentari, linguistiche, estetiche, economiche, morali, provenienti appunto da quel mondo globale che non sempre per tutti è ancora facile identificare e utilizzare. E l’interazione con l’informazione globalizzata che la Tecnica ci mette a disposizione è probabilmente la maggiore fonte di questi cambiamenti. Gli adattamenti culturali sono in corso. 

 

La vecchiaia è più “struttura”, “congiuntura” o “evento”? Prendendo a prestito per un momento i concetti con cui i teorici francesi delle Annales classificavano la durata dei fenomeni storici secondo il loro ritmo di evoluzione (quasi geologico per i fenomeni strutturali, il tempo di qualche secolo per le congiunture, e infine gli eventi che hanno la durata di una o due generazioni umane) possiamo dire che la vecchiaia umana è un po’ questo e un po’ quello, contiene elementi “strutturali”, che vengono dalle nostre radici antropologiche, ma anche i caratteri di media e breve durata acquisiti strada facendo, a cui la (nostra) storia ci mette davanti. Ora, al di là della classificazione, che poco importa perché invecchiare è innanzitutto una cosa che si sviluppa nella propria carne, il paradosso a cui oggi assistiamo è che le strutture, cioè i caratteri culturali di fondo dell’essere vecchi (per esempio il modo di accettare il proprio deperimento fisico-mentale) sembrano durare quanto un evento; è evidente che il modo di accogliere la mia vecchiaia è sensibilmente diverso da quello di mio padre e, ancor più, di mio nonno. Per essere all’altezza del mio tempo sono costretto a imparare molto rapidamente a invecchiare in modo nuovo senza badare alle sedimentazioni “strutturali”. E non è, ovviamente, una questione di “moda”, si tratta piuttosto di cogliere con tempestività quali siano gli aspetti che maggiormente ci legano alle sorti della collettività in cui viviamo. Perché condividere rimane pur sempre la funzione fondamentale della vita sociale, quella che ci permette meglio di portare il peso di fatiche e sofferenze distribuendone il carico psicologico tra simili. Il modo diventa metodo nel momento in cui la rapidità di adattamento diventa abitudine collettiva.

 

“E nel come / sta la vera differenza”, dice la Marescialla protagonista di Il cavaliere della rosa di Richard Strauss – Hugo von Hofmannsthal alludendo alle diverse possibilità che nella vecchiaia si danno per viverla più o meno serenamente. E in effetti la nostra vecchiaia non è altro che il nostro modo di uscire di scena. Il nostro come, appunto. Sì perché il cosa, cioè la gran parte della vita, è avvenuto, si è dato, e comunque non ha più lo stesso senso e valore. Concentrarsi sul come, invece, ci consente di esplorare e capire meglio le potenzialità che al momento opportuno riusciremo a mettere in campo. A far sì che il modo diventi un metodo, per l’appunto.

Questo è il punto nevralgico: mettere la vecchiaia in situazione di mutamento. Tradizionalmente invecchiare significava approdare a una sorta di stagnazione definitiva in cui l’esistenza si limitava a ripetere se stessa in un contesto socialmente “protettivo”, in cui tutto si traduceva in un complessivo abbassamento di volume. E le “idealità” di riferimento, a seconda della parte di mondo in cui era capitato di vivere, erano quelle, del proprio paese-continente, senza particolari ibridazioni o sconvolgimenti. Oggi non è così. Frequentiamo da decenni gli stessi store e ristoranti e giardini con persone che di fatto condividono l’ambiente socio-culturale, avvolto nella cosiddetta Tecnosfera, in cui viviamo; pressoché tutti usiamo – e siamo usati – dal web; e ora ciascuno di noi coetanei (una massa enorme e crescente) si accinge a prepararsi al retirement senile. A prescindere da dove proveniamo. Le diversità esistono ancora, certo, ma non sono che i diversi aspetti di un mondo che è “mio” per tutti. Siamo altro, ormai. Le mutazioni nell’ambito gender sono, ad esempio, un segnale inequivocabile di questo cambiamento di prospettiva culturale e sociale. 

 

 

In questo reale molto inedito il vocabolario stesso della vecchiaia, quello dei nonnetti e nonnette, mostra tutta la sua insufficienza. Com’è invecchiare in società sviluppate, dotate di welfare efficaci, di cultura sociale diffusa, di istruzione, di sensibilità critica, di buongusto e buonsenso; come si affrontano i molteplici declini con un apparato difensivo notevolissimo, dalla medicina al suo massimo sviluppo a un addestramento psicologico mai visto prima? È proprio “in questo reale molto inedito”, dall’altezza del suo enorme sviluppo, che gli uomini hanno adesso l’opportunità di “interpretare” la vecchiaia declinandola secondo le proprie sensibilità e astuzie, frapponendo all’inesorabile declino una complessa articolazione di step successivi che consentano – sia detto crudamente – di fare da cuscinetto preparatorio alla conclusione. Peraltro c’è anche un problema di reattività alla storia, ai destini generali e non solo a quello personale: abbiamo pur sempre ancora la necessità di partecipare, di capire per scegliere, di agire in quanto membri di una comunità. Al di là di un sé (il sé da vecchi) che a volte si dilata in misura eccessiva. Per non dire dei doveri oggettivi di accudimento, verso figli dal futuro troppo spesso instabile. 

Può essere interessante e utile analizzare alcune idee di vecchiaia. Ne suggerisco tre, tutte americane, Stati Uniti, e non per caso mi rivolgo a un paese “per natura” votato alla flessibilità, un immenso laboratorio dove si è sempre dedicata molta energia alla ricerca di novità, e dove forse possiamo trovare anche un pizzico di quel “meno serio” di cui si diceva prima. Sono tre tipologie, ognuna a suo modo paradigmatica, di modi di sentire l’invecchiamento e di agire per difendersene. 

 

Il primo lo chiamo “Clint Eastwood” ed è ricavato dall’analisi dell’insieme dei personaggi che l’attore e regista americano ha da sempre rappresentato. Da Million Dollar Baby a Gran Torino a The Mule, per citare solo alcuni titoli, i vecchi di Eastwood sono gente fatta di ferro che invecchia con vigore. Forse sono i neuroni specchio o il desiderio di avere una energia mai avuta nella realtà, ma Clint Eastwood-personaggio ti mette una forza addosso che non ha pari: come vecchio è un esemplare stupendo, direi quasi un paradigma, appunto. Ora, quanto questo modello sia rappresentativo lo si può percepire se raffrontato alle modalità di diventare vecchi che le persone più semplici generalmente hanno in Occidente. I personaggi di Clint Eastwood (per approfondire si vedano le sue interviste in Fedele a me stesso, minimum fax, 2019) sembrano essere, come dire, dei portatori sani di istinto di sopravvivenza, persone estremamente realistiche, pienamente consapevoli della necessità di equilibrare istinto e ragione, fortemente immedesimati con la funzione sociale che gli è stata data, convinti di vivere senza inutili discussioni perché, pensano, semplicemente così è andata. In realtà la “filosofia” di Eastwood è un insieme di valori statici, una sorta di concezione naturalistica dell’uomo sorretta da un’epistemologia elementare che poco spazio lascia al pensiero flessibile di adattamento. Sullo sfondo c’è ancora la cultura della società patriarcale dove ruoli e funzioni sono stabiliti e regolamentati; e il presente globale, molto complesso e in-mediato, è una realtà in cui il modello Eastwood, nella sua “rigidità”, sembra fare fatica a funzionare proficuamente. 

 

 

Una seconda visione della vecchiaia la propone il maestro Zen californiano Ezra Bayda, con la moglie Elisabeth Hamilton, in Invecchiare. Guida per principianti, (Astrolabio - Ubaldini Editore 2019). È un’idea di “gestione” della vecchiaia, è facile intuirlo, molto distante da quella di Eastwood (e comparare mondi distanti per noi può essere produttivo). È un’opzione di pensiero che naturalmente richiede un distacco, diciamo, dalla cultura a cui apparteniamo. Non sono cose tanto nuove, in fondo. Ezra ed Elisabeth ti prendono per mano e ti insegnano i pensieri che devono accompagnare i movimenti, i ritmi del respiro fino a ottenere precisi effetti sul tuo organismo. La vecchiaia, secondo Bayda, è un “monastero naturale” in cui tutti noi entriamo a un certo punto della vita e lì, da monaci (monastero da monos, unico, solo; il monastero è la dimora di un monaco) ciascuno deve attivare una serie di pratiche che hanno lo scopo di unire (olisticamente, si dice) i pensieri al corpo; con la meditazione e una precisa meccanica respiratoria si tratta di favorire una sorta di somatizzazione dei pensieri, per lo più negativi, che abbiamo sulla vecchiaia e ricavarne una efficace positività.

 

La dimensione sociale non è presa in considerazione come soggetto protagonista, ma piuttosto come quinta di un palcoscenico in cui c’è un unico attore a recitare. È l’individuo a plasmare se stesso agendo sulla funzionalità sistemica che – favorendo, quando necessario, il sistema nervoso parasimpatico rispetto al sistema simpatico – si “adatta” a produrre risposte attive e positive a istanze depressive che vengono dall’invecchiare. Si tratta di affrontare ansia e depressione, il lutto, la solitudine e il senso di impotenza, il dolore fisico, insomma: gli animali più feroci della foresta dell’invecchiamento, nella prospettiva di ribaltare la sofferenza in energia attiva. Attraverso l’accettazione stessa dell’ineludibile della morte. È il passaggio dalla nostra “piccola mente” a una “mente rischiarata” che ci fa dire non più “Perché io?”, ma “Perché non io?”. Quello di Bayda è un percorso di progressiva interiorizzazione, imperniato sulla nozione buddhista fondamentale di impermanenza: “Così iniziamo dal respiro, poi includiamo il corpo, ci allarghiamo all’ambiente, e ci apriamo all’inestricabile connessione di tutto l’esistente” (p.183). È l’Occidente che tocca l’Oriente, senza troppe cadute parodiche New Age. È un’altra disciplina orientata alla vecchiaia. Può stuzzicare la curiosità, ma anche la vita. 

 

Il disincanto più profondo con poesia, conoscenza responsabile e slancio emozionale, Cicerone e Shakespeare, volendo dirla in poche parole questa è la visione della vecchiaia di Martha Nussbaum, nota filosofa americana e Saul Levmore, giurista, entrambi della University of Chicago, che hanno raccolto in Invecchiare con saggezza (il Mulino 2019), la loro analisi, scrivendo ciascuno una parte di ogni capitolo, come in dialogo; il sottotitolo infatti è Dialoghi sulla vita, l’amore e i rimpianti

È il punto di vista più articolato dei tre che stiamo considerando, quello che meglio soppesa tutti gli aspetti della vecchiaia umana, da quelli legati alle contingenze più stringenti (i sistemi pensionistici e le diseguaglianze sociali, il tema dell’eredità), alle passioni e i sentimenti (l’amicizia, l’amore, il corpo e il sesso, le “emozioni retrospettive” sul passato, l’altruismo). I diversi fenomeni vengono letti con un doppio registro: quello più pragmatico di Levmore, molto strettamente riferito alle politiche sociali e alla legislazione statunitense (è molto utile per constatare le distanze dal contesto europeo e italiano in particolare); quello più culturale di Nussbaum, dotato anch’esso di una piena consapevolezza dell’entità dei problemi fattuali, come vedremo. Sono due libri che comunicano reciprocamente.

 

 

Si parla di invecchiamento da un punto di vista soprattutto delle idee che ne abbiamo, il versante sanitario rimane in disparte, non certo perché non abbia rilevanza, ma perché è la zona su cui la Medicina regna sovrana mettendoci a disposizione, fino ad oggi, quote crescenti di longevità. È sulla flessibilità culturale che, al contrario, possiamo fare molto. “Non è forse giunta l’ora – dice Martha Nussbaum –, per tutti noi figli ormai attempati del baby boom, “to take back the night” (“di riappropriarci della notte”), di rivendicare cioè come nostro quel territorio interiore inesplorato che tentiamo in tutti i modi di evitare?” (p.168). È l’ora di frantumare le generalizzazioni che per secoli hanno disumanizzato e defraudato gli anziani della “capacità di agire e di scegliere” relegandoli nello stigma del disgusto, per il loro corpo, per il loro ruolo sociale secondario, per la loro debolezza, tutte immagini “di putrefazione e mortalità”. La vecchiaia, al contrario, è una “nuova frontiera” su cui pensiero europeo (che tende a negare la capacità di agire in questo campo) e americano (che enfatizza il lavoro e l’attività fisica) possono trovare una nuova sintesi che esalti il valore dell’unicità degli individui, liberati finalmente dagli stereotipi. Dal superamento della pensione obbligatoria, uno dei mali del secolo per gli autori, al ricorso alla chirurgia estetica se serve (ancorché anche le rughe possano essere attraenti come si mostra nel capitolo dedicato), all’amore-e-sesso leggero e ironico della Cleopatra shakespeariana, all’attenzione a non rifugiarsi nel passato né a votarsi al presente per assumerli entrambi. Nussbaum, in particolare, dopo un severo attacco contro La terza età di Simone de Beauvoir, e alla sua irredimibile vecchiaia come condizione di miseria umana e sociale, propone un concreto “approccio delle capacità” (capabilities approach, p.263) con cui si rivolge ai legislatori. La filosofa propone e illustra dieci requisiti fondamentali per la qualità di vita dei cittadini, requisiti che vanno concepiti come principi costituzionali, “al di fuori dei capricci del sistema maggioritario”. Un individuo, sostiene, deve poter “scegliere in libertà e agire con autonomia” su: 1. Vita, 2. Salute fisica, 3. Integrità fisica, 4. Sensi, immaginazione e pensiero, 5. Sentimenti, 6. Ragion pratica, 7. Appartenenza, 8. Altre specie, 9. Gioco, 10. Controllo del proprio ambiente. Mi sembra in sé una fertile mappa su cui poter ragionare approfonditamente. 

 

Non si può più fare da sé, per reggere le prove in ambiente globalizzato che anche la vecchiaia impone bisogna servirsi di tutto il know-how che viene messo in circolazione. Anche incrociando Est e Ovest. Le competenze si danno e si prendono, c’è sempre qualcosa che l’altro conosce e tu no. Ne nascerà una nuova fusion, magari vaga, ma, si spera, fattiva. E se è la cultura che guida, che conduce, è per via culturale (cioè acquisendo di qua e di là) che possiamo formare una nuova forza di reazione, una rinnovata tenacia che si avvicini a quella degli antichi, che erano al di qua della Tecnica, e serva a noi magari per andare oltre la Tecnica. Per una vecchiaia “meno seria”.

 

 

Ezra Bayda con Elisabeth Hamilton, Invecchiare. Guida per principianti, Astrolabio – Ubaldini Editore 2019, pp.209, Euro 18,00.

Martha Nussbaum, Saul Levmore, Invecchiare con saggezza. Dialoghi sulla vita, l’amore e i rimpianti, il Mulino 2019, pp.323, Euro 25,00.

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