L'ottava vita / Nino Haratischwili. Una voce dal Caucaso

3 Novembre 2020

Leggere un romanzo di 1.300 pagine non è uno scherzo. Niente, comunque, in confronto a scriverlo. Se poi la lingua in cui scrivi non è neanche la tua lingua madre, la faccenda si fa ancora più complessa. Però è quello che ha fatto Nino Haratischwili, una giovane scrittrice georgiana, la cui origine si capisce dal cognome, che finisce in schwili/švili – შვილი in georgiano – come quello di Iosip Džugašvili detto Stalin. Anche Lavrentij Berija era georgiano e entrambi ahimè entrano nel romanzo L’ottava vita (per Brilka), (trad. Giovanna Agabio, Marsilio, 2020). Nel 2011 Haratischwili aveva scritto Il mio dolce gemello (trad. Matteo Galli per Mondadori nel 2013,) e nel 2018 La gatta e il generale che mi auguro venga presto offerto al pubblico di lingua italiana. Scrive prevalentemente di notte perché è un gufo o una civetta, con qualche difficoltà in più adesso che ha due bambini, non insuperabile comunque, come sa ogni madre che lavora. Anche se scrivere non è proprio lavorare...

 

Ho qui i tre volumi davanti a me, sul tavolo dove sto scrivendo. Li guardo e li riguardo con ammirazione ma anche con malinconia, perché li ho finiti, e mi prende quel senso di vuoto che sempre avverto quando una lettura che mi ha preso si conclude: «e adesso? che cosa leggo che stia alla stessa altezza e che mi dia lo stesso piacere? Come faccio a leggere un altro romanzo dopo aver terminato Die Katze und der General»? Come già mi era successo con Le benevole di Jonathan Littell, che pure aveva scritto in una lingua, il francese, diversa dalla lingua madre inglese. Per fortuna il mondo va avanti, e con esso la scrittura. Anche la poesia continua, più bella di prima, nonostante le infamie e le disgrazie. Allora è come se Jonathan Littell e Nino Haratischwili si fossero passati il testimone: un giovane franco-americano e una giovane georgiano-tedesca che hanno scelto di scrivere in un’altra lingua e hanno composto intorno ai trent’anni opere mirabili.

 

Che sia stato proprio l’uso di una lingua altra ad aver consentito e favorito tali performances? Spesso mi capita di chiedermelo in relazione a capolavori spuntati fuori dal nulla in lingue nelle quali era stato scritto poco o nulla: il greco di Omero, l’italiano di Dante, il russo di Tolstoj e Dostoevskij. Che poi, Littell di fatto è cresciuto bilingue francese-inglese (e ha comunque scelto di scrivere in una lingua minoritaria e meno lucrativa) ma Haratischwili il tedesco lo ha appreso in loco soltanto a vent’anni, nel 2003, quando è andata a vivere ad Amburgo. Nel 2006, dopo tre anni, si è sentita pronta per scrivere in quella lingua, dichiara in un’intervista. Come un altro caso clamoroso di questa serie, Joseph Conrad, che le prime parole in inglese le pronunciò a diciassette anni e a vent’anni pare che arrancasse ancora. Haratischwili è in ogni caso tetralingue, giacché scrive e parla anche in russo e in inglese, oltre che in tedesco e in georgiano, e comunque il suo uso della lingua tedesca è strabiliante. Se non è la tua lingua madre quella in cui scrivi – dice ancora nell’intervista, peraltro in inglese – puoi sperimentare di più, non sei portata ad esprimerti automaticamente. Nino Haratischwili è un’artista della parola, un’esteta della lingua, con un’inclinazione per la poesia e per il teatro, per il quale ha scritto svariati lavori.

 

Qualcosa di autobiografico rispetto alle capacità linguistiche dell’autrice deve essere filtrato, mi sono detta, in un personaggio di L’ottavo libro, Niza. Niza arriva a Berlino da Tbilisi che ha vent’anni e ha imparato un po’ di tedesco in Georgia dal suo amico Severin, nella cui abitazione in Germania trascorre i primi mesi. Studia la lingua, legge avidamente, si iscrive all’università e un giorno la sua professoressa di storia la ferma dopo un seminario:

 

«Credo che lei abbia talento, signorina Jashi» affermò, fissandomi da dietro i suoi grandi occhiali.

Trattenni il respiro. Quella parola apparteneva alla mia vecchia vita, non doveva comparire qui. Non qui. Non ora. E neanche altrove, mai più.

«Non mi risulta» replicai, cercando di svicolare.

«Lei sa che esistono dei sussidi per le persone dotate di particolare talento?»

«Io non sono dotata di nessun particolare talento

«Be’, scrive in un tedesco migliore di quello dei suoi compagni madrelingua. Assorbe dati a una velocità incredibile, anche se non riesce a usarli in modo mirato. Ha una certa difficoltà di correlazione. Il suo bagaglio di conoscenze... come dire... è notevole, se una cosa le interessa è molto concentrata. Ma è altrettanto trascurata se non le interessa. Frequenta poco i suoi coetanei e non si sforza di farlo. È ostinata, chiusa, poco comunicativa. E quando si tratta della verità non sempre è scrupolosa...»

«E allora? Sarebbero segni di un particolare talento, questi? Non le sembrano piuttosto un cliché?»

«Il cliché è la negazione del suo talento. Lei si nasconde dietro il suo talento e il cliché è proprio la sua paura di riconoscerlo e di sfruttarlo in modo adeguato. Chiunque le abbia messo in testa questa idea ha commesso un errore.»

«Io sto bene qui, non voglio cambiare niente, la prego.»

«Sono la sua professoressa e non sua madre, e come tale le consiglio di fare domanda per un assegno di ricerca e per un posto da assistente in uno dei nostri istituti. Potrebbe laurearsi prima del termine, con un po’ d’impegno. Potrebbe fare tante di quelle cose. Se però fossi sua madre, signorina Jashi, le consiglierei di riflettere sul suo talento e sul suo assurdo rifiuto di ammetterlo.»

Da quando ero a Berlino quella fu la prima volta che piansi davanti a qualcuno. (pp. 1053-1054).

 

Il talento di Nino Haratischwili è confermato dai vari premi letterari ricevuti, anche se non le sono state risparmiate critiche virulente, specie per il suo ultimo romanzo.

 

Qui intendo soffermarmi sui due romanzi più recenti a sfondo storico-politico. Il primo, Il mio dolce gemello, pur non trascurando lo scenario politico-geografico e storico-sociale, privilegia il mondo dei media in cui e si incentra su una storia di passione tra due fratellastri, Ivo e Stella (nome-omaggio a Marlen Haushöfer?). I due, da bambini, vivono un episodio quasi biblico, che da adulti rimuoveranno ma che condizionerà la loro intera esistenza, e costerà a Ivo la perdita della parola, che recupererà grazie alla fiducia nella sua pseudogemella. Tra i due si sviluppa una simbiosi malata dalla quale usciranno soltanto dopo un viaggio alle origini, in Georgia, pieno di eventi e di incontri che condurranno Stella al suo vero Io e alla possibilità di uscire da questa simbiosi perversa e trovare le forze per continuare a vivere, per quanto solo con morte del dolce gemello.

 

Guerre, rivoluzioni e violenza politica del secolo scorso sono presenti con maggior forza in L’ottava vita (per Brilka), del 2014, in quanto parte degli eventi storici accaduti agli abitanti delle ex repubbliche sovietiche e insieme come sfondo di drammi e trasformazioni in seno a una famiglia georgiana. L’ottava vita (per Brilka) è infatti la storia di una famiglia che percorre un secolo di storia georgiana, sovietica ed europea, in cui risaltano le figure femminili. La cronaca degli Jaschi viene narrata in prima persona da Niza, che nei primi anni duemila vive a Berlino, ed è rivolta alla nipote dodicenne Brilka. A ogni membro della famiglia è dedicato un libro, a partire dalla bisnonna di Niza, Stasia, nata nel 1900, quando Tbilisi doveva assomigliare a una città della Belle époque, Parigi, Vienna o Budapest.

 

 

Il secondo libro è dedicato alla bella e inquieta Christine, sorella di Stasia, devastata dalle attenzioni dedicatele dal Piccolo Grande Uomo, e poi ai figli di Stasia, Kostja (Konstantin), fedele fino all’ultimo alla Rivoluzione sovietica, e Kitty, l’artista, fino alla figlia di Kostja, Elene, e alle sue figlie, Daria e Niza. L’ottavo libro, per Brilka, è bianco, ancora tutto da scrivere, nell’auspicio che la ragazza possa vivere una vita gestita in prima persona, e non dalle circostanze che hanno così fortemente determinato la vita degli altri protagonisti, a partire dall’annessione della Georgia da parte della Russia, e poi la prima e la seconda guerra mondiale, e soprattutto l’epoca dominata dagli interventi spietati di Stalin. Un oggetto, o meglio un’esperienza gustativa accompagna l’intera storia, ed è la cioccolata calda preparata secondo la ricetta del progenitore Ketevan Jaschi, pasticcere e «chocolatier», la cui bevanda è simile a una pozione magica preparata sui monti del Caucaso, mi dico, dalla maga Medea, se non al farmakon di Platone: guarisce e avvelena, rigenera e condanna.

 

Nel romanzo, La gatta e il generale, la storia si muove invece tra il presente (il libro è uscito nel 2018) e gli anni novanta del Novecento, in particolare nel 1994, durante la prima guerra cecena. In quel contesto e in quei luoghi una ragazza, Nura, viene violentata e uccisa da alcuni militari. Sono presenti alla scena dello stupro e all’omicidio della giovane due ufficiali di alto rango, un loro scagnozzo e due soldati, due cucinieri che si trovano nell’esercito contro la loro volontà. Uno di loro si toglie la vita ancor prima che la ragazza muoia, gli altri si rendono colpevoli del crimine. Il secondo soldato cerca una via giuridica che condanni lui stesso insieme agli altri ma il tentativo naufraga quando l’unico giudice onesto viene assassinato; il soldato cambia direzione di vita, diviene un imprenditore senza scrupoli detto «il Generale» e per vent’anni imperversa da oligarca fino a che la figlia viziata e adorata si suicida proprio per vergogna di quella azione paterna. Il Generale intraprende a quel punto un’operazione quasi teatrale, servendosi di una giovane attrice georgiana che somiglia come una goccia d’acqua a Nura: Sesili, la Gatta, che come l’animale ha molte vite. 

 

Nella tradizione dei grandi scrittori russi dell’Ottocento l’autrice si pone e ci pone domande importanti sul peso delle dittature nello sviluppo delle condizioni di vita delle persone e sul ruolo della corruzione e dei ricatti. Come la tazza di cioccolata nell’altro romanzo, anche qui un oggetto fa da filo conduttore: è il «cubo di Rubick» che Nura aveva ricevuto in dono e che era riuscita a ricomporre, simbolo del sogno di una vita di impegno e studio che viene brutalmente interrotta dall’azione dei militari. Come le facce del cubo, anche le facce della storia rimangono scomposte e disordinate finché solo alla fine del libro emerge un ordine e il lettore riesce a ricomporre tutta la vicenda.

 

La gatta e il generale, pur avendo ricevuto molti meritati elogi è stato oggetto anche di aspre critiche. C’è chi attribuisce a Haratischwili la composizione di un testo pieno di coraggio, di passione e di tensione, e chi la accusa di aver messo insieme una sorta di polpettone ripetitivo e sciatto; chi paragona la storia a una tragedia antica e chi a una telenovela. Chi denuncia la mancanza di un editing attento, giacché molte sono le ripetizioni di clichés linguistici che si potevano evitare – è vero – e chi ammira l’uso vivido e plastico della lingua tedesca, di cui l’autrice coglie e evidenzia sfumature di senso che il parlante madrelingua più non vede. 

 

Io, che non faccio testo perché non sono una critica letteraria, faccio parte del gruppo degli ammiratori e di coloro che sono rimasti positivamente colpiti – ho trovato il suo modo di scrivere lirico, commovente, istruttivo, magico – e che come effetto collaterale si interessano da allora al Caucaso, e lo trovano dappertutto; come oggi, nella tensione conflittuale tra Armenia e Azerbaijan. 

Tra Europa, Stati Uniti e soprattutto Caucaso, in Georgia e in Cecenia, due stati confinanti, sono dunque ambientate le storie. Nel Caucaso sulle cui rocce Eschilo incatenava Prometeo, cui l’avvoltoio rodeva il fegato. Nel Caucaso o Colchide, il paese barbaro dove la maga Medea preparava i suoi filtri, dove gli Argonauti giungono alla ricerca del Vello d’Oro. Il Caucaso, territorio che nei primi decenni del Novecento è stato incorporato nell’Unione sovietica e che alle fine del secolo se ne è staccato faticosamente, cercando autonomia e indipendenza per alcuni singoli stati.

 

Il Caucaso terra di confine tra l’Asia e l’Europa, affascinante crocevia linguistico di lingue non indoeuropee né turche né semitiche, tra le quali si distingue il georgiano per essere l’unico a vantare una ricca letteratura, dalla quale Haratischwili traduce testi in tedesco. La giovane autrice ha scritto anche una tragedia su Elettra (Elektras Krieg/La guerra di Elettra, 2012) e una su Medea (Mein und dein Herz. Medeia/Il mio e il tuo cuore. Medea, 2007) che riguardano il confronto dal punto di vista storico, sociale, psicologico e politico della vita in due emisferi, l’ovest della Germania e l’est dell’ex Unione sovietica. Il destino comune a Medea, che lascia la Colchide con Giasone per poi essere da lui ingannata, tradita e respinta, e a Elettra, che nella Colchide alleva il fratello Oreste salvandolo dal patrigno Egisto, amante di Clitemnestra. Mentre Ifigenia si trova sulla penisola poco più a sud, la Crimea, o Tauride o Chersoneso, dopo il sacrificio del quale è la vittima, in Aulide. 

 

Donne, insomma, le eroine, pur negative come Medea, che condividono il destino di vivere in due mondi, Asia e Europa, le due grandi antagoniste che Eschilo associava rispettivamente al dispotismo e alla libertà. 

E donne sono Nino Haratischwili e tante altre scrittrici provenienti dal blocco ex sovietico che dopo un periodo di migrazione-integrazione sono passate a scrivere con successo in tedesco e che parlano al cuore di noi, nomadi tra stati, lingue e culture, elaborando le storie di vita loro e delle loro famiglie. Donna era, infine, la poetessa russa che funge da modello ed esempio alla scrittrice, Marina Cvetaeva: in nome suo, Haratischwili non vuole sprecare neanche una frase, neanche un rigo. Vuole invece, come forse avrebbe voluto anche la grande dame della lirica, trasformare la scrittura in cura e sollievo dell’anima

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