Foto/Industria: spazi, fotografie, pause

16 Ottobre 2015

Produzione, post-produzione, produttori, pausa, prodotti sono le sezioni che costituiscono la seconda edizione di Foto/Industria, la rassegna promossa dalla Fondazione Mast in collaborazione con il Comune di Bologna e la direzione artistica di François Hébel, per anni direttore delle Rencontres de la Photographie di Arles. Nelle quattordici esposizioni, viene rappresentato il mondo del lavoro passando per undici sedi storiche: dalla Pinacoteca Nazionale a Palazzo Pepoli, dallo Spazio Carbonesi al Museo della Musica, dal Mambo a Villa delle Rose. Inoltre nella sede del Mast, con la curatela di Urs Stahel, fondatore insieme all’editore Walter Keller e a George Reinhart del Museo della Fotografia di Winterthur, vengono presentate le opere dei finalisti del concorso GD4PhotoArt (Marc Roig Blesa, Raphaël Dallaporta, Madhuban Mitra & Manas Bhttacharya e Óscar Monzón) giunto alla quarta edizione, nato per promuovere l’attività di giovani fotografi, e una mostra di libri sull’industria provenienti dalla collezione di Savina Palmieri: Dall’album al libro fotografico. L’industria italiana in 120 volumi.

 

Viene subito da chiedersi qual è il senso di una biennale dedicata all’industria nel momento in cui il lavoro industriale con la fabbrica e l’uomo al suo interno sta scomparendo, come già testimoniava la precedente mostra Industria oggi da poco terminata al Mast. Forse il senso è che la fotografia, nata con l’industria, pur legando le sue sorti a quelle della produzione, nel seguirne i destini mostri contemporaneamente le contraddizioni legate al mondo industriale: lo sfruttamento dell’uomo, delle risorse naturali, i residui abbandonati nelle parti povere del pianeta, sino a fare addirittura intuire un punto di rottura nel sistema e nell’idea stessa di rappresentazione intesa nel senso di produzione, ovvero di produrre immagini destinate semplicemente a essere consumate.

 

Per questo nel percorso espositivo si può intuire un sentiero alternativo a quello della pura glorificazione dell’attività industriale, uno spazio dove lo sguardo di ogni fotografo tenta di affermare la propria innegabile singolarità. Così, osservando le fotografie scattate negli anni Trenta dal fotografo Hein Gorny che lavora per committenti quali Pelikan e Bahlsen, si intuisce il suo tentativo di coniugare le esigenze dell’industria con le teorie del Bauhaus, mentre nelle immagini di Léon Gimpel prevale l’aspetto artistico e sperimentale: intorno al 1920 egli impiega l’“autocromia”, il primo procedimento di fotografia a colori brevettato e commercializzato dai fratelliLumière, per immortalare i neon colorati con cui l’ingegnere fiorentino Jacopozzi, decora l’intera Parigi: la Tour Eiffel, il Moulin Rouge, le Galeries Lafayette

 

Hein Gorny, Senza titolo (Biscotti Leibniz), 1934 – 1938 ca. Hein Gorny Collection Regard

 

Poi si giunge agli anni Sessanta e Settanta. Gianni Berengo Gardin non mostra la fabbrica come tempio della produzione ma si sofferma sui volti degli uomini al lavoro nei grandi complessi industriali, i cantieri navali Ansaldo, l’Olivetti, l’Alfa Romeo, mentre Edward Burtynsky fotografa acciaierie, miniere, cave, saline, dall’Australia alla Cina, come effetto devastante della produzione sull’ambiente naturale, un’idea a sua volta portata all’eccesso da altri due fotografi: David LaChapelle, che costruisce luccicanti modelli in scala realizzati a mano per esplorare le infrastrutture della produzione del petrolio e mostrare l’impatto sulla società, e Hong Hao, la cui opera, My things, realizzata nel corso di dodici anni, consiste nell’eseguire la scansione di una serie di oggetti per creare opere fotografiche e riflettere sulla condizione umana nella moderna società consumista.

 

Gianni Berengo Gardin, Cantieri Navali Ansaldo, Genova, 1978. Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

 

Hong Hao, Contabilità 07 B, 2008. Courtesy Pace Beijing

 

E poi ci sono i fotografi che pongono l’uomo al centro dell’immagine: Pierre Gonnord indugia empaticamente sui volti degli ultimi minatori di carbone delle Asturie, individui soli e anonimi, afferma il fotografo, e tuttavia “consapevoli della propria identità, quando la nostra si fa evanescente”, mentre Neal Slavin si diverte a realizzare ritratti di gruppo, rappresentazioni legate all’esercizio di professioni e mestieri: ferrovieri, bibliotecari, danzatori, becchini, con un tocco di ironia e leggerezza.

 

 

Non mancano le suggestioni, ispirate dall’imponenza, ma anche dall’idea del movimento, dell’altrove (fuga dal mondo del lavoro?), che suggeriscono le fotografie dei mezzi adibiti al trasporto industriale. Winston Link, ingegnere divenuto poi fotografo, dal 1955 al 1959, raffigura una delle ultime grandi linee ferroviarie di treni a vapore degli Stati Uniti, la Norfolk and Western Railway, poco prima dell’avvento delle locomotive diesel. O i dettagli delle navi di Luca Campigotto al porto di Genova, i dock di New York e gli scorci industriali di Brooklyn, che non alludono solo alla globalizzazione delle comunicazioni, ma a spazi notturni che perdono ogni dimensione utilitaristica per divenire luoghi altri, contro-spazi, che trasformano anche l’immagine: in essa non prevale la funzione testimoniale, ma l’indice di un vuoto, in cui è possibile perdersi e sparire. Si giunge in tal modo a un'altra sezione inclusa nel percorso espositivo. Dopo la produzione, i prodotti, le persone, viene considerato un altro aspetto: il momento della pausa.

 

Winston Link, La locomotiva Hot Shot in direzione est, laeger, West Virginia, 1956. The Estate of O. Winston Link, courtesy Robert Mann Gallery

 

Luca Campigotto, Industry City, Brooklyn, 2007

 

 

Pause

 

La pausa è un tempo improduttivo, scandaloso. Attira l’attenzione sulla lentezza, su un altro modo di percepire il tempo: in pausa non si lavora, non si corre, non si salta da un luogo all’altro. È un momento che si contrappone all’azione, al fare, alla velocità, come testimoniano le immagini di due fotografi non professionisti: Kathy Ryan, da circa trent’anni a capo del servizio fotografico del New York Times Magazine e Jason Sangik Noh, chirurgo specializzato in oncologia. Per entrambi la scelta di uno spazio fotografico del tutto libero dall’ansia della produzione, diviene l’intervallo di un tempo sospeso, quello che Giorgio Agamben chiamerebbe una profanazione, un’apertura, una breccia nel tempo del lavoro. Poiché se consacrare (sacrare), scrive il filosofo, era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significa restituire al libero uso degli uomini, neutralizzare i dispositivi del potere, per cui l’attività che ne risulta diventa “un mezzo puro”, che mantiene la sua natura di mezzo, pur essendosi emancipato dal proprio fine. L’azione di fotografare durante una pausa dal lavoro potrebbe avere la valenza di un mezzo puro: la pausa che coincide con il tempo della fotografia che a sua volta si sovrappone al tempo del lavoro strappato e liberato dagli obblighi della produzione, scava un “buco” nel fluire del tempo, dove è possibile godere della propria riflessione: un supplemento di tempo, restituito dal tempo fissato nell’immagine.

 

Le fotografie di Kathy Ryan, scattate con il suo iPhone, ne rappresentano l’essenza. Si intitolano Office Romance. Sono immagini del venir meno, dello svanire a sé e al mondo, dell’assenza: le stanze del New York Times appaiono vuote, attraversate da fasci di luci ed ombre. Sui tavoli si vedono pochi oggetti: un vaso di fiori, un paio di occhiali, un’agenda rigonfia. Kathy Ryan si fa avvolgere da un ritmo lento, dalle stanze vuote, dalla città lontana e guardata dietro il vetro dell’edificio bagnato dalla pioggia, dai volti dei colleghi come presenze fantasmatiche. E poi si diverte a postarle su Instagram. “Tutto è cominciato un pomeriggio quando ho visto una saetta di luce lungo le scale del New York Time Magazine”, scrive la Ryan, “allora, ho preso il mio iPhone e ho scattato una foto. E poi ho cominciato a vedere immagini di continuo, il mio ufficio era pieno di incredibile bellezza e poesia”. E di vuoti, si potrebbe aggiungere, di silenzi, di momenti fissati dal potere immobilizzante della fotografia, che restituisce in questi istanti l’eco di un tempo ciclico, fisico e cosmico, dove la pausa e la sua immagina scandisce un ritmo del vivere in sintonia con l’alternarsi della luce e dell’ombra, del giorno e della notte, del lavoro e del riposo, della veglia e del sonno. Un tempo umano, come è profondamente umano un altro aspetto legato al tempo della vita, ovvero il suo lato oscuro: la morte.

 

Kathy Ryan, 6/7/2013, 6:49 p.m., “The New York Times”

                                             

Jason Sangik Noh si occupa di questo. Il suo progetto, Biografia del cancro, è stato recentemente premiato in Corea dalla Ilwoo Foundation e viene presentato in Europa per la prima volta. L’opera del medico-fotografo comprende referti scritti a mano, risultati di analisi, grafici e fotografie. Nella sua pausa egli si concede uno spazio in cui narrare la storia dei pazienti a partire dalla loro morte: si leggono gli appunti in inglese, la descrizione della malattia, l’avvicinarsi lento della fine, segnato dalla descrizione meticolosa della malattia. Le immagini sono quelle dei tavoli da espianto, o dei laboratori per l’analisi dei tessuti istologici, fotografati come se fossero opere puramente astratte. O quelle dei diari chirurgici dove accanto alla diagnosi scientifica, si vede la foto del paziente nel contesto della vita quotidiana. Persino gli organi vengono presentati come elementi di sculture immaginarie, in continua tensione tra vita e morte.

 

Jason Sangik Noh, Pancreas e milza, 2009. Courtesy of the VHS-MC Board of Ethics

 

Forse è davvero questa la forma della sua pausa: la possibilità di fissare in una narrazione verbo-visiva, uno spazio tra la vita e la morte, costituito dalle immagini dei malati a cui Sangik Noh attribuisce un nome, una storia e una traccia di memoria, quasi volesse tentare di prolungare l’esistenza di ogni uomo con cui viene in contatto, non attraverso la rimozione della morte e la rinuncia a qualsiasi tipo di elaborazione, ma al contrario mostrando l’inevitabilità della fine, con lo sguardo di chi cerca di opporsi, attraverso il suo lavoro di medico ma soprattutto con l’immagine fotografica, come se quest’ultima fosse una cura, contro la violenza della malattia e l’oblio della fine. Ecco che la fotografia, oltre a mettere in luce le contraddizioni del mondo in cui viviamo, riesce a restituire uno spazio di libertà, dove fermarsi a pensare, senza dover essere obbligati costantemente a produrre o a consumare.

 

 

 

@silvialake

 

 

La mostra:
FOTO/INDUSTRIA 2015: http://www.fotoindustria.it/
MAST: Dal 3 ottobre 2015 al 10 gennaio 2016
ALTRE SEDI: Dal 3 ottobre all’1 novembre 2015
Biglietto: Ingresso libero

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