Un saggio del biologo Roland Ennos / L’età del legno

8 Gennaio 2022

L’età del legno, il saggio del biologo britannico Roland Ennos, è il frutto di due tendenze problematiche dei nostri tempi: da un lato, la nuova religione della natura, cioè il tentativo sentimental-ormonale di “ricucire” la relazione con la “natura violata”, dall’altro, il ricorso a teorie tuttologiche, che culminano di recente negli insopportabili libri di Harari con la loro propensione a spiegare la storia dell’umanità tout court. In verità tali bestseller ritornano in modo ciclico, vedi il successo delle Kulturgeschichten di Egon Friedell negli anni Venti.

Partendo dalla funzione e dalla storia degli alberi, Ennos ricostruisce quattro tragitti diversi: una prima tappa riguarda la storia animale della relazione con gli alberi, una seconda la nascita della civiltà, una terza l’epoca dell’industrializzazione, mentre una quarta tratta della situazione attuale.

 

La densa prima parte, dedicata all’evoluzione dell’uomo in contatto con gli alberi, parte dall’epoca in cui preominidi e ominidi vivevano nelle canopie dei boschi, fornisce un’analisi delle mani e delle unghie, e identifica nella capacità di districarsi fra i rami di un albero un fattore principale per l’evoluzione dell’intelligenza. Seguono ricostruzioni, spesso basate su studi scientifici recenti, della discesa dagli alberi, dell’utilizzo del bastone di scavo, della scoperta del fuoco, della perdita del pelo e dello sviluppo di attrezzature (lignee), fino ad arrivare all’arco e alla freccia. Non mancano, ovviamente, né la celebre “semiarboricale” Lucy, né l’idea che la posizione eretta di noi umani e dei nostri antenati preumani risulti proprio dalla frequentazione dei rami di alberi delle foreste primeve. Peccato che l’autore – tipico rappresentante di una monocultura anglo-sassone che ignora quasi tutto ciò che è stato pensato e pubblicato in altre lingue, per esempio, quando tratta del ruolo della mano, gli studi di Leroi-Gourhan – disconosca quasi completamente fonti come Vitruvio (!), che ben prima di L’intelligenza del fuoco del 2009, citato da Ennos, aveva già parlato della scoperta del fuoco (collegandola, guardo caso, alla costruzione delle prime abitazioni fatte con tronchi d’albero). 

 

Nella seconda parte, sulla costruzione della civiltà, Ennos copre un vario campo di argomenti, tutti di grande interesse antropologico. Vengono discussi il disboscamento, la scoperta dell’ascia, la costruzione di barche e piroghe, la costruzione delle prime case, le longhouses, ecc. Peccato però che, anche qui, l’autore accumuli le generalizzazioni speculative (del tipo: la capanna è la versione capovolta del nido), tratti di un evento così fondamentale come l’emergenza dell’agricoltura in una breve pagina, mentre nel capitolo dedicato al disboscamento ometta ogni traccia del classico di Clarence Glacken, Traces on the Rhodian Shore.

 

 

L’accumulo di tantissimi riferimenti tecnici, accanto a frecciate contro gli archeologi, e ricorsi a Wikipedia (“Stando a Wikipedia…”) distrugge ciò che Ennos ci offre, in parte, e che avrebbe potuto offrirci in toto, se avesse veramente fornito una storia culturale del legno attraverso i secoli. Certe sue pagine avrebbero sicuramente tratto vantaggio se l’autore avesse preso in considerazione il misterioso Vulcano e Eolo di Piero di Cosimo, per non parlare della vita tra i rami di un albero nell’ottica di Italo Calvino.  

 

Ennos ci porta con ritmo serrato dalla fusione dei metalli alla scoperta della ruota, alla costruzione di sentieri e strade, ai sistemi primitivi di trasporto, ai primi ponti e agli strumenti sempre più sofisticati per la lavorazione del legno. Seguono poi osservazioni sui tumuli e sulle cattedrali, senza tralasciare il fatto che alcune civiltà della pietra siano scomparse prima di quelle del legno. Laddove la sua analisi diventa interessante, per esempio quando tratta della sostituzione della quercia con il tiglio, collegandola a fattori climatici, economici e pratici, la “storia materiale” dello sviluppo storico resta comunque approssimativa e “giornalistica”.     

 

L’età del legno continua poi in questa chiave generalista, portandoci dall’estrazione della torba nei Paesi Bassi del Seicento allo sviluppo del motore a vapore, e da lì alla produzione di ghisa, al ferro battuto, ai chiodi, alle viti e alla produzione di carta. Seguiranno l’acciaio, il calcestruzzo, il cemento armato e la plastica. Anche qui l’autore enumera più che discutere, ed è veramente una occasione sprecata: un’affermazione come quella che l’età del legno sia entrata in crisi intorno al 1600 meriterebbe una discussione più accurata. Visto che tutte le micro-storie citate (anche quella dell’utilizzo del legno nei primi aeroplani, o del legno lamellare nell’architettura contemporanea) sono state già indagate (non è vero che il mondo scientifico abbia dimenticato in genere la funzione del legno), è proprio qui che il libro avrebbe potuto fornirci delle ipotesi interessanti.

 

Invece no, e quanto segue non migliora la situazione: nella parte conclusiva Ennos parla del beneficio che possiamo trarre dal nostro rapporto con gli alberi (dobbiamo forse tutti seguire Mauro Corona?); del piacere di stare nei boschi (non ci voleva questo libro perché lo sapessimo); del lavorare il legno che rende felici, dei bambini che, esposti a questa materia, diventano più tranquilli. E cosa dire del fatto che gli alberi in città “fanno anche salire i prezzi immobiliari e limitano gli atti di vandalismo” (236)?

L’ossatura fornita dall’autore rappresenta comunque un buon punto di partenza: aggiungendo l’elemento culturale mancante (per esempio e soltanto nel contesto nord-americano, l’importanza del legno nel Walden di Thoreau, nelle opere di Thomas Cole, come simbolo di Earth First), il lettore potrà creare forse il libro che avrebbe potuto essere scritto.

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