La sfida della sociologia letteraria / La letteratura e il mondo

18 Dicembre 2017

Di cosa parla la letteratura? La teoria letteraria si è posta ripetutamente questa domanda nel corso dei secoli, da Aristotele in poi. Francesco Orlando, nelle sue lezioni universitarie su letteratura e psicoanalisi, ripeteva spesso e con veemenza che “la letteratura parla del mondo”. Lo diceva principalmente in polemica con l’idea che la letteratura sia completamente autoreferenziale, e parli soltanto di se stessa, così diffusa nell’alveo del post-strutturalismo e del decostruzionismo, che agli occhi di Orlando apparivano come perversioni teoriche.

“La letteratura parla del mondo” non era un’affermazione scontata per chi, come Orlando, ha passato la vita a spiegare che l’arte è il frutto delle dinamiche psichiche. Ci si sarebbe potuti aspettare da lui un più circoscritto: la letteratura parla dell’essere umano, dell’individuo, della mente. Un più specifico: parla delle pulsioni. Parla sempre e solo di sesso, perfino. E invece Orlando era ostinatamente fedele all’idea che la letteratura abbia a che fare con la realtà sociale. C’era sicuramente, nella sua ostinazione, la traccia di un’intenzione politica. Un tentativo di tenere insieme Freud e Lukács, se non proprio Freud e Marx. Ma c’era anche un’indicazione viva, direi pedagogica: la letteratura acquisisce senso solo guardando a tutto ciò che accade al di là del testo, oltre gli steccati disciplinari. 

 

Le parole di Orlando mi sono tornate in mente leggendo il dialogo tra Zygmunt Bauman e Riccardo Mazzeo pubblicato da Einaudi col titolo Elogio della letteratura, nel quale l’idea che la letteratura parli del mondo viene verificata facendola reagire con il modo in cui del mondo parla la sociologia. 

Seguendo la traccia di eterogenee suggestioni e intuizioni letterarie, Bauman e Mazzeo costruiscono una mappa del presente, dei suoi nodi e delle sue crepe, delle forze che lo attraversano e di quelle che lo opprimono. Una geografia dinamica in cui letteratura e sociologia offrono sguardi convergenti e approcci integrati al “problema umano”. 

 

Non si tratta semplicemente, suggerisce Bauman, della cooperazione tra due discipline sorelle; si tratta della coimplicazione di due gemelle siamesi, unite prima di ogni possibile differenziazione, rese inseparabili dalla condivisione di organi vitali. Opponendosi ai tentativi di assegnare la sociologia al dominio delle scienze esatte, di trasformarla in un labirinto di procedure e protocolli di misurazione dell’ovvio (ciò-lo-so-già era il perfido anagramma di sociologia suggerito da un poeta), la sociologia di Bauman e Mazzeo afferma la propria appartenenza ai saperi qualitativi e discorsivi, in grado di formulare, proprio come la letteratura, «verità essenzialmente contestate» (secondo il refrain che Bauman prende in prestito da Whitehead), e contestabili; tanto più efficaci quanto più divergono dalle opinioni e dai comportamenti medi, e non si limitano a constatarli. 

 

La sensibilità qualitativa di questo strumento di osservazione, che si propone come il contrario della statistica, permette di inquadrare una serie di sintomi dell’attuale sofferenza del corpo sociale. L’emergenza del discorso dell’odio, e l’equilibrio sempre più incrinato tra i principi sociali di tolleranza e l’intolleranza degli individui, vengono messi a fuoco attraverso le poesie del criminale di guerra Radovan Karadžić, oppure ricorrendo alla fenomenologia della psiche fascista delineata da Jonathan Littel in Le benevole. L’incapacità della struttura sociale di prendersi cura dei suoi elementi più deboli e fragili è messa a contrasto con l’opera e l’esperienza di uno scrittore come Affinati, e con il radicalismo di Bergoglio. La onnipresente dislocazione del sé, l’odierna continua produzione di identità frammentate e delegate viene ricondotta alla metafora della gravitazione intorno a un “centro vuoto” nella quale Calvino sintetizzava la condizione contemporanea. E ancora la figura del padre, testata in molte direzioni dalla letteratura psicoanalitica e sociologica recente, si presenta come il frattale in cui è possibile osservare tutti i conflitti concentrici tra l’individuo e i principi d’ordine e gli orizzonti di totalità in cui è chiamato a inserirsi.

 

La sindrome da interregno che ci fa apparire il passato irrimediabilimente perduto, e il futuro paurosamente lontano, viene confrontata con due antitetiche configurazioni letterarie della libertà: l’assoluta accettazione dell’esistente praticata da Robert Walser; la ribellione assoluta figurata da Albert Camus. Karl Kraus, e la ripresa del suo pensiero tentata recentemente da Jonathan Franzen ne Il progetto Kraus, vengono utilizzati per denunciare i pericoli delle forme contemporanee della comunicazione, dai blog ai social media, forme iper-semplificate destinate a generare un indecifrabile rumore. Le nostre esistenze digitalizzate, immerse nelle bolle informative create dalla cerchia dei contatti, vengono messe in relazione all’esponenziale aumento di diagnosi dei disturbi dello spettro autistico. La condizione autistica generalizzata si rispecchia in una macrometafora mitologica: l’umanità ha smesso di identificarsi con Pigmalione, il produttore che plasma la materia e ne dispone, per riconoscersi in Narciso, il consumatore della propria immagine. 

 

Letteratura e sociologia dunque collaborano a demistificare fenomeni culturali che hanno assunto le sembianze immutabili di fatti naturali. Nella pervasività della cultura del consumo, in particolare, e nella distruttiva rapacità dei mercati, Bauman e Mazzeo riconoscono la “forma simbolica” del presente, che ha assunto l’inesorabilità di una condizione orginaria, anche a causa delle complicità e delle impotenze dell’azione politica.

 

Illustrazione di Marta Slawinska.


Contro questa mistificazione l’impiego sociologico della letteratura cerca di costruire consapevolezza stabilendo connessioni tra i troubles, i problemi individuali che appaiono a ognuno insormontabili perché incondivisibili, e le issues, problemi generali e collettivi nei quali l’individuo fatica a riconoscere la propria esperienza singolare. La sfida della sociologia letteraria sta nel garantire all’individuo un accesso ai problemi collettivi, nel costruire un’interferenza reciproca tra il singolare e il plurale, il soggettivo e l’oggettivo. Un compito che rende necessario un allargamento dello sguardo, una focalizzazione in “campo lungo”, una visualizzazione comprensiva del fenomeno umano, della rete di relazioni e interazioni che determinano l’essere dell’individuo nel mondo. Questo sguardo si colloca a una distanza intermedia, assume un posizionamento in grado di vedere allo stesso tempo l’isola e l’arcipelago, lontano dalla miopia della “soggettiva” e dall’illeggibilità della visione cosmica. 

 

Si tratta di una posizione conoscitiva trasversale molto diffusa attualmente, seppure con significati e declinazioni diversi: dalle mappature e cartografie dei fenomeni letterari proposte da Franco Moretti, all’indagine sulla relazione tra l’essere umano e l’ambiente in una prospettiva “ecologica” (è il caso del libro recente di Niccolò Scaffai Letteratura ed ecologia), alle posizioni del “post-umanesimo” (per esempio in Rosi Braidotti) e del “nuovo materialismo” (proposto da Jane Bennett) che invocano un’alleanza tra l’essere umano e la materia intesa spinozianamente come sostanza vivente. Una simile «profondità di campo media» è stata assunta da Paolo Godani nei due suoi libri più recenti (Senza padri e La vita comune) per introdurre la necessità di un punto di vista sull’umanità che non sia né universale né particolare, ma sensibile ai tratti comuni e transindividuali. Quale che sia l’approccio e il senso della rifocalizzazione, l’utilizzo dei testi letterari risulta ogni volta decisivo per la rimessa a fuoco dell’umano. 

 

Queste esperienze, compresa quella sociologica, rilanciano su un’altra domanda essenziale, troppo spesso elusa perché data per scontata: a cosa serve la letteratura? E danno una risposta diversa da quella tradizionalmente umanistica che vede la letteratura come modello educativo esemplare, sublimazione estetica, specchio delle virtù civili. La letteratura serve in quanto favorisce un aggiustamento nella percezione dei fenomeni, perché innesca processi di disvelamento e di ri-orientamento del sentire. La letteratura non solo parla del mondo nel senso del rispecchiamento, ma parla al mondo per modificarlo, per riconfigurarne l’abitabilità. 

Proprio in relazione al problema dell’utilità della cultura mi sembra interessante discutere anche quella che ho avvertito come la nota stonata di un libro per il resto così attentamente accordato, ovvero una contrapposizione troppo schematica tra cultura alta e pseudocultura, tra difesa della parola autentica e rifiuto del linguaggio comune, tra profondità del pensiero e superficialità del consumo; tra, soprattutto, esistenza online ed esistenza offline, con una conseguente semplificazione dei fenomeni connessi agli ambienti digitali che a volte sfiora l’incomprensione. 

 

Non è per segnalare dei difetti, tuttavia, che è interessante notare questo basso continuo del libro, quanto per riflettere su come i saperi tradizionali, di cui sociologia e letteratura fanno parte, i saperi di prima dell’ultima mutazione tecnologico-cognitiva, possano rispondere alle trasformazioni in atto. Su come possano scrollarsi di dosso una certa loro lentezza di elaborazione che sembra collocarli sempre un passo indietro rispetto alle pratiche con le quali si confrontano. Perché se da un lato l’inattualità del linguaggio letterario si pone necessariamente, e produttivamente, in antitesi ai linguaggi banalizzanti e soporiferi del presente, dall’altro il trinceramento nel “valore assoluto” dell’alta cultura rischia di trasformare l’analisi in invettiva, e di offuscare la comprensione. La necessità di difendere la letteratura come pratica civilizzante ed educativa, e come luogo indiscusso dell’autenticità e della profondità contrapposta alla mistificazione e alla superficialità, rischia di consegnare una visione manichea del reale. E di mancare la rilevazione di alcune linee di forza. 

 

Faccio un solo esempio, tratto dal capitolo nono. Mazzeo e Bauman indicano il fenomeno dei romanzi per smartphone vertiginosamente diffusi in Giappone come il punto di estrema degenerazione del linguaggio letterario, che appare in queste “opere” impoverito e banalizzato, contaminato dall’incultura delle autrici, prevalentemente donne, e dall’inadeguatezza del supporto e della situazione di fruizione. Ma quanti elementi di interesse, sociologici e antropologici, restano trascurati in questa lettura liquidatoria! Questi rozzi feuilleton digitali, queste “forme semplici” della contemporaneità parlano di una insopprimibile necessità della narrazione, della volontà persistente di trattenere una forma di “letteratura” dentro le pieghe dell’esistenza quotidiana; potrebbero essere perfino gli embrioni, le prove accidentate, di un’arte nuova. 

 

Valorizzando tali emergenze, simili energie comunque presenti e persistenti, la sociologia letteraria potrebbe offrire una comprensione del presente che sia attiva e non solo reattiva. Insistere sull’idea dell’irrealtà diffusa, della fine dell’esperienza, della liquefazione ed evaporazione del reale, rischia di occultare la realtà dura e concreta che anziché essersi volatilizzata continua a esistere, e anzi insiste sotto la pressione dei messaggi omologanti, pulsa e grida la sua sofferenza, ma anche la sua incomponibile, esorbitante vitalità, la sua potenza

Ignorare le potenze del presente significa trasformare l’analisi in una profezia depressiva che rischia di autoavverarsi, dare priorità alle passioni tristi, nichilistiche e distruttive: non a caso nel libro compare in posizione rilevata il nome di Michel Houellebecq, forse lo scrittore che più ossessivamente ha rappresentato i punti morti della civilità occidentale (ma allo stesso tempo mostrando delle potenziali, paradossali vie di liberazione dalle autoreclusioni cui si è condannato l’uomo – nel senso proprio del maschio, prevalente oggetto di interesse per Houellebecq – occidentale). 

La funzione critica dell’inattualità, che addita la cecità delle magnifiche sorti e progressive, si esaurisce subito prima di diventare risentimento contro il presente. Il modo di riscattare e accelerare la lentezza tradizionale del sapere, del resto, è suggerito da Mazzeo nel capitolo conclusivo: restare fedeli alla pratica dell’«immaginazione nell’analisi», di una scienza proiettiva che non smette di immaginare scenari alternativi, di contrastare la naturalizzazione dello status quo attraverso la perseveranza del domandare. 

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