Marco d’Eramo, Dominio. / La rivoluzione neofeudale

18 Gennaio 2021

Nel concludere la sua Teoria generale, Keynes constatava che “le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga”. Ovviamente auspicava che prevalessero quelle “giuste” (alla cui dimostrazione aveva dedicato la monumentale opera), ma si diceva “sicuro che il potere degli interessi costituiti si esagera di molto, in confronto con l’affermazione progressiva delle idee [...]. Presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”. Ma che dire delle idee a sostegno degli interessi costituiti? Dominio, l’ultimo libro di Marco d’Eramo uscito alla fine del 2020 per Feltrinelli, è la storia di come gli interessi costituiti al centro dell’impero – gli Stati Uniti – hanno combattuto la guerra delle idee, a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo: usando le idee come armi della “guerra invisibile dei potenti contro i sudditi”. Un racconto che parte dalla formazione della strategia, dai suoi personaggi, i suoi tanti soldi. Che hanno finanziato una rivoluzione. Perché “non c’è solo la rivoluzione dal basso contro l’alto, ma anche quella dall’alto contro il basso”. Per inquadrare la quale, d’Eramo inizia dalla famosissima citazione del miliardario Warren Buffett: la guerra di classe c’è, e l’abbiamo vinta noi (i ricchi).

 

Ma questa è cosa nota, indagata e raccontata soprattutto dopo la crisi finanziario-economica del sistema che aveva chiuso vincendo il Novecento. Quel che è meno noto è che “è stata una guerra ideologica totale. Con la sua pianificazione, le strategie, la scelta del terreno dello scontro, l’uso delle crisi”, scrive Marco d’Eramo; che intende raccontarla “partendo dagli Stati Uniti, “perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi sono loro sudditi, più o meno docili, più o meno riottosi”. Dunque sin dal prologo è chiaro il campo in cui si indaga la battaglia e il suo esito: il centro dell’impero sono sempre gli Stati Uniti, anche dopo l’ascesa cinese; i dominanti hanno vinto la loro rivoluzione “dall’alto” - e la grande recessione del 2008, con le sue conseguenze, non ha scalfito la vittoria ma solo, secondo la tesi del libro, cambiato alcune modalità del “dominio”. 

È negli Stati Uniti che parte negli anni ’70 la “guerra ideologica totale”, battezzata dai suoi stessi attori come “contro-intellighentsia”, mutuando il concetto dalla nozione militare di controguerriglia. La ricostruzione di d’Eramo non ha niente a che vedere con dietrologie e complottismi, né con poteri oscuri e servizi segreti – ci saranno anche quelli, a un certo punto, ma tutto inizia e si sviluppa alla luce del sole, con un pugno di miliardari che seguono un appello accorato per la salvezza “del sistema americano di libera impresa” (il Memorandum di Lewis Powell per la Camera di Commercio Usa nel 1971) e mobilitano le loro fondazioni, le loro attività filantropiche, i loro think tank e parte dei loro capitali per riprendersi il dominio sul terreno delle idee. Il sistema universitario americano è particolarmente permeabile allo scopo, basta che le fondazioni lautamente alimentate dai magnati – e anche da un regime fiscale super-favorevole – finanzino solo determinate linee di ricerca e corsi. Lo dice chiaramente una lettera di Henry Ford riportata alla fine del libro. Con questa lettera Ford si dimette dalla Fondazione fondata dai suoi avi, che stava finanziando a tutto spiano attività liberal:

 

“La Fondazione esiste e prospera sui frutti del nostro Sistema economico. I dividendi di un’impresa competitiva rendono possibile tutto ciò. Una fetta significativa dell’abbondanza creata dall’imprenditoria statunitense permette alla Fondazione e a istituzioni simili di compiere il loro lavoro. In effetti la Fondazione è creatura del capitalismo (…) Non sto facendo il padrone duro e puro che pensa che tutti i ‘filantropoidi’ siano socialisti e che tutti i professori di università siano comunisti. Sto solo suggerendo che vale la pena di preservare il sistema che rende la Fondazione possibile”.

 

 

Se la contro-intellighentsia è a tutto campo, particolarmente importanti sono i suoi successi nei settori dell’economia e del diritto. Il racconto di d’Eramo ripercorre le fortune della scuola di Chicago, si concentra sulla dottrina della Law and Economics e su quei pensatori che l’hanno resa famosa. Determinando una doppia rottura tra liberalismo e neoliberalismo: sul piano politico (il liberalismo classico non flirtava con i dittatori come fecero i Chicago Boys con Pinochet) e su quello filosofico-epistemologico, con la sostituzione della centralità del mercato con quella dell’individuo-proprietario. In sostanza, con la pretesa dell’economia come “scienza imperiale”, che dà gli strumenti per capire tutti i comportamenti umani. E regolarli, sulla base degli incentivi. Un esempio? “The economics of baby shortage”, nel quale Elizabeth Landers and Richard Posner argomentarono la superiorità della libera compravendita dei bambini come sistema più efficace di adozione. Ma anche tutte le teorie sui mercati dei diritti di inquinamento, che sono stati effettivamente messi in pratica. E in generale tutti i casi in cui le relazioni di scambio tra i proprietari diventano la base delle teorie su come funziona la società (e come dovrebbe funzionare), ben oltre il mercato delle merci in senso stretto.

 

Così si è costruito il “dominio”, che poi d’Eramo indaga e racconta nei successivi del libro, che vanno dalla giustizia ai “genitori con la pistola” (la descrizione del ruolo proprietario della famiglia nella scuola parla molto anche a noi…), dalla tirannia dei filantropi a big tech, dal debito all’ambiente. E alla politica, “bizzarra attività” chiamata infine a controllare uno Stato che è asservito al “dominio”, e dunque essa stessa diventa un mercato con la corruzione legalizzata delle lobbies. Alla lettura di ciascuno il compito e il piacere di immergersi in tutti i fatti e documenti storici, noti e meno noti, che compongono il mosaico del “dominio”. Anticipiamo qui solo un punto, che potrebbe essere di cesura e invece per l’autore non lo è, ossia la crisi iniziata nel 2007 e il suo seguito di grande recessione: lungi dall’essere una smentita del trentennio precedente (la vittoria ideologica dello Stato minimo e del neoliberalismo), è stato uno dei tanti casi nei quali lo Stato si è riconfigurato per salvare il Capitale, è la tesi di d’Eramo. Che accenna alla stessa conclusione per la crisi in corso, durante la quale ha concluso il lavoro del libro: con la pandemia del 2020 “i mercati si sono ritirati sul balcone a guardare gli Stati che si affannavano a evitare crisi sociali e s’indebitavano fino al collo per ‘permettere ai mercati di ripartire’. Anche in questo caso decine di migliaia di miliardi sono state riversate sulle economie mondiali, per non far crollare tutto l’edificio”.

 

Almeno nell’epoca feudale i baroni venivano chiamati a pagare qualcosa quando c’era da fare una guerra, mentre oggi nessuno chiede di versare un contributo straordinario ai signorotti (“il marchese di Boeing, l’arciduca di Facebook, il principe di Google, il langravio di Amazon”), scrive d’Eramo. Che dunque mostra di credere assai poco alla pressione politica mondiale sui monopoli tech – che peraltro è accompagnata anche da un ripensamento teorico dell’evoluzione della dottrina antitrust americana, plasmata proprio dalle ideologie e scuole di pensiero contestate nel libro. E più in generale, non vede nella pandemia un evento che costringe a ripensare il rapporto tra Stato e mercato, tra interesse collettivo e azione individuale: cosa che sta peraltro accadendo, nei pensatoi delle istituzioni internazionali, dei governi, delle banche centrali, delle stesse università. Ma quelli che per molti sono annunci di un cambio di paradigma, nella lettura del “dominio” sono pannicelli caldi per temperare gli acciacchi del capitalismo.

 

Dunque, conclusioni pessimiste? Non del tutto, ma se qualche cambiamento potrà avvenire sarà solo con il conflitto. Qui ricorriamo alle conclusioni della recensione del libro fatta da Guglielmo Ragozzino su sbilanciamoci.info: “Ecco, Machiavelli l’ha detto: ‘le buone leggi nascono dai tumulti'”. Un lavoro titanico ci attende: imparare come si fanno i tumulti.  “Ma ricordiamoci che nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto, proprio come noi ora”. 

 

Marco d’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli 2020.

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