Conversazione con un divo diverso / Lino Guanciale: utopie praticabili

20 Dicembre 2018

È uno degli attori più amati dell’ultimo decennio, una figura singolare che attraversa teatro, cinema e televisione con la leggerezza degli attori bravi e belli a cui riesce tutto bene e il peso specifico di un artista, attore-autore, che macina chilometri su e giù per l’Italia, tra tournée, reading e incontri, perché nel suo mestiere insegue una visione del mondo. Rappresentante d’istituto ribelle e militante già ai tempi del liceo scientifico ad Avezzano, dov’è nato, studente di lettere alla Sapienza di Roma prima, e diplomato all’Accademia Silvio d’Amico di Roma poi, Lino Guanciale ha recitato per Luca Ronconi e per Gigi Proietti, per Woody Allen e Pappi Corsicato, Renato De Maria e i fratelli Taviani, mentre allenava il gusto per la dialettica politica e per la grande letteratura, per le domande sul passato e sul presente che interrogano il futuro. Negli ultimi quindici anni lo abbiamo visto omaggiare Edoardo Sanguineti, portare in scena Bernard-Marie Koltès, parlare di Bertolt Brecht nelle scuole, attraversare città, biblioteche e piazze, carceri e circoli sociali, con cene-spettacoli, laboratori e letture di grandi romanzi, a caccia, con i compagni del gruppo di attori di Emilia Romagna Teatro diretto da Claudio Longhi, di un teatro che dalla periferia del discorso culturale potesse riscoprirsi cuore di un umanesimo nuovo, riconvocare la gente intorno alle idee, alla conoscenza, a una concezione moderna di libertà.

 

Alla ricerca, insomma, di una rinnovata fiducia nella radicale trasformabilità di un mondo in piena epidemia di realismo capitalista. Nell’ultimo anno, nelle stesse sere in cui sui Rai Uno andava in onda come protagonista di fiction seguitissime accanto a figure nazional popolari come Vanessa Incontrada, Alessandra Mastronardi e Gabriella Pession, calcava i grandi palcoscenici italiani, per interpretare il Lulù Massa del famoso film di Elio Petri e ragionare di lavoro e alienazione; festeggiava l’avvio della stagione dell’Arena del Sole di Bologna leggendo Camus, Borges e Sciascia per parlare di fantasia e libertà con Loredana Lipperini; raccontava storie di mare, di porti e di speranza al Castello di Santa Severa per Racconti in blu. Massimamente appartato e massimamente esposto, Guanciale rappresenta oggi un ponte raro, forse unico, tra la tv generalista (e il suo pubblico) e la ricerca teatrale. La sua parabola colpisce perché si colloca lontano anni luce da quella ben più ricorrente dell’attore televisivo che per vanità si tuffa in improbabili esperimenti di prosa trombonesca, ma soprattutto perché non trasforma mai le sue letture, le sue ricerche, il suo talento intellettuale, in decorazione esotica di una carriera pop. Semmai il contrario, con insolita intelligenza. Lo abbiamo intervistato in occasione della consegna a Roma del Premio che l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro gli ha appena assegnato per la sua interpretazione di Lulù Massa ne La classe operaia va in paradiso prodotto da Ert per la regia di Longhi, in attesa di conoscere, il 7 gennaio, l’esito dei Premi Ubu, ai quali è candidato come miglior attore per lo stesso spettacolo, ancora in tournée a partire dalla prossima primavera. 

 

Che Dio ci aiuti, fiction Rai.


Che effetto fa essere premiato dai critici di teatro e più in generale esaltato dal mondo della ricerca teatrale proprio mentre sei al massimo della tua popolarità televisiva? 

Mi commuove, perché casa mia è il teatro, tutto quello che è venuto dopo era uno strumento, non un fine, e se l’ho cercato è anche perché mi sembrava ci fosse dell’utile da trarne nell’ottica di erodere steccati e attirare nelle maglie del teatro un pubblico più ampio. Il fatto che le istituzioni che incarnano e rappresentano il mondo teatrale e ne raccontano la storia e ne tramandano la memoria riconoscano il percorso che io e miei compagni abbiamo fatto ha un significato importante per me. Premiando il mio lavoro per La classe operaia premiano un percorso fatto con altre persone, riconoscono non solo una performance, e nello specifico la mia, ma un’idea di teatro che si fa carico di un’enorme responsabilità politica e sociale. 

 

Credi davvero che il teatro possa incidere ancora sulla realtà?

Certo che ci credo. Il teatro può veramente cambiare il mondo perché è un posto dove si costruisce apprendimento radicale. Forse l’unico. Lo sapevano bene quelli che hanno utilizzato questo linguaggio all’interno di metodi educativi particolarmente coercitivi, come i gesuiti. È l’unico luogo dove si può costruire ascolto vero, integrato, in cui nessuno dei canali con cui ci rapportiamo all’esistente rimane escluso. Frequentando ambiti diversi e linguaggi vari, dal cinema alla televisione, quello che testo quasi ogni giorno è che solo attraverso il contatto fisico e diretto con le persone si può sfruttare fino in fondo il potenziale della recitazione. 

 

Non tutto il teatro, però, si può permettere di rivendicare questo potenziale. 

Naturalmente. Il teatro cambia il mondo a patto che uno faccia teatro per cambiare il mondo. Non si può prescindere dall’intenzione. Con chi calca il palcoscenico per nobilitare altri percorsi, o con i più moderni tromboni, la cui genìa sembra destinata a non morire mai, non succede niente. Il teatro agisce sulle strutture umane e sociali solo se elabora le sue forme e la gerarchizzazione dei suoi contenuti in funzione di un fine, magari parziale, ma che rientra in un obiettivo più grande: modificare lo stato delle cose.

 

La classe operaia va in Paradiso, regia di Claudio Longhi, produzione Ert, 2018.


Modificare lo stato delle cose attraverso un teatro che allena lo spettatore a osservare e capire, a perseguire la libertà all’interno di un orizzonte materiale considerato modificabile, come diceva Bertolt Brecht. L’autore tedesco è uno dei drammaturghi e dei teorici che hanno segnato maggiormente il novecento e che tu stesso hai frequentato di più. È ancora valido ciò che ha scritto? È ancora possibile avere fiducia nella dialettica, nella possibilità di un processo di comprensione e crescita basato su un confronto logico e razionale tra forze diverse, mentre linguaggi di tutt’altra natura colonizzano il nostro immaginario in modo ben più pervasivo? Insomma, come la mettiamo con il fatto che una puntata di Black Mirror produce effetti sull’immaginario collettivo oggettivamente più intensi rispetto a uno spettacolo teatrale o a un libro, anche se magari attingono allo stesso archetipo? 

Non basta uno spettacolo. La mia visione, a cui sono fedele da anni, sia che si tratti di lavorare con il gruppo storico con cui questa visione è stata elaborata, cioè Claudio Longhi e i compagni che intorno a noi si sono raccolti nel tempo, sia che io faccia spettacoli con altri, ma portandomi addosso la mia prassi, è che attorno a uno spettacolo deve esserci altro, altri pensieri, altre attività. Il teatro non può esimersi dall’investirsi di una missione culturale, e se da ateo uso la parola ‘missione’ non lo faccio a caso. È finito da un pezzo il tempo in cui gli artisti potevano permettersi di aspettare che spettatori per i quali il teatro significava già di per sé qualcosa arrivassero a sedersi in platea certi di trovarvi un valore, perché questo nesso è disperso. Se Umberto Orsini poteva ancora dire che a trent’anni si augurava di starsene all’Eliseo aspettando che di sera il pubblico andasse a vedere le cose belle che avrebbe fatto, noi non ce lo possiamo nemmeno sognare. Oggi il teatro è chiamato a uscire dalle proprie mura, ad andare incontro a una comunità dispersa di cui si trova però ad essere potenziale centro, ancora ignorato. Ogni epoca storica ha caratteristiche specifiche, nessuna prassi ha un valore assoluto, quindi quello che dico riguarda specificamente il presente, e io penso che oggi il teatro debba assumersi pienamente la responsabilità di essere uno dei polmoni educativi delle nuove generazioni. Deve impegnarsi a stabilire rapporti con le scuole della città in cui sorge e mandare nelle classi i propri attori. I quali, naturalmente, devono essere intellettuali di valore, organizzatori di sé stessi e del proprio percorso, per sostenere la grossa responsabilità di contribuire alla formazione di persone che non solo vadano a teatro, ma che ci vadano in un certo modo, e non per mangiarsi uno spettacolo come si mangia qualunque cosa in questo nostro tempo segnato da una matrice culturale compiutamente capitalistica. Insomma, se il teatro non incontra le persone, o meglio, se non va a cercare chi non lo stava cercando, ha già perso. 

 

E la nostra generazione, nel nostro occidente, sta perdendo? 

Negli ultimi trent’anni abbiamo camminato come i ciechi di Bruegel, mano sulla spalla dell’altro, ciechi che guidavano altri ciechi, in fila verso quello che neppure si riconosceva come catastrofico destino e che invece lo era. Eppure io vedo segni di un’inversione di tendenza, o almeno li vedo nelle città in cui questo lavoro ho avuto modo di farlo. E vedo che lo stesso lavoro lo fanno sempre di più, in modo sensato, anche altri artisti e teatri in tutta Italia e in Europa. 

 

La porta rossa, fiction Rai.


Il filosofo anglosassone Mark Fisher ha scritto che è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Come facciamo i conti con un orizzonte così?

Quando mi pongo questo problema respiro, e penso a certe parole di Antonio Gramsci e ad altre di Marc Augé. Del primo rievoco quei passi in cui dice che la via della rivoluzione è fatta di tanta pazienza, del cammino di numerose generazioni che vanno in una stessa direzione e che erodono pian piano i sistemi, possibilmente utilizzando le vie più democratiche, quelle che pagano di più in prospettiva. Ed è vero, perché la società non è come il palinsesto televisivo, non cambia di anno in anno. I cambiamenti veri sono più simili alle erosioni delle ere geologiche. Certamente accadono delle rotture antropologiche subitanee come la rivoluzione francese o quella digitale, tanto per fare esempi illustri, ma questi stravolgimenti celano una storia di infiniti smottamenti e di processi lentissimi. Ogni cambiamento richiede pazienza e gradualità, non c’è niente da fare, bisogna insistere, guardando lontano. In questo senso Marc Augé mi convince abbastanza quando dice che se esiste un’utopia ancora praticabile è quella dell’educazione per tutti e dell’educazione all’educazione. Sono convinto anch’io che finché vivremo in un mondo in cui l’accesso all’istruzione e a sistemi di riflessione sull’educazione più complessi (come imparo a giudicare anche chi mi ha insegnato?) – ecco, finché queste cose rimarranno marginali e nelle mani di pochissimi, non è possibile aspettarsi un cambiamento radicale come la fine del capitalismo. L’unica utopia praticabile è quella che investe su cambiamenti sostanziali anche lontani nel tempo, è la lotta per rendere accessibile a tutti la strumentazione pedagogica che consente di imparare a leggere la realtà, a vedere come ti frega chi ti frega, avrebbe detto Don Milani. È questa la sfida della mia generazione. Dobbiamo farci carico di essere insegnanti, noi ultimi di un mondo e primi di un altro. Ci dobbiamo investire di un ruolo che peraltro è bivalente. Per me infatti non ci sono stati maestri migliori dei ragazzi a cui m’è capitato di insegnare qualcosa. Il circuito didattico è il più virtuoso che esista, a patto che chi insegna cerchi di mantenersi il meno dogmatico e apodittico possibile.

 

La resistibile ascesa di Arturo Ui, regia di Claudio Longhi, produzione Ert, 2011.


Cosa significa questo se lo trasliamo nel teatro, e lo riferiamo alla relazione tra attore e regista?  Il futuro è nella regia debole? Te lo chiedo con scetticismo ma anche con curiosità. Grotowski diceva che la sollecitudine per la libertà dell’attore può essere generata solo dalla pienezza della guida e non dalla sua carenza di pienezza, perché tale carenza presupporrebbe dittatura e ammaestramento superficiale. 

Tu citi Grotowski, io rilancio con un altro maestro. Proprio rispetto alla questione che poni, credo che l’esperienza più significativa e preziosa capitata in Italia dal dopoguerra a oggi sia stato il Laboratorio di Prato di Luca Ronconi, un’avventura fondamentale e purtroppo, come spesso è accaduto con quanto fatto da Ronconi, poco tesaurizzata, in parte anche per lo scarso interesse che lui stesso aveva a che si trasformasse in tradizione la sua pratica. Tutto ciò che puzzava di metodo lo irritava. Naturalmente penso soprattutto alle Baccanti, che Ronconi costruì con Marisa Fabbri, ma anche ad altri spettacoli in cui il regista ha lavorato con attori consapevoli non solo dei loro mezzi espressivi ma anche della propria funzione politica. Quello che veniva fuori dal rapporto tra quegli attori e un regista disposto a costruire un dialogo laboratoriale pur mantenendo la propria forza mi sembra una via decisamente praticabile per il futuro, quella che io auspico di più. Non dico che la regia debole o la post-regia siano chiacchiere o teorie astratte, perché sono dati di fatto, sono vie percorse concretamente, e non ritengo neppure che siano poco interessanti, penso però che siano poco potenti rispetto alle possibilità del linguaggio teatrale. Sono convinto che succeda qualcosa di molto più efficace quando s’incontrano in scena un regista forte che si assume appieno la responsabilità della costruzione globale dell’opera e attori estremamente forti anche loro, politicamente e intellettualmente, oltre che espressivamente appunto, quando cioè quel regista sottopone i gangli del meccanismo e della struttura interpretativa che ha in testa all’intervento diretto degli attori. E lo trovo potente perché lì il teatro non solo conosce vertici estetici, ma dice anche qualcosa al mondo su come potrebbero configurarsi idealmente i rapporti gerarchici. 

 

L’indicazione più urgente di questi anni, direi. E cosa suggerisce esattamente?

Che la verticalità fine a sé stessa, oltre a essere sempre matrice di un’ingiustizia fortissima, è sostanzialmente improduttiva. Il teatro è stato e può ancora essere un posto dove si sperimentano delle alternative al sistema di potere che già conosciamo, dove si elaborano teorie nuove su cosa significhi essere autore di qualcosa, detenerne la paternità, metterci una firma, su dove finisca il contributo di uno e cominci quello di un altro. A me non piace la regia tirannica perché implica sempre un furto. L’aneddotica teatrale delle cene di compagnia è piena di racconti su come questo o quel regista famoso abbia rubato idee a questo o a quell’attore. Ma so bene che la parità assembleare, cenacolare, non paga quando bisogna prendere una direzione di senso, perché si dà quel fenomeno che si studia anche in matematica per cui se c’è un’eccessiva densità entropica ci si ferma, non si va più avanti. Perciò serve un sistema in cui si procede nella direzione indicata da chi ha il compito di guardare tutto dall’esterno, il regista appunto, ma gli obiettivi del progetto, il suo senso ultimo, la storia che si vuole raccontare, l’interpretazione che si dà di un testo è condiviso con chi quel regista l’ha legittimato, ovvero gli attori. Se queste cose accadono, il coefficiente di sperequazione necessario perché le cose procedano è compensato dal fatto che chi partecipa a un processo condivide le forme, gli obiettivi e le prassi, o le mette in discussione nel setting di prove. In altre parole, il regista è legittimato da tutti noi a guardarci da fuori e a indicarci una direzione, ma quella direzione è dove tutti quanti vogliamo andare. Tutta questa dinamica, che è un fatto concreto e artigianale, insegna al mondo come può funzionare la leadership, la democrazia, come per incanto uno schema anarchico possa generare non solo caos, ma arrivare a veicolare davvero la volontà di tutti. 

 

Ragazzi di vita, regia di Massimo Popolizio, produzione Teatro di Roma, 2016.


Cosa stai facendo in questo momento? A cosa lavori? Cosa stai leggendo?

Molta narrativa contemporanea. Ho scoperto di recente Luciano Funetta e tra le varie altre cose sto leggendo tutti suoi romanzi. E poi sono molto interessato alla drammaturgia europea. Sono stato conquistato dalla scrittura del portoghese Tiago Rodrigues, la trovo fulminante, mi interessa il suo discorso sui diversi livelli di realtà, e poi mi piace perché dietro le sue parole si sente forte e chiara un’idea di teatro. Gli darò la caccia nei prossimi mesi, ho per le mani un suo testo in particolare, una meditazione su Madame Bovary… 

 

Quindi non ci dobbiamo aspettare una terza stagione dell’Allieva e della Porta rossa?
Vedremo. Ho un dialogo aperto con la Rai in questo momento, perché ci sono progetti, anche con produzioni internazionali, che mi interessa portare avanti con loro. Le cose che abbiamo fatto insieme hanno avuto molto successo e mi rendo conto che per l’azienda e il pubblico si crei un’aspettativa del tutto giustificata rispetto al futuro, ma adesso ho bisogno di lavorare immaginando una transizione verso progetti televisivi che rappresentino anche il momento in cui mi trovo io, sia come uomo che come artista.  

 

L’ultima fotografia raffigura un momento di La classe operaia va in paradiso, regia di Claudio Longhi, produzione Ert.

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