Un libro di Moreno Montanari / L'umano nel profondo è invincibile

12 Dicembre 2021

Che la vita sia un incessante affanno lo si capisce abbastanza presto. Lasciamo stare i grandi traumi e le situazioni estreme, pensiamo alle “normali” vicende dell’esistenza: la nostra infanzia, l’adolescenza, le frustrazioni sentimentali, le fatiche economiche, ecc. ecc. Che bello se i diversi aspetti della vita fossero una tavolozza di colori con i quali poter (ri-)disegnare la nostra esistenza (Le correzioni, le ha chiamate Jonathan Franzen) dando alle sue diverse “stazioni” una tonalità a piacimento più intensa o più tenue, e disporre sulla tela i vari eventi ma dando loro dimensioni e collocazioni strane, inusuali: che so, le fatiche economiche io le disegnerei come un pallone a cui dei bambini vocianti e sorridenti danno dei gran bei calci. Forse così facendo quell’affanno non sarebbe più così incessante; con la mia rielaborazione sarei in qualche modo in grado di risistemare e risignificare la mia vita, almeno un po’ e sia pure in forma immaginaria. L’immaginario, si sa, ha una sua potenza rielaborativa, e può certamente in parte anche cancellare lo stridore della sofferenza. È questa, secondo me, la suggestione più intensa che si raccoglie nell’ultimo libro di Moreno Montanari, Rinascere a questa vita. Perché la resilienza non basta (Moretti & Vitali 2021, pp.120). Non a caso parlo di “suggestione”, perché è un termine nebuloso e infido, che può funzionare quando si ha a che fare con i vortici del vivere quotidiano in cui, con un’intermittenza più o meno regolare, veniamo risucchiati. 

 

Il discorso che Montanari propone in realtà è tutt’altro che nebuloso e men che meno infido, al contrario è lucido e sanamente piantato nella razionalità del presente. Sono cinque passaggi – a me piace vederli come gradini di una scala in ascesa – in cui l’analisi del disagio individuale e collettivo si trasforma, strada facendo, in una vera e propria prospettiva di vita positiva. Una progressione che va seguita passo passo. Mantenendo fede a un titolo assai impegnativo, Montanari offre la sua stessa esperienza di vita come cardine dell’argomentazione, nel rispetto dell’Analisi biografica, una pratica di cura della percezione della vita, fondata insieme a Romano Màdera, basata sull’analisi della percezione della vita e sul consolidamento della positività delle esperienze esistenziali, una pratica capace “di fare i conti con il male del mondo ma senza lasciargli l’ultima parola” (p.23). In questo percorso entrano in gioco, con una piena contezza, la Filosofia e la Psicoanalisi: nel descrivere i “significati” Montanari si serve delle due istanze più piene della razionalità occidentale facendoci vedere come, con i rispettivi poteri conoscitivo-terapeutici, la Teoresi si incarna e diventa Ethos.

 

Il “trauma relazionale” è al centro del primo capitolo. La pandemia, dice l’autore, ha improvvisamente denudato le nostre fragilità mettendoci davanti la malattia, la paura e la morte, che avevamo rimosso. Una delle conseguenze più importanti è stata il deteriorarsi dell’interazione con i nostri simili. Il trauma al quale siamo andati incontro non è dovuto all’improvviso rischio di morte, “ma alla paura di essere destinati a ‘una vita non vissuta’, che la concreta possibilità della morte ha improvvisamente disvelato” (p.33). Tuttavia la condizione di poter avere un’altra chance non pare essere sufficiente a ritrovare uno slancio vitale, come fossimo completamente in preda alla nostra impotenza paralizzante. Un atto di semplice ripristino come la resilienza, evidentemente, non può bastare, perché ricomporre semplicemente un quadro identico a quello di prima recide la possibilità di spostare l’esistenza su un più ampio orizzonte. Se la condizione dell’uomo è quella del divenire, come diceva Eraclito, “meglio, allora, che lo faccia alla luce di una progettualità e di un impegno consapevoli, di un’idea di vita mossa dal desiderio di comprendere e migliorare se stessi e la realtà di cui si è parte” (p.39). 

 

Il fatto è che nell’era dell’Io minimo, il moderno narciso descritto da Christopher Lasch concentrato non tanto sulla realizzazione di sé quanto sulla sua sopravvivenza, il “trauma relazionale” sembra dilatarsi, trasformando la vita dell’individuo in un vero “delirio d’impotenza”. Questo, dice Montanari, è “il malessere che, inconsapevolmente, si agita dentro di noi: il lutto, inconscio e dunque mai elaborato, della scomparsa di relazioni significative capaci di offrire un attaccamento sicuro” (p.44). Dunque se la pandemia ci restituisce un’immagine catastrofica del mondo e della nostra vita, se l’immagine che abbiamo degli altri ci mette sulla difensiva, allora significa che abbiamo lasciato prevalere “il registro dell’immaginario su quello della realtà”. Ma la realtà non coincide con l’immagine che ne abbiamo, tra il mondo e la rappresentazione che ne diamo rimane uno “spazio potenziale”, osserva l’autore con Donald Winnicott, ed è lì che la cura del trauma si può attivare (p.45).

 

 

Andando oltre l’erronea percezione del mondo e di sé, coltivando l’“area intermedia che sta fra la realtà interiore e la realtà esterna”, uno spazio senza la cura del quale “la vita, semplicemente, non può esistere perché ex-sistere significa, letteralmente, stare fuori di sé, presso il mondo, in quell’apertura al possibile che ne alimenta lo slancio” (p.46). 

Il meticoloso percorso di Montanari fa ben vedere che cosa sia la “vita filosofica” (che tutto include e senza concedersi a scorciatoie “metafisiche”), cioè l’intellettualizzazione che lavora con – non necessariamente contro – l’esperienza. Questo stare presso il mondo, in una prospettiva di apertura, di accoglienza e sostegno dell’altro non è che il “prenderci cura” heideggeriano, la “possibilità di creare, in sé e negli altri, le condizioni per la piena fioritura della vita”, che è “il vero prodigio dell’uomo” (p.56).

Se un corretto esame di realtà ci dice che l’essenza della condizione umana è la relazionalità, significa che nella relazione l’individuo ridimensiona la propria importanza e “sperimenta il piacere di sentirsi parte di qualcosa di più grande di sé” (p.64). Mentre l’attacco di panico, patologia diffusissima e particolarmente emblematica del nostro tempo, è il mondo che crolla addosso all’Io annullandolo, al contrario, nel sentire di appartenere al mondo, dice Montanari riprendendo Freud, si verifica che “Quanto più un uomo è circondato dal mondo circostante, tanto meno facilmente riceverà un’impressione di perturbamento da cose o da eventi” (p.66). È l’acquisizione di un “altro panico”, proprio nel senso più arcaico di esperienza panica o mistica, un’adesione al Tutto che consente di liberarsi dal “giogo degli scopi”, di distaccarsi dal principio di prestazione che governa oggi l’individuo prevalente, per uscire dall’Io-gabbia e porre al centro dell’esistenza un Sé condiviso. 

 

C’è dunque un diverso modo di aprirsi alla vita, a questa vita, nella quale possiamo rinascere. E per fare questo tutti noi possiamo accedere al nostro grande magazzino onirico, farlo diventare un vero e proprio pensiero in grado di darci “la possibilità di estendere anche alla vita di veglia le modalità di organizzazione dell’esperienza proprie del linguaggio del sogno” (pp.77-78). Freud e Jung avevano visto in Nietzsche molte anticipazioni del pensiero psicoanalitico, ma, spiega Montanari, solo recentemente un gruppo di psicoanalisti – Wilfred Bion, Christopher Bollas e Thomas Ogden – ha sviluppato questa prospettiva, l’idea cioè che un “pensiero onirico” sia possibile. Non c’è più un mondo interiore irrelato, c’è semmai un lato “poetico” del mondo che va inglobato nel flusso vitale e ci permette, fuori dalla logica inferenziale, di fare emergere e comprendere la nostra vera personalità, quella che Bollas chiama “l’idioma personale”.  

 

Una “contemplazione disinteressata” diventa così la chiave di svolta per un “animo finalmente liberato dall’asservimento allo scopo” (p.93), una disposizione non passiva ma attivante poiché, con Deleuze e Guattari, “non si è nel mondo, si diviene con il mondo, si diviene contemplandolo” (p.95). Così il singolo può rivolgersi alla globalità degli esseri, a soggetto e oggetto, col capo chino “sul petto nudo della vita”, come diceva Etty Hillesum.

In un libro “ad alta intensità” come quello di Montanari gli stimoli di riflessione ulteriore sono moltissimi e per questo mi pare molto pregevole la tenuta argomentativa dell’autore sul tema generale. Rimane, ma è inevitabile, la necessità del confronto con “lo sporco” della realtà; i guai del clima, le magagne dell’umanità globalizzata, certo, ma qui e ora soprattutto con le vite irrimediabilmente spaccate degli individui, con il loro in-mediato confliggere con l’acqua in cui sono costretti a nuotare, la loro lotta quotidiana per sopravvivere adesso, evitando quante più bastonate possibile, senza aver maturato alcuna “capacità di contemplazione”. Diciamo che, magari anche solo sotto forma di “suggestione”, l’idea di una rinascita a questa vita è comunque uno stimolo sincero che va ascoltato non fosse altro che per la forza con cui dimostra che, come dice lo scrittore francese Christian Bobin – caro a Montanari –, “l’umano nel profondo è invincibile”. 

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