Saturazione / Paesaggi fragili

20 Settembre 2019

Olivo Barbieri –Site-specific Shanghai.


1. Come nell’Eden, dove era stato piantato un giardino, il tutto durò poche ore, sembra sei ore, prima che l’uomo e la donna presenti, smettendo la passività della contemplazione, violassero l’esistente e la sua regolazione, così al momento di accorgerci del paesaggio ci siamo accorti della sua fragilità, della sua precarietà, della sua dissoluzione.

Allorquando un luogo giunga a mostrare la sua propria struttura senza spazi e margini di vuoto e di interpretazione, presentando come un tutto pieno il suo esterno e il suo interno, noi diciamo che quel luogo è saturo, ovvero dà di sé un’espressione satura, propone e offre un paesaggio saturo. Quel luogo, quell’oggetto, quell’artefatto, come accade per il Centre Pompidou di Parigi, per mostrarsi in immagine e azione, in percezione e movimento, per offrirsi, può solo ricorrere, e di fatto ricorre, ad un’affordance satura. La sua struttura, il suo interno nudo e crudo, letteralmente sviscerano se stessi per generare un significato, e ci riescono solo in quanto il processo di sense-making aderisce, coincidendo, alla cosa stessa che si è denudata per esprimersi. Nessuno svelamento è necessario, né margini di interpretazione. Il senso inevitabile che si genera ritorna sulla cosa stessa e su se stesso. Non è che il luogo non dica niente, è che satura il dicibile con la sua struttura, riempita di sé, piena di sé, al punto di anticipare l’evocabile. Se Walter Benjamin può dire, in Ombre corte, che “la conoscenza deve contenere al suo interno un qualche elemento di contraddizione, proprio come nell’antichità i disegni degli arazzi e i fregi deviavano un po’ in qualche punto dal loro corso regolare. In altre parole ciò che è decisivo non è il passaggio da una conoscenza all’altra, ma la breccia che si apre in ognuna di queste contraddizioni”; se Benjamin può dire questo, il paesaggio saturo è quel paesaggio ineffabile la cui affordance non è che non apre alcuna breccia, ma apre quella breccia che per aprirla ha, spesso, tutta la sollecitazione spendibile contenuta già nella sua struttura e nel suo interno nudo e crudo.

 

Se il luogo diventa paesaggio nel muoverci e agire noi in esso, cioè mediante la nostra “perce-azione”, allora sarà una fessura, una finestra di comprensibilità necessaria a rendere possibile l’emergere del paesaggio. Non costituisce impedimento che la fessura sia angusta, né di fatto è impedibile che ciò accada, che cioè l’emergenza si dia; quell’emergenza si dà in quanto è il sense-making a regolare il rapporto  osservatore-osservato. Neppure la ripetizione né è impedimento, in quanto nessuna ripetizione è mai uguale a se stessa. È che il significato, nel darsi del luogo e dell’oggetto, ha, alla lettera, già avuto luogo.

Se vi è una differenza tra il provare emozioni vere e provare emozioni solo con l’immaginazione, la saturazione del paesaggio esistenziale e sociale contemporaneo è qualcosa di simile a questa seconda situazione. 

È forse la finzione della ripetizione la cifra più corrispondente al rapporto tra noi e il paesaggio, oggi.

Nessuno, forse, come Olivo Barbieri, sorvolando di fatto il pianeta intero e fotografandolo, ci sta fornendo una rappresentazione delle trasformazioni dei paesaggi della nostra vita e della loro saturazione.

Ne è prova il suo ultimo volume, Site specific, una formula associata al suo nome e al suo lavoro da molti anni, in cui l’arte fotografica raggiunge una complessità tra le più alte a cui l’autore ci ha abituati, e allo stesso tempo si esprime con la discrezione e il pudore che da sempre sono la cifra di Olivo Barbieri. 

 

 

Non ci sono concessioni interpretative nel suo lavoro. Il mondo è presentato nella sua essenza assoluta, come a Napoli si dice “assoluta” dell’acqua o di un alimento quando si bevono e si mangiano senza alcuna aggiunta o trattamento. Noi umani siamo in tal modo inchiodati ai risultati della nostra pervasiva antropizzazione, senza margini di interpretazioni, appunto. Una modernità al massimo grado, o surmodernità, direbbe Marc Augé, si presenta a noi e ci propone il conto della nostra presenza tutt’altro che discreta e delicata sul pianeta Terra. Al netto di ogni sbavatura di maniera, Olivo Barbieri, riprende i paesaggi del mondo, urbani e non, sempre e comunque nelle loro antropizzazioni senza scampo, dove ogni luogo è segnato, trasformato, modellato e spesso in modo irreversibile, dalla presenza umana.

Documentare con immagini i paesaggi della nostra vita non è per niente facile, se non ponendo particolare attenzione alle ibridazioni che produciamo abitando gli spazi. Così come le lingue e le scienze sembrano trovare le condizioni della propria evoluzione soprattutto al punto di ibridazione di codici, come è stato ampiamente documentato [ad esempio nell’ormai classico P. Brooks, Trame, Einaudi, Torino], allo stesso modo e con processi analoghi andiamo occupando gli spazi. Simone Casalini ha dato un contributo di particolare originalità riconoscendo che gli spazi ibridi non solo vengono da lontano e sono un connotato distintivo dell’Europa, ma ciò fa sì che l’Europa sia un bricolage di innumerevoli paesaggi. Tutto il mondo Mediterraneo è lo spazio della differenza in cui le storie, i mutamenti politici e sociali si gonfiano come vele al vento, suscitando continuamente urti e aggiustamenti, negoziazioni e rotture. Nelle culture della vita quotidiana, ad esempio, l’ibridazione è la regola: si pensi al pane e ai modi di farlo, alle sovrapposizioni delle forme e degli ingredienti, degli impasti e delle cotture. Oggi quegli spazi ibridi assumono caratteristiche peculiari di mescolanze che riguardano la ricerca delle forme di governo e le modalità di gestione dei conflitti. Dalla transizione democratica radicale della Tunisia alla casbah di Mazara del Vallo, dalla frontiera mutevole del Brennero al caos-mondo dei carruggi genovesi, passando per il cimitero di Mentone – luogo dell’eterotopia foucaultiana – che riaffaccia alla storia l’esperienza dei tirailleurs sénégalais, Casalini esplora questi spazi in un testo che combina saggistica, reportage e letteratura, seguendo la scia luminosa delle teorie postcoloniali. È proprio quest’ultimo un paradigma di particolare utilità per cercare di comprendere la dimensione cangiante e ibrida dei paesaggi contemporanei, ma anche i processi di saturazione.

 

 

I risvolti dell’ibridazione sono variegati e anche contraddittori. Casalini descrivendone alcuni casi mette in evidenza le problematicità e la precarietà di quelle forme di vita, ma allo stesso tempo la loro generatività. Si tratta di esperienze allo statu nascenti, caratterizzate dalla incertezza evolutiva e dalla non facile definizione delle caratteristiche. Una metafora che alla fine mostra una particolare efficacia per studiare le dinamiche degli spazi di vita e dei paesaggi contemporanei. Dalla lettura dei casi analizzati da Casalini emerge un ospite sistematico della creazione degli spazi ibridi, il tempo. Non è tanto la complessità della composizione dei fattori dello spazio a incidere nel dar conto del processo di ibridazione, quanto la fluidità e friabilità del tempo vissuto e vivibile in quegli spazi, un tempo fugace e per molti aspetti inafferrabile. Viene in mente il tempo medio di permanenza su ogni contenuto di Facebook, che è stimato in meno di tre secondi (1,7 su app e 2,5 secondi su desktop, in base a dati ufficiali di un paio di anni fa). Così come appare difficile strappare un interesse ad approfondire un tema che avrebbe bisogno di più di qualche secondo di spiegazione, allo stesso modo sembra difficile sperimentare una forma di presenza in qualche modo basata su principi di appartenenza negli spazi ibridi. Eppure in quei crogiuoli si esprimono comportamenti e azioni situate che denotano partecipazione in base a inediti criteri e investimenti che attendono riconoscimento e considerazione. Sembra che simulare e fingere appartenenza provvisoria sia non solo un ossimoro ma un modo inedito di esserci.

Una delle modalità più attendibili di considerare il paesaggio nella nostra esperienza è la finzione, appunto, intesa come l’esito del processo di traduzione che operiamo con la nostra azione e percezione nello spazio di un luogo. In quel mentre emerge un significato, al punto di incontro tra mondo interno e mondo esterno. Accade, in questo nostro tempo, che si ha l’impressione che la finzione che operiamo non sia in rapporto con la realtà. Quel rapporto lo manchiamo, e per molti versi è divenuto difficile e spesso impossibile. Ogni realtà spaziale, infatti, come ogni artefatto, giungono a noi in una ripetizione. Più e più volte narrati e rappresentati, in più e più modi, quando ci si presentano innanzi, sono reiteratamente ripetuti, sovraccarichi di tutte le finzioni con cui sono stati rivestiti e, quindi, saturi.

Le emozioni che suscitano derivano dall’immaginario e sono canonizzate in una stereotipia infrangibile.

Quella finzione necessitata dalla ripetizione è alla base del paesaggio saturo della nostra esperienza: è essa a costituire l’esperienza di paesaggi saturi che viviamo spesso senza accorgercene, in quanto unica esperienza possibile, oggi.

 

Non per nulla si chiamano “guide” le descrizioni a milioni di ogni luogo, descrizioni ripetute che compongono un fitto e impenetrabile mosaico di finzioni pronte all’uso. 

E ciò non basterebbe a creare saturazione se non ci fossero, allo stesso tempo, altrettante “guide”, descrizioni spesso prescrittive e terapeutiche, delle emozioni stesse e degli stili comportamentali per viverle nei paesaggi saturi della nostra vita.

In quei paesaggi saturi della nostra vita ognuno è uno e molti e, in fondo, nemmeno sa chi è. È, per molti aspetti, tutti quelli le cui finzioni è riuscito a cogliere, a leggere, a raggiungere, ma sa che sono solo una minima parte di quelle esistenti e possibili. Gioca, in fondo, a far finta di credere quale gli corrisponde di più. Ogni tanto, vivendo e percorrendo gli spazi o rapportandosi a un artefatto o a un oggetto, può sentire perfino la vertigine della dimensione e sensazione fantastica del sentimento diretto, di una fruizione non ripetuta, che riporterà immediatamente a qualcuna di quelle ripetute che affollano la sua mente e la sua esperienza, come condizione ineluttabile di riconoscimento e di equilibrio necessario; come antidoto alla solitudine insopportabile che una finzione originale inevitabilmente provoca in un paesaggio anche contingentemente fatto di una semiosi satura. In quella situazione il paesaggio si dissolve in simulacri stereotipati che si impongono come necessari, producendo e riproducendo finzioni ripetute. Può certo accadere, ogni tanto, che il luogo, lo spazio, l’artefatto, rinviino la tenera ma anche amara sensazione, che ognuno è se stesso in quel luogo, che la finzione emergente sia unica ed esclusiva, ma quasi subito sentirà che è anche tutti gli altri, tutti i membri di quella interminabile carovana che popola gli spazi e ancora più e ancora oltre li satura di storie di voci anonime che confermano l’esistenza di racconti che si introducono nelle vite e proseguono per la loro strada, confondendosi con esse, in una semiosi che vive della propria progressiva saturazione.

 

Potrebbe esserci forse uno sguardo obliquo, quello che ci vorrebbe, per interrompere almeno per un momento l’inclusione che un paesaggio saturo produce. In questo sta forse il principale merito del lavoro di Tullio Pericoli, in particolare negli ultimi esiti, come emerge dalla recente mostra presso la Galleria Ceribelli di Bergamo, dal titolo Che cos’è il paesaggio? La mostra ha combinato le poetiche di cinque artisti con stili diversi, ma tutti confluenti intorno al tema del paesaggio: Luke Elwes, Monica Ferrando, Alex Lowery, Lino Mannocci e Tullio Pericoli.

Ad impreziosire le già importanti opere, il catalogo è introdotto da uno scritto breve e molto intenso di Giorgio Agamben che si avvale della categoria di inappropriabile per definire il paesaggio: “Si può, anzi, definire paesaggio il mondo nell’istante in cui ci appare come perfettamente e assolutamente inappropriabile”. Secondo Agamben il paesaggio “continua a fuggire, non fa che trasgredire e confondere il sacro e il profano, il quotidiano e l’inaudito, il mitico e il reale”. 

 

Da una diversa forma di inclusione è emersa, del resto, la possibilità stessa di concepire il paesaggio, di dargli un nome, di iniziare a dipingerlo e a narrarlo. L’appartenenza, fino a quel punto, prima dell’avvento del comportamento simbolico, era tacita. Gli alberi erano alberi, l’acqua era acqua, la terra era terra, il fuoco era fuoco. Temuti e riveriti, socializzati per esorcizzare le minacce, gli elementi dominavano e la dipendenza da essi generava un’appartenenza tacita e includente. Quando una certa distanza prese forma, per malinconia o senso di perdita, il contorno delle cose andò oltre la propria coincidenza con le cose stesse ed emersero il significato, l’estetica, la narrazione. Apparve il paesaggio.

Quel che cogliamo, in fondo, è l’attimo che intercorre tra l’emergere della sua forma, nell’affordance di ogni spazio, e la dissolvenza nella sua saturazione, a causa delle violazioni e della consuetudine abitudinaria con cui continuiamo a saturare ogni angolo di spazio possibile. Fino a saturare lo stesso senso del possibile, in un’estetica triste che si avvita su se stessa, saturando le discontinuità percettive e attive.

 

2. Emerge un paesaggio in ogni luogo dove la storia naturale incrocia la presenza umana. Paesaggio non è, quindi, solo contemplazione di un angolo di mondo, né tantomeno un’esperienza riducibile al primato della visione. Concerne direttamente l’attività, l’abitare e la presenza di una specie simbolica, quella umana, che nei luoghi dello spazio si muove e agisce, dando ad essi forma e significato. La presenza, l’azione e il movimento umani creano i paesaggi della nostra vita. Lo fanno con processi di enactment, emanando letteralmente il paesaggio. In particolare nel tempo attuale, quel processo di enazione si presenta con due caratteri, tra gli altri, che ridefiniscono cosa il paesaggio sia: la pervasività e la saturazione. Non vi è un metro quadrato si spazio terrestre che non sia tradotto, sia in termini di forma che di significato, dal movimento e dall’azione dell’uomo. Il regno dell’azione umana, il pianeta Terra, tende a coincidere oggi col paradiso. L’ampio giardino recintato da cui il paradiso trae l’etimologia (pairi, intorno; daeza, muro; un calco dall’avestico), ha oggi il perimetro del pianeta. Non solo: ogni luogo del pianeta ha una codificazione satura, in termini di significato. La vertigine del presente è perciò una sindrome da horror pleni, invece che da horror vacui, come è stato a lungo per la storia della specie umana, allorquando l’ignoto e il mistero avvolgevano i luoghi sconosciuti e l’ansia della loro scoperta. In quel tempo possono forse essere recuperate le basi per elaborare la saturazione attuale, demografica, economica e culturale allo stesso tempo. Se il tempo della storia, il tempo in cui viviamo nei paesaggi saturi della nostra vita, non è l’unico tempo del mondo; esiste un’altra dimensione temporale, quella geologica e biologica, che può consentire un ricongiungimento, una nuova alleanza con la natura di cui siamo parte. Una diversa conoscenza e appartenenza alle cose del mondo richiede l’elaborazione della ferita narcisistica della presunzione di superiorità da parte della specie umana. I linguaggi e i vissuti del paesaggio in cui viviamo possono desaturarsi se prestiamo impegno e attenzione a quel che ci precede, che sul pianeta su cui viviamo viene prima di noi ed è condizione della nostra presenza e della nostra esistenza. I luoghi che traduciamo e viviamo come paesaggi conservano in sé una memoria di ciò che precede il presente ma è tuttora condizione della loro e della nostra esistenza. La memoria storica è congiunta con la memoria del tempo biologico e geologico profondo in una complessa tessitura, che con la saturazione tendiamo a rimuovere, abitando un immaginario che aliena il simbolico. Le impronte umane si possono alleare con il sistema vivente se si mette in atto un arretramento, una presa di distanza che consenta di vedere e riconoscere la struttura di legame tra la nostra presenza e il sistema vivente di cui siamo parte. La saturazione tende ad attaccare proprio quella possibilità di presa di distanza, e qui sta forse la principale contraddizione. Un elemento analizzatore è il linguaggio, saturo a sua volta di parole come ripresa e crescita, fino alla più drammatica contraddizione della nostra epoca, quella di stati nazionali in competizione e talora in guerra reciproca, per riversare sempre più merci in un mercato a sua volta saturo, creando continui bisogni indotti, mentre siamo tutti parte di un pianeta che vive una profonda crisi ambientale, climatica e di risorse. Le discipline economiche che dominano l’intero spettro culturale del nostro tempo, orientando e difendendo i grandi interessi, si fondano su una finzione epistemologica: l’inesistenza della natura. Come se produzione e consumo non fossero consumo di natura, che non è inerte materia prima, ma mondo vivente, equilibri fragili e complessi, biodiversità, risorse, clima. L’estensione del concetto e del significato di paesaggio è generata e resa necessaria dalla saturazione, non solo perché i paesaggi della nostra vita sono saturati dalla presenza umana, ma anche perché tutto diventa paesaggio nel momento in cui impatta direttamente con la vivibilità della specie umana e delle altre specie. 

Interrogarsi sui confini del paesaggio, oggi, vuol dire, tra l’altro, considerare come la tecnologia ha inciso e incide sul nostro movimento e sulla nostra percezione. Dall’affordance degli spazi e dei luoghi esercitata su movimento e percezione dipende strettamente l’emergere del paesaggio nella nostra esperienza. La cornice entro cui il paesaggio si definisce ed emerge è cambiata, sia per l’accessibilità delle immagini a portata di tutti, che per la saturazione, dal “tutto pieno” di noi e dei nostri oggetti, alla ridondanza di immagini e significati. Il pianeta “finito”, così come rappresentato nelle immagini fotografiche di “blue marble”, registrano il pianeta al di fuori dell’atmosfera e proiettano il punto di vista oltre quella finestra che per secoli è stata la cornice “naturale” del paesaggio, spingendo a sovrapporre i limiti del visibile (e del paesaggio) con i limiti dell’immagine. Il nostro immaginario è popolato e condizionato da contorni che i lens-based media hanno tracciato intorno al paesaggio, inquadrandolo e generando dei filtri che guidano la visione secondo percorsi prestabiliti. La mappa non è il territorio, lo sappiamo, e l’immagine non è l’ambiente, aggiungiamo. E tuttavia, in questa scena satura, risulta sempre più difficile giungere per conto proprio, per così dire, al territorio e all’ambiente e tradurli in modo almeno in parte originale in paesaggio. L’inappropriabilità del paesaggio sta, forse, nella sua saturazione.

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