Il mio Celati

17 Gennaio 2022

A differenza di quanto accaduto ai suoi amici in carne ed ossa (suoi studenti al Dams, compagni di serate bolognesi o dei suoi viaggi), la mia conoscenza di Gianni Celati è tardiva ed inizia tutta sulla carta (dei suoi libri prima, delle sue lettere poi).

Da provinciale (piccolo borgo della piccola Valle d’Aosta) – nel ’78 – insegno in ciò che sopravvive di una scuola sperimentale messa in piedi negli anni precedenti dall’autorità regionale: né scuola media né mediosuperiore, quell’istituzione (“il biennio”) costituisce una sorta di intervallo tra l’obbligo e la scelta dell’indirizzo di maturità: scuola indecisa, scuola di tutti e di nessuno. Il mio còmpito di docente è di accostare alla lingua italiana (orale e scritta) un quindicenne francofono. Còmpito – s’intende – cui non sono assolutamente preparato: strane “lezioni private” in una scuola pubblica, strano precettore pagato dallo Stato. Nelle ore buche, in attesa del mio studente, leggo; e leggo – con cinque anni di ritardo sulla data di pubblicazione – Le avventure di Guizzardi: quella lingua, tutta corpo e scoppiettii del corpo, gioiosa di coloratissime deformazioni, scorretta fino alla genialità e alla poesia sembra fatta apposta per il mio studente semiprivato che – Guizzardi inconsapevole – volenterosamente e giocosamente s’azzardava in terra incognita.

 

Un giorno mi venne da dirmi che sarebbe stato bello far sapere all’autore di quel libro altro rispetto a quelli dei narratori allora dominanti, le perigliose disavventure del suo lettore nelle mie abbondanti e meravigliose “ore buche”. Sapendo di lui soltanto che viveva in Bologna, consultai l’annuario telefonico della città (allora si poteva!) cercando “Celati Gianni” e l’indirizzo era lì, disponibile a tutti: Via Martinelli 2. E scrissi, e in tempi postali rapidissimi egli rispose; difficile oggi pensare a un autore già allora al centro dell’attenzione critica che risponda a un lettore sconosciuto con una lettera così lunga e bella e partecipata, ma era una delle specialità di Gianni (e forse anche un vantaggio di anni tanto più vivaci della nostra storia). 

 

Anche non fosse stata firmata, quella lettera diceva che l’autore del Guizzardi non poteva che essere lui: lui curiosissimo di tutto, freneticamente occupato dalle “possibilità della lingua” ma anche dall’infantile possibilità degli incontri tra gli umani (più o meno vicini, più o meno simili…). In quei due foglietti c’era tutto quello che avrei appreso più tardi di Gianni persona, personaggio e scrittore: la convivenza nell’adulto di tutta la giocosità e imprevedibilità del ragazzo, lo scapestrato che provoca ma non dà fastidio al professore, lo studioso raffinato che non è stato rovinato dalla raffinatezza dei suoi studi, dalla routine della carriera accademica o editoriale… E – cosa che ho capito solo con gli anni e con la pratica (mia) della traduzione – che il lavoro di traduttore gli era intimamente necessario perché è proprio dal confronto laborioso tra le lingue (tra l’asimmetria delle lingue) che può prendere vita una terza lingua: quella – intraducibile e inconfondibile – dell’inventore.

 

 

E questo contro il traduttorese da lui tanto avversato, e a favore dei malapropismi di lessico e sintassi. In altri termini: ho potuto leggere i suoi testi (fino agli ultimi pubblicati) tentando di sdoppiarmi: lettore innamorato e lettore colto, individuo che si lascia andare al piacere della narrazione e individuo attento alla costruzione della “piccola musica” del testo. Ma Gianni, quando leggeva (cose sue o no) non aveva bisogno di sdoppiarsi: era Guizzardi gesticolante ed era il critico che percepisce le forze e le spinte e i minimi dettagli all’opera nel testo, il miracolo sotterraneo della “resa” (emotiva) essendo insieme un “lasciarsi andare” e un perfetto controllo dei tempi (e delle ragioni) intimi del testo.

 

Inutile dire che da allora (dal ’78) recuperai sui tempi, andando a ritroso a Comiche, avanzando a La banda dei sospiri e al Lunario, studiando Finzioni occidentali (ma leggendole come un romanzo). Poi, nei decenni successivi, la svolta (le svolte) della sua scrittura perché “passa il tempo, succedono delle cose”… E quel suo andare al fondo arcaico di ogni narrare, a quel “sentito dire” ogni volta rinnovato, ogni volta più essenziale, con quel suo procedere magico che non sostituiva l’istinto narrativo con la spiegazione della realtà raccontata, e – contro il trattamento della scrittura come merce, sempre più evidente sul mercato – con la sua fantasticazione (parola di conio celatiano) che implica un’intesa tra chi racconta e chi a quel racconto è disponibile a prestare ascolto.

 

Fino a scoprire – molto più tardi, nel ’92 – che Gianni, lui nomade, aveva conservato per tutti quegli anni il mio indirizzo di stanziale e mi scriveva invitandomi a far parte dei suoi Narratori delle riserve (“riserve indiane”, naturalmente, in opposizione alle distese ormai ampiamente occupate dai bestsellers dei cow–boys). E in quell’occasione – quattordici anni dopo la scoperta del Guizzardi – poterlo conoscere di persona ed abbracciare a Cortona per la presentazione di quell’antologia che, di tutte le sue cose, è quella che più dà l’idea della sua curiosità incessante, della sua disponibilità e apertura all’inedito che è in ogni testo: trentadue autori tra loro diversissimi (per età, per storia, per impostazione di scrittura) fatti convivere dalla sua ansia di conoscere e di far conoscere, trentadue “forme di scrittura non forzata da obblighi esterni”, “quando si riesce a scrivere per sé, senza dover dimostrare niente a nessuno”.

 

L’ultima volta che ho visto Gianni è stata nel maggio 2016 alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia per la presentazione del “Meridiano” a lui dedicato (con i rischi della monumentalizzazione in vita). Come un protagonista delle sue novelle (come il Baratto della prima “novella sulle apparenze”) egli, non riconoscendomi e non parlandomi, con fare gentile ed infantile, mi sfilò di mano il foglio su cui avevo appuntato due parole da pronunciare in pubblico su di lui: un ultimo gesto di eterno curioso, di “cosa mai hai scritto?”. “Lasciamele ancora per un poco” – replicai – “domani le ascolterai”.

Mi rimaneva di vederlo quella sera a cena, di salutarlo l’indomani alla sua partenza per Brighton, poi il silenzio di cinque anni, poi – quattro giorni fa – la notizia della morte.

 

Oggi ho la sensazione che, per il resto della mia vita, mi capiterà di chiedermi ancora: “Cosa Gianni Celati avrebbe detto (scritto) di questo (fatto o persona o libro)?” e di immaginarmi una sua risposta, col suo tono sottotono, col suo gesto di interprete e di poeta che non smette di cercare nell’incercabile, discreto e complicato insieme, seduttore.

 

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