Speciale

Intervista di Matteo Bellizzi a Gianni Celati

6 Aprile 2011

MB Proprio con Verso la foce è iniziata l’esplorazione nel paesaggio, ricordi l’origine di quel richiamo verso l’apertura del mondo esterno?

 

GC Ho sempre avuto questo sentimento di aver sbagliato strada, ma nel corso di questi sbagli quando sono arrivato a questo libro mi è sembrato fosse quello meno sbagliato di tutti. Mi affidavo a qualcosa che era tutto fuori, era un lavoro per credere al mondo e credere anche alla mia mancanza quindi anche in questi deserti che sono le nostre campagne.

Non sopportavo più l’idea corrente di finzione «Il romanzo è una finzione personaggi che non esistono nella cosiddetta realtà etc.» ma io non sopporto due cose: prima il fatto che si dia per scontato che c’è una finzione ma che dietro a quello ci sarebbe la realtà e allora la finzione è come una finestra aperta sul mondo. Quest’idea truffaldina di pretendere che esista davvero una realtà. Quando si dice realtà si dice esattamente il contrario di quello che dicevo io con la nozione di mondo. La realtà è così astratta che non sappiamo neanche a cosa si riferisca, quello è un muro: si posso dire che è reale ma posso dire che qualcosa che ho visto o ho creduto di vedere sia reale? Posso dire io che i sentimenti che ho verso qualcosa che mi disturba e mi inquieta sia qualcosa di reale? Non identifichiamo la nozione di reale con la nozione di oggettivo perché è la parola più falsa che esista sulla faccia della terra perché nasce dagli esperimenti degli scienziati che possono oggettivare solo in laboratorio, in condizioni chiuse, e allora per oggettivizzare dovremmo passare tutti in laboratorio!

Quindi questa parola è un tipico caso di definizione astrattiva, noi non sappiamo di cosa stiamo parlando quando parliamo di realtà.

Sappiamo cosa sia invece il mondo, il mondo è la fuori ci sono dei costumi, delle abitudini ma la parola realtà… ha qualcosa di profondamente minaccioso, nessuno crede nella realtà, se la realtà è l’esistente allora la realtà è fatta di fantasmi, Aristotele diceva: senza fantasmi non si capisce niente, nessuna comprensione può esistere senza i fantasmi delle cose. Oggi quando si dice realtà è sempre in un senso impositivo… Stalin massacrava i traditori e la parola realtà gli serviva, è una specie di super io tremendo. La parola mondo è diversa, riguarda il nostro commercio con gli altri, lo scambio di percezioni.

«Romanzo finestra sulla realtà… un romanzo diventa importante perché parla di giovani che si drogano…». Balle! cosa sappiamo, cosa sa l’autore di chi si droga!

Tutte queste cose mi hanno stufato e ci ho dato un taglio.

Pensavo a Cézanne che la mattina partiva con il suo cavalletto, stava lì a dipingere e si era immaginato una infinità di cose che nessuno si era immaginato e allora doveva tornare a casa e brontolava. Non mi sembrava più giusto stare lì in casa a inventarsi delle finzioni.

 

MB Verso la foce è sorretto da uno sguardo documentaristico, ti ritrovi in questa definizione?

 

GC Sì, Verso la foce potrebbe essere un documentario. Ma alla fine uno si chiede «ma è la vera realtà questa del Po?», forse sono solo delle piccole pagliuzze di illuminazione, niente di più… No, direi che queste pagliuzze sono ancora meno, sono delle apparizioni.

È un libro profondamente immaginario, quei posti non esistono, esistono solo nella mia mente… quando hanno seppellito mio padre mi sono accorto che vedevo tutto intorno grigio, muri, prati e questo fatto di una tonalità emotiva nei dati della percezione avviene sempre.

 

MB La critica ha indicato l’incontro con i fotografi di Viaggio in Italia come un momento di transizione per la tua poetica, che cosa hai ricevuto da quel tipo di esperienza?

 

GC Intanto credo di essermi appassionato ad un tipo di veduta che fosse meno spettacolare possibile, meno infilzata su richiami alla moda, su richiami di tipo sensazionale.

Questo fatto di andare a cercare certi luoghi, dei luoghi un po’ fuori mano, dei luoghi dove nessuno si fermerebbe a guardare.

Era una fotografia che andava incontro al puro accadere.

 

[si volta verso un tavolo a cui stanno seduti tre anziani signori]

 

Ecco, per esempio, stavo guardando questo tavolo e questi signori che leggono il giornale e mi viene in mente lo stesso tipo di attenzione per scene del mondo che abitualmente non attirano l’attenzione. Alla fine io avevo solo quello nella testa.

Per me è stato un momento sorprendente perché non è tanto la questione di passare dalla scrittura ad altro, non c’è stata una vera e propria decisione, è il modo di lavorare dei fotografi che mi ha conquistato profondamente, mi è sembrato un modo di lavorare più onesto, più pulito, più artigianale e soprattutto più esposto all’esterno e quindi senza questi giochi dell’interiorità, dell’interiorizzazione che tutti i letterati tirano avanti per tutta la vita.

 

MB Tu hai parlato del documentario come regno dell’imprevedibilità, e forse proprio su questo elemento possiamo tracciare una connessione tra il lavoro con i fotografi e la tua attività di regista.

 

GC Nel nostro mondo occidentale noi abbiamo sviluppato una sovrapposizione ideologica alla percezione secondo la quale il mondo sarebbe diviso in cose interessanti e cose banali. Questo sentivo che andava abolito.

Stando con gli Africani e studiando molto il Corano ho imparato che in una veduta coranica non esistono le leggi di natura, è come se Dio intervenisse momento per momento, in qualunque cosa che ci circonda. È ciò che in filosofia si chiama occasionalismo: Malebranche per esempio ha cercato di sviluppare questa dottrina per cui non esiste più il punto di interesse storico, è come se, come dice il Corano, ci fosse una continua meraviglia dell’accadere.

Quindi quando facevo questi montaggi li facevo un po’ alla cieca, fiutando qualcosa che per me era ancora oscura, ma dentro di te c’è un movimento inspiegabile che è una buona guida. Nel montaggio tu non puoi sapere fino all’ultimo momento se un’immagine starà bene con l’altra, è tutto imprevedibile. Certe immagini erano bellissime senza sonoro, bastava aggiungere un minimo di suono e quell’immagine scompariva, diventava subito convenzionale, questo succede tutti i momenti. Detesto le musiche. Noi abbiamo un sistema musicale basato su un sistema bipolare: dominante e tonica, un sistema molto coercitivo che implica un certo tipo di percorso, se lo usassi per le immagini dovrei seguire l’andamento musicale, dovrei attendere l’arrivo della tonica per poter tagliare. Trovo più efficace la musica atonale, un fraseggio liberato da questo sistema convenzionale.

 

MB Credo che questo fiuto ti guidi anche una volta entrato in sala di montaggio, nel momento in cui organizzi le immagini quasi come fossero frasi…

 

GC Certo, mi sono orientato istintivamente per montare così come si montano le frasi scritte. Evidentemente come nelle frasi scritte c’è un soggetto e poi un verbo e nelle frasi scritte sai che c’è un soggetto anche se non è scritto, così nelle immagini c’è un punto che ha più potenza e a cui devi arrivare. Questa cosa l’ho scoperta facendo prove e riprove.

Anche nella scrittura c’è questo fatto ritmico e la ricerca di punti di focalizzazione dove fermarsi un po’.

 

MB Un autore che scrive che «siamo sempre e da sempre nella rappresentazione» come si avvicina al documentario che è il genere del realismo?

 

GC Quello che mi preoccupa sempre dei documentari è che ci sia il senso, c’è questo fantasma incombente del realismo su di noi che consiste nel fatto di afferrare qualcosa di concreto e metterlo davanti agli altri. Secondo me questo è il massimo della perdita rispetto al rapporto di quello che è fuori di te perché assumi qualcosa e lo chiudi in un determinazione che gli sta al di sopra e che spiegherebbe tutto. Il problema è quello di rompere queste determinazioni del realismo e concepire quello che noi chiamiamo il reale piuttosto come un ostacolo, un inciampo, il reale esiste quando c’è l’inciampo. Noi non potremo mai disgiungere la nostra percezione dalle nostre proiezioni e non possiamo disgiungere le nostre proiezioni dalle nostre simpatie o antipatie. Tutto questo fa parte del percepibile. Il realismo ha un po’ supposto che ci fosse un mondo esterno che va avanti, coglibile a fette.

Quando c’è un momento di inciampo in un documentario quello corrisponde all’introduzione dell’aria, quello che ci manca di più è l’aria, nei romanzi per esempio. Credo ci si debba liberare da tutto questo determinismo realistico.

Bisogna che venga avanti un’altra idea della scienza, l’idea dei quanti, in questo mondo che teme il principio di contraddizione… Bisogna fare in modo che l’aria permetta di mettere insieme le cose più disparate.

Nei documentari è affidarsi ad un imprevisto, ad uno stato di contingenza, dei punti in cui si spalanca il pulviscolo di tutto il possibile: io sono qui che parlo e potrebbe crollare il tetto, potrebbero buttare una bomba. Questi momenti di pura contingenza sono la materia prima della fotografia o del documentario.

Lo scarto, il meta-cinema, mi tolgono quel senso di falso. L’operatore che parla in campo fa parte dell’esistente in quel momento e non capisco perchè devo tagliarlo.

Il cinema fa il lavoro opposto, ricostruisce tutto, nel cinema è tutto deciso, questa è anche la schiavitù enorme del cinema. Nel documentario  quando parti con un’idea ti accorgi che nella realtà nulla corrisponde a quello che avevi pensato, è il contingente che ti porta altrove… La qualità del documentario è di agire in questo imprevedibile come i sogni.

 

MB Che gestazione ha avuto il tuo primo documentario Strada Provinciale delle anime?

 

GC Rai 3 di Angelo Guglielmi mi ha chiesto di fare un documentario a partire da Verso la foce e naturalmente capivo che non aveva senso questo fatto di prendere il libro e farne un documentario perché non c’era possibile corrispondenza. Verso la foce mi era costato moltissimo: è tutto un lavoro di appunti, è un viaggio per capire cosa c’è là fuori, per mettermi d’accordo con me stesso su cosa c’è là fuori… E ho pensato di risolvere il problema con il tema della gita scolastica o della gita di famiglia: così ho preso una corriera e ho invitato tutti i miei parenti da Ferrara, cugini e amici, e siamo partiti per un viaggio che è durato una settimana più o meno, un po’ ripercorrendo gli stessi tragitti di Verso la foce. Mi hanno concesso una grande libertà per cui io sono tornato dall’America in Gennaio, da Febbraio a Giugno tornavo in Italia una volta al mese e facevamo delle prove di riprese con questa troupe, questo è stato utilissimo più che per me perché questa troupe si è formata un suo modo di inquadrare dove io centro poco alla fine. Per sei mesi uscivamo portandoci dietro pile di libri fotografici e di pittura, confrontando le inquadrature e vedendo cosa si poteva ottenere.

 

MB Sicuramente portavi qualcosa di Hopper…

 

GC Certo, Hopper… Ma anche Piero della Francesca e credo che questo abbia contato molto.

 

MB Per quanto riguarda i riferimenti fotografici non possiamo non parlare di Luigi Ghirri…

 

GC Ghirri si interessa di ciò che viene scartato da tutti perché è banale, non interessa, o perché lo vediamo così spesso che non lo vediamo quasi più. Ghirri si propone di passare attraverso questo territorio del nostro uso delle immagini e il suo punto di vista non è quello del critico che distrugge la banalità ma dal punto di vista di chi prova affetto verso l’apparizione dei luoghi: cerca di capire come gioca l’affettività nella percezione del mondo esterno, noi partecipiamo al processo di apparizione e in questo senso anche ognuno di noi partecipa allo sviluppo della lingua, al progresso della sintassi e del linguaggio.

Le nostre case, la nostra presenza la nostra immagine quando ci guardiamo allo specchio partecipa a di questa relazione con gli altri.

Tutte le cose che noi guardiamo presuppongono un modo in cui vogliono essere viste: per esempio ha fotografato una sveglia al centro di un pianale, in quella foto c’era una simmetria che ordinava lo spazio quotidiano, abbiamo un’idea organizzativa dello spazio che passa attraverso la rappresentazione di un certo modo di apparire delle cose. Non c’è mai niente di casuale, è come se tutto fosse preparato per apparire.

Mi sembra che adesso si tende a mostrare le foto di Ghirri come merce estetica e si è perso un po’ di vista il significato della sua fotografia, della sua ricerca che vuole che qualsiasi cosa può essere interessante.

Dappertutto c’è un mondo già osservato e già manipolato, non esiste uno spazio vergine… C’è questo in Ghirri e non l’idea di fare una bella fotografia. La cosa più importante - diceva Ghirri - è quello che rimane fuori dalla fotografia stessa. La fotografia che faccio è un metro di misura per vedere quello che c’è fuori dall’inquadratura stessa. C’è una certa felicità di rapporto con quello che c’è intorno a noi, tutte le foto tendono ad essere festose perché festeggiano l’apparire delle cose del mondo. Le nostre categorie di «bello e brutto» ci portano ad un livello in cui alla fine non vediamo poi più niente, vediamo quello che ci dicono di guardare. Per Ghirri c’è una dignità di tutte le cose che hanno dignità di essere nel mondo.

 

MB La sua fotografia colpisce per una dote di essenzialità, mi sembra il risultato di uno sguardo che opera per sottrazione…

 

GC Quello che c’è sempre in Ghirri è questo prendere un punto focale della foto e poi obbligare a fare un piccolo spostamento e ne deriva un senso di straniamento. Una foto in cui non c’è niente è molto audace, è difficilissimo fotografare il nulla, è una dote percettiva. Dare ordine a qualcosa di contingente è difficilissimo, ci vuole molta audacia e bisogna essere pochissimo preoccupati delle critiche estetiche ma più legati alle sensazioni, a questa aisthesis, ad una vibrazione.

Ghirri era come innamorato di tutto quello che c’è fuori di noi, non c’era niente che scivolasse in una forma di negazione, lavorava a smontare questo concetto di realtà, lui lavorava su questo concetto di realtà illusoria.

Ghirri rifletteva anche sull’uso che facciamo delle foto che ha a che fare con la necessità, noi usiamo le foto per ricordare, la fotografia ha a che fare con le abitudini.

 

MB Cosa emergeva dalle vostre esplorazioni del paesaggio emiliano?

 

GC Una piattezza che ci ricordava la piattezza di certi luoghi americani di Walker Evans, la piattezza dei luoghi ci fa sentire come piantati in un catino e d’altra parte c’è un rasoterra che ti dà un grande senso di apertura. La veduta pianeggiante sembra abbia contribuito alla formazione di uno sguardo.

 

MB Hai tracciato un parallelo tra la via Emilia e il West: quanto ha influito il tuo rapporto con gli Stati Uniti nel periodo delle esplorazioni padane?

 

GC Io son tornato dall’America alla fine del ‘79 e  Ghirri si è fatto vivo all’inizio dell’80 e devo dire che siccome avevo vissuto nel Kansas, nel Midwest, riflettevo molto su cosa volesse dire essere in campagna nel Kansas ed essere in campagna vicino a Rovigo, che sono due cose incommensurabili. Credo che si senta un po’ in Narratori delle pianure quest’idea del reduce dall’America, c’è questo racconto in cui io vado a cercare il paese in cui è nata mia madre, quello è stato proprio in occasione del mio ritorno dall’America Questo fatto del confronto tra il grande e il piccolo so che è il nostro problema visivo e percettivo.

Che rapporti abbiamo con l’America? Dal mio punto di vista c’è un certo debito, come per esempio un debito che io vedo anche in Ossessione di Visconti per esempio: quel tipo di vagabondo che c’è in ossessione è poco italiano, è più americano. Questo debito è con un tipo di cultura americana che è stata fatta fuori, un tipo di cultura che si chiamava radicale e che non era una cultura istituzionalizzata: posso fare un esempio parlando di Sherwood Anderson con i suoi racconti sull’Ohio. È un modo di parlare della provincia dal punto di vista della provincia… Se metto accanto ad Anderson uno come Hemingway io vedo invece tutta una spettacolarizzazione vitalistica dell’uomo che è sempre in giro per il mondo. Io dico che quello da cui abbiamo succhiato di più sono proprio questi tipi di culture più modesta, più contenuta.

Mi sembra che più che mettere delle nuove idee sul mercato sarebbe il momento adesso per trovare dei punti e dei luoghi in cui noi ricapitoliamo questo tipo di accumulazione del pensiero italiano che è avvenuto fuori da questa pressione di mode, di chiacchiere e di pubblicità. Dovremmo accumularlo proprio come problema del pensiero. Credo che questo ci aiuterebbe anche a stabilire dei ponti tra persone che hanno la mia età e persone che, per esempio, hanno vent’anni. Dei ponti che vanno in varie direzioni dalla fotografia, al cinema, alla letteratura. Oggi mi sembra che il passaggio da una cosa all’altra sia più possibile.

 

MB Hai intitolato il tuo ultimo documentario Case sparse ma l’elemento più attraente è il sottotitolo «visioni di case che crollano», come può entrare la visione nel cinema della realtà?

 

GC Intanto la parola visione ha una tradizione molto lunga. L’apparizione ha a che fare con la mistica (vengono in mente le sante). L’uomo adulto che diventa l’imbecille razionale non capisce queste sante che diventano dei matti. La tradizione della visione va ad esperienze sciamaniche in Africa o in Asia… Per noi il vedere è diventato un processo meccanico come se esistesse un puro vedere retinico.

In tutto quello che ci succede possiamo dire che c’è un modo per poterlo mettere in discorsi, è un processo di concettualizzazione del mondo ma c’è un altro modo che fa parte della nostra vita che fa parte del sensitivo, della sensitività.

Nel Timeo gli dei hanno messo la sensibilità negli uomini, in greco è aisthesis che è la parola da cui deriva estetica che per noi è la scienza del bello ma originariamente è lo studio di com’è lo stadio percettivo, il sensibile. Il sensitivo sarebbe questo nostro tipo di coniugazione con quello che è fuori di noi, un connubio con quello fuori di noi.

Quel muro è giallo ma il fatto che sia giallo è solo un modo per metterci d’accordo, il muro non è giallo in sé, tutto il sensitivo è una nostra forma di accoppiamento con quello che è fuori di noi. Non parliamo di concetti ma di percetti, qualcosa che è un momento che poi scappa via, non posso concepire la visione in termini dell’oggettività… Gli antichi dicevano la vaghezza, il bello era dato dalla vaghezza che sfugge.

La visione richiede che l’uomo sia un po’ disarmato, se io so già tutto di un dato posto non vedo più niente, il percetto sarebbe questa nostra copulazione con quello che sta di fuori.

 

MB In Case sparse ritagli una parte importante per John Berger, anche lui studioso delle questioni legate allo sguardo. Come sei arrivato a pensare a lui come narratore nel film?

 

GC Il motivo per cui l’ho ingaggiato è che lui è un fanatico i questi luoghi e poi perché era un teatrante. Mi serviva a togliere uno sguardo sui nostri luoghi, volevo togliere un discorso sui nostri luoghi all’interno di una nostra parrocchia. Lui era in questo senso l’uomo che viene da lontano e che guarda le cose come un vecchio viaggiatore settecentesco. All’inizio non sapevo cosa fargli fare, l’ho portato in treno e non veniva fuori niente. La cosa si è risolta una sera in cui io mi sono messo in un angolo e ho scritto 10 righe in inglese e gliele ho date. Lui da quelle 10 righe ne ha ricavato un discorso che io ho potuto suddividere in molte parti.

Per il resto è stata pura improvvisazione, come quel discorso delirante nella casa di Polisella in cui ipotizza per quel luogo un’esposizione per farfalle e insetti.

Devo dire che ha funzionato anche lui come imprevisto totale.

 

MB Mi sembra tu sottoponga ogni elemento dei tuoi film ad un lavoro di apertura, per esempio anche quando ti servi di dinamiche espressamente teatrali, come in Case sparse, porti l’attrice (Bianca Maria d’Amato) a preparare uno spettacolo esponendosi all’esterno, a tutto quello che c’è fuori…

 

GC Questa attrice che avevo trovato l’ho indotta a pensare che noi facevamo delle prove e che ci sarebbe stata una recita più vera. Questo fatto credo che abbia tranquillizzato tutti. Il fatto di fare le prove su una panchina e poi arrivano dei signori, ma non erano prove stava imparando il testo. Questo credo sia la cosa che mi stava più a cuore. Un teatro che è tutto così rivolto verso al di fuori che è pronto a sbriciolarsi in qualsiasi momento. A Pomponesco passa un cane nel bel mezzo della scena, ma quel cane che passava mi sembrava fosse mandato giù dal cielo. Questo fatto di dissolvere il teatro nell’aria credo fosse il centro.

Credo che il teatro possa avere il suo senso solo dissolvendosi nell’aria…

 

MB Prima citavi Ossessione di Visconti: c’è una forma di debito nei confronti di un certo cinema italiano di quegli anni, magari anche solo un debito affettivo?

 

GC Io sono sempre stato impressionato da quel punto in Paisà, ambientato nelle valli di Comacchio dove veramente ti viene da dire come è possibile che gli sia venuto in mente di filmare tutto quel vuoto.

Ossessione per esempio è stato girato in un punto sul Po che si chiamava la dogana a 10 km da Ferrara, io ci andavo in bicicletta alla dogana, non avevo ancora visto Ossessione, ed era un posto dove non ci andava nessuno, perpetuamente deserto. Come è successo che Visconti è riuscito a trovare questo posto e ne ha fatto il posto di una visione epica? Mi sembra un momento di grande gloria.

Anche Roma di Fellini credo sia tutto da ripensare perché lì non c’è più distinzione tra finzione e realtà, è qualcosa che va al di là del senso dell’accadere e della meraviglia che viene dentro negli occhi. Credo che questa sia la linea della cultura italiana che va salvata. E pensando a certi ambienti in cui girava il cinema italiano, e penso per esempio all’alto Lazio de La Strada di Fellini, viene in mente che probabilmente l’Italia è ancora tutta da esplorare. Dov’è la realtà: questi viaggi sono fatti su continui inceppi, prendere appunti per esempio, è pieno di interruzioni, di fastidi, scrivi e uno passa e ti urla «Oh maestro cosa stai facendo?» ecco cos’è per me la realtà: è l’inceppo, il punto in cui l’immaginazione non mette a posto tutto e lascia le cose così. Nei documentari è affidarsi a un imprevisto a uno stato di contingenza, dei punti in cui si spalanca il pulviscolo di tutto il possibile: anche nel montaggio tu non puoi sapere fino all’ultimo momento se un’immagine starà bene con l’altra, è tutto imprevedibile. Certe immagini erano bellissime senza sonoro, bastava aggiungere un minimo di suono e quell’immagine scompariva, diventava subito convenzionale… Questo succede tutti i momenti. Detesto le musiche, noi abbiamo un sistema musicale basato su un sistema bipolare: dominante e tonica, un sistema molto coercitivo ma che implica un certo tipo di percorso, se lo usassi per le immagini dovrei seguire l’andamento musicale, dovrei attendere l’arrivo alla tonica per poter tagliare… Trovo più efficace la musica atonale, un fraseggio liberato da questo sistema convenzionale.

Nel nostro paesaggio domina questo modo di apparizione delle cose di tipo teatrale, in Inghilterra non esiste la rappresentazione teatrale della bella villa. Questo tipo di uso dell’immagine è di tipo teatrale, come se tutto il paesaggio fosse una scena. In Inghilterra non domina il paesaggio architetturale, domina il paesaggio pittoresco e si fa finta che il paesaggio sia naturalmente bello e tutto quello che vediamo entra già in un nostro sistema percettivo.

Io dico che c’è l’apparizione dei luoghi. C’è un fatto di abbaglio a cui segue un fatto di riconoscimento, in questo senso noi dentro l’apparizione riconosciamo qualcosa di noto che non vuol dire di conosciuto, è l’opposto.

Ghirri lavorava a smontare questo concetto di realtà, lui lavorava su questo concetto di realtà illusoria. La foto era come una forma di fantascienza…

Nella fotografia c’è un problema di contingenza, se faccio un quadro posso sempre operare degli aggiustamenti, la foto presuppone un momento preciso e quindi la foto è in balia della contingenza ed è anche la sua grande risorsa.

Credo però in una seconda fase, dall’altra ha contribuito alla ricerca di qualcosa di infotografabile, sono delle imprese… Dare ordine a qualcosa di contingente, è difficilissimo… Ci vuole molta audacia e bisogna essere pochissimo preoccupati delle critiche estetiche ma più legato alle sensazioni, a questa aisthesis, ad una vibrazione.

La foto per lui era un momento di apnea, di sospensione…




Intervista tratta da Rigabooks

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