L’estate dei festival / La Biennale Teatro di Latella

9 Agosto 2019

All’uscita sento qualcuno dire che lo spettacolo è slabbrato, lungo... Sono esattamente i motivi per i quali io amo il teatro di Lucia Calamaro, il rischio totale nel brusio della vita, la vertigine esistenziale, quella che non si riesce a governare. Il suo ultimo lavoro, Nostalgia di Dio, produzione Teatro Stabile dell’Umbria e Metastasio di Prato, ha debuttato in prima assoluta alla terza edizione della Biennale Teatro diretta da Antonio Latella. Già nel titolo con quel termine “nostalgia” rimarca la mancanza, un sentimento struggente che immobilizza.

 

Come si fa a non amare uno spettacolo che inizia con due uomini che giocano a tennis e uno, Francesco (Francesco Spaziani), quello che parlerà più a lungo in tutta l’opera, cita David Forster Wallace che racconta di Federer, mentre intanto muove tra le mani l’impugnatura della racchetta come fa il Divino prima che inizi ogni game, in una sfida continua al caso che può far piovere la pallina dal dritto o dal rovescio, tocco contro caso (leggere, su doppiozero, qui), contro Ananke, contro clinamen. Il precipitare nei fili del destino in questo spettacolo è condito di mille parole, di blateramenti, di storie di vita quotidiana, uomini contro donne, in cerca di una casa dalla quale sono stati cacciati, di un dio di cui si prova nostalgia, un dio simile forse a un bambino che con inconsapevole tocco ha creato il mondo, un dio che ha dimenticato quello che ha fatto perché era solo un piccolotto desiderante ed egotico al di sotto dei tre anni.

 

“Nostalgia di Dio” di Lucia calamaro, ph. Guido Mencari

 

C’è una donna, Simona (Simona Senzacqua) che si presenta sul campo con abiti anni trenta-quaranta e cita Il giardino dei Finzi Contini, e un’altra che guarda la partita silente, Cecilia (Cecilia Di Giuli), e si scoprirà che è la moglie che ha cacciato di casa Francesco, che da lei vorrebbe essere riaccolto, come alla Casa del Padre. C’è l’altro giocatore, Alfredo (Alfredo Angelici), che scopriremo essere un prete che porterà gli altri in un lisergico pellegrinaggio attraverso una Roma serale e notturna. Tutti recitano con quello stile “alla Calamaro” che riconosciamo ormai disseminato in vari attori, un parlare quotidiano, naturalista, che si arrovella su sé stesso fino a scoprire nervi, muscoli, ossa, profondità insondabili.

Le luci a lungo statiche del fedele, geniale Gianni Staropoli incidono solo quattro-cinque quadri diversi, con piena luminosità e un doppio rettangolo diversamente colorato sul fondo, come un geometrico Mondrian per gli sconvolgimenti sottili e ribollenti di anime inquiete, vaganti. Arrivano, i colori, a un blu di fondo finale con alcuni controluce che disegnano gli attori in silhouette, come a rivelare, o a nascondere, qualcosa.

Rivelare/nascondere continuamente, con l’ironia di dialoghi brillanti che si avvitano su sé stessi, tra trita triste banalità dei rapporti di vita quotidiana e metafisica, ricerca di qualcos’altro, di qualcuno, di altro, tra desiderio di una vita semplicemente differente e domande esistenziali fondamentali (chi sono io? chi mi ha messo qui? dov’è la mia casa?).

Qualcuno dice che lo spettacolo è troppo lungo, ma noi sentiremmo i personaggi fragili, puntigliosi, spettrali di Lucia Calamaro ancora più a lungo, per ore, simili per qualche rispetto a quelli di Thomas Bernhard: sappiamo che dai suoi labirinti di parole, maschere di leggero, inciso dolore, non si può sfuggire. Anzi che da essi è bello lasciarsi catturare: e sperdersi dentro noi stessi.

 

“Estado vegetal”, Manuela Infante – Marcella Salinas

 

Un altro spettacolo diluviale, troppo lungo e ripetitivo, al di fuori di qualsiasi buona norma teatrale, molto bello, segna la fine dei miei quattro giorni alla Biennale Teatro diretta da Latella, dedicata quest’anno alle drammaturgie. È Estado vegetal, scritto da Manuela Infante e Marcela Salinas e interpretato da quest’ultima che dà corpo e voce a sette diversi personaggi, in un ramificato filosofico monologo sulla potenza delle piante, sul loro stare ferme e trasmigrare, trasformarsi continuamente, contro il nostro inane movimento animale in cerca continuamente di qualcosa che porta solo alla distruzione, alla fine. I personaggi, le visioni si succedono caleidoscopiche, fino a una morte in motocicletta contro il fusto di un albero, a un cortocircuito con incendio, a una lode dello stare placido, sensibile, germinativo del verde, della natura che ci circonda, che ignoriamo e distruggiamo, con pezzi accattivanti sotto musiche emozionanti e facili – se volete – con incendi, pompieri, interrogatori, confessioni, dolorosi squarci di solitudine, intermezzi burocratici: insomma uno spettacolo mondo, come spesso i sudamericani sanno creare (le due artiste sono cilene). Un bagno di immaginazione e di pensiero in un festival militante, che tratta questioni urgenti. Qui si tratta di noi nel mondo, con una domanda su come, quando, perché sottrarci al nostro ingombrante io.

 

“Yuri”, Club Gewalt, ph. Andrea Avezzù ((courtesy La Biennale di Venezia)

 

Dopo il tennis di Calamaro, ancora di sport raccontano gli olandesi Club Gewalt in Yuri, ascesa, sacrifici, precipizi e cadute di un ginnasta, col doping, la droga, la fatica come sfondo. Il limite da combattere, da battere, diventa un ritmico incalzante perfetto balletto, come un coro irridente e popolare, come un nuoto sincronizzato che ci trascina (molto meglio del Dragon di Santarcangelo, a proposito di teatro e sport), con la sua ironica apparente insulsaggine quasi da boys&girls di qualche vecchio Studio Uno, in un epico racconto Dada sulla tensione, il fallimento, l’ansia da prestazione.

Così la stessa compagnia si esibirà poi in una sarcastica discoteca punk, con tanto di violente canzoni contro tutti i pregiudizi di genere, con attacchi ai partiti conservatori, bingo, parodie di serie televisive, esaltazione del queer, del veganesimo, di tutte le differenze, tra chitarre elettriche, tastiere, fumi e luci violente, senza più sedie per imbalsamati pubblici. Sconfinamenti.

 

“Love”, Patricia Cornelius – Susie Dee, ph. Andrea Avezzù (courtesy La Biennale di Venezia)

 

Qui siamo fuori dalla tendenza a ripresentare i soliti nomi di un mercato teatrale internazionale globalizzato, quelli che sembrano incarnare uno zeitgeist; qui siamo di fronte a un festival d’autore. Al di là di aggiornamenti sulla scena straniera estratti da contesti poco noti, con autori che forse non rivedremo mai più (quanti degli stranieri presentati nei festival poi si rivedono in giro per l’Italia?), le scelte di Latella sono piuttosto rivelazioni che meglio ci fanno entrare nella sua poetica. Così gli acclamati iperrealistici Love e Shit di Patricia Cornelius, con la regia di Susie Dee (Australia) narrano storie “marginali”, un amore tossico a tre in una specie di camera-ring il primo, la relazione tra tre “cattive” ragazze emarginate il secondo. In Love è interessante il ritmo, lo slanciarsi in situazioni senza uscita per immobilizzarsi verso l’ombra al rallentatore alla fine di ogni quadro, in una sospensione pensosa, nel cadere verso il pavimento come in continui knock-out della vita, e nel riprendere poi a bruciare nella scena successiva in loop senza scampo di sentimenti. Così in Shit il turpiloquio marginale diventa cifra espressiva di un disadattamento da un mondo senza aria, che esclude, emargina. Attivismi poetici.

Drammaturgia e regia in queste opere sono connesse intimamente, come la denuncia di un mondo pieno di mortali pregiudizi da cui evadere. E qui, ancora, si riconosce il segno di Latella, che si misura con la scrittura come trampolino per la creazione scenica in graffiante rivelante dialettica tra scena e testi.

 

“PenelopeUlisse”, Pino Carbone – Anna Carla Broegg

 

Agli spettacoli dell’ultimo turno serale introduce la lettura dell’Inferno dantesco di Annibale Pavone, uno degli attori più cari a Latella: e la sua scansione precisa rende, senza adattamenti, l’antico fraseggio dantesco godibile, contemporaneo.

Meno interessanti gli altri spettacoli italiani visti. Sembra che da noi si stia perennemente a variare cose già note, storie passate in giudicato, aggiornandole, condendole nei casi migliori di belle spezie spettacolari o musicali, di qualche effetto, impegnandosi in inutili, tautologiche digressioni sul tema. Parlo del Saul di Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro, in cui il re biblico diventa una rockstar con impresari giovani rivali e fallimenti di contorno, e dei poco incisivi, nonostante gli effettacci (e la bravura degli attori) brani di Progetto Due, un confronto tra Ulisse Penelope e uno tra Barbablù e Giuditta, la preferita tra le sue vittime, squarci ambiziosi ma privi di poesia, originalità e necessità sulla condizione della donna. Laddove le buone intenzioni non bastano.

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