Daniela Dal Cin

19 Luglio 2011

Oltre un ventennio fa, nel 1987, uno spettacolo portò l’attenzione su una compagnia torinese di fresca formazione, dal nome curioso, al limite dell’impronunciabile: Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. Il lavoro in scena aveva a che vedere con il capolavoro di Jean Genet e si chiamava Le serve: una danza di guerra, di cui firmava la regia Marco Isidori. Spiccava la presenza angolosa, quasi sinistra, di Maria Luisa Abate, volto simbolico di questa esperienza. Alla fine della rappresentazione, in un teatro fiorentino da lungo tempo passato a repertorio più leggero, si notava una signora bionda, minuta, come una figurina di un libro di fiabe inglese di fine Ottocento, che sovrintendeva allo smontaggio. I suoi gesti erano calibrati, rituali: eppure stabilivano esattamente la precisa sequenza delle azioni, dando il ritmo ai tecnici, tenuti quasi sotto un’ipnosi coreografica. L’invenzione è il territorio di questa dama, che sorride nella fotografia, di fronte alla sua creazione per Bersaglio per Molly Bloom, personale rivisitazione dal celebre monologo, presentata nel 2002.

 

Come spesso accade nel suo lavoro scena e costume nelle sue creazioni si fondono e confondono e per solito gli attori si ritrovano incastrati in camicie di forza, piazzati in grandi girelli da bambini troppo cresciuti, come in una bella versione di qualche anno fa di Giorni felici, in cui Winnie era di fatto crocifissa visivamente a una infanzia senza nome e senza senso. Una sua incursione nei sacri recinti della Scala, per un Seminario sulla gioventù coreografato da Enzo Cosimi, avevano fatto gridare allo scandalo i parrucconi per una scena pop in cui dominava una gran vagina.

 

Nel laboratorio vicino alla stazione di Porta Susa, la maestra di un artigianato immaginifico e senza freni elabora le sue incantevoli meraviglie da camera. Come una moderna Giovanna Garzoni, incide in un nocciolo di pesca il disegno di un paesaggio, o disegna una gran astronave a cui è legato il bravo Paolo Oricco, acclamato in giro per l’Italia, in una bella edizione di Loretta Strong di Copi, finalmente amara al punto giusto, senza rinunciare alla necessaria iniezione di visionaria follia.

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