Mario Bisi: la Resistenza come scoperta continua

8 Settembre 2013

Mario Bisi, classe 1919, è stato un importante antifascista attivo dopo l’8 settembre 1943 nella zona tra Soliera e Carpi, suo territorio di origine in provincia di Modena. Franco era il suo nome di battaglia. È stato nominato commissario politico del Raggruppamento brigate Aristide. Per tutta la vita non si è mai legato a nessun partito politico. È sposato e ha avuto due figli.

 

 


 

Sono nato nel 1919 quando è nato il fascismo.

 

Da bambino e poi da ragazzo, come tutti quanti noi, feci il classico percorso fascista a partire dal balilla. Non avevamo davanti a noi nessuna altra immagine se non quella. Le condizioni economiche e sociali erano particolarmente dure e difficili, ma sono state comuni alla stragrande maggioranza della popolazione. Non è che ci fosse niente di straordinario. Vivevamo la vita senza delle reazioni violente.

 

Giovani. Ph. di Ottorino Ferrari

 

Non sempre il sistema fascista era accettato passivamente, ma nella stragrande maggioranza dei casi finiva per essere subito o, se non subito, qualche volta anche partecipato. Non è vero che ci fosse una ribellione continua, costante e molto ampia: c’era negli antifascisti che avevano già una certa età. Quando i ragazzi avevano venti anni all’inizio del regime, già avevano avvertito o già avevano avuto dei precedenti in cui la vita politica si era manifestata in altro modo e quindi avevano una memoria diversa. Io della classe 1919, prima di maturare un minimo di coscienza politica, ho dovuto aspettare almeno i quindici anni. Solo allora ho cominciato forse a immaginare che l’organizzazione politica potesse essere qualche cosa di diverso, ma dove lo potevo leggere? Come lo potevo immaginare? Dappertutto era uguale, l’Italia era occupata dal fascismo da cima a fondo. Non c’erano dei termini di confronto, non sapevo che cosa stava succedendo in Francia o altrove. Per me, quello era il mio ambiente e in quello vivevo.

 

Taglio delle siepi, Istituto storico della Resistenza di Modena

 

Una delle situazioni che fece formare una coscienza antifascista, anche per i ragazzi della mia classe o giù di lì, fu la vita militare durante la guerra. Eravamo testimoni della distanza enorme che c’era fra l’organizzazione dell’esercito italiano rispetto, per esempio, a quella dell’alleato tedesco che era tutta altra cosa. Noi addirittura andavamo in guerra con il fucile modello 91 che era lo stesso dei nostri genitori o dei nostri nonni che avevano partecipato al primo conflitto mondiale. La divisa, l’organizzazione, il vivere militare del nostro esercito erano miserabili rispetto all’organizzazione estremamente efficiente dei tedeschi. Noi eravamo proprio a uno stadio primitivo. Non eravamo organizzati per fare la guerra, non lo eravamo da un punto di vista morale e da un punto di vista attitudinale. Gli italiani, nella stragrande maggioranza, non sono dei guerrieri. E questo naturalmente ci condizionava, ci faceva vedere la differenza e ci faceva anche ragionare. “Cosa stiamo facendo?” mi chiedevo spesso.

 

L’otto settembre 1943 erano trentatré mesi che stavo in Jugoslavia in un reggimento di fanteria. Ci fu il disfacimento. La resistenza jugoslava cercò di farci uscire dal suo territorio, non creò difficoltà, anzi facilitò al massimo la fuga degli italiani verso la terra di origine. Meno quelli che vennero catturati dai tedeschi e finirono in Germania, la stragrande maggioranza. Un altro destino invece attese chi seppe organizzarsi, chi ebbe un minimo di propria iniziativa cercando diversi percorsi. Io ho attraversato il Carso a piedi separandomi dai reparti perché potevamo essere più facilmente catturati. Sono tornato a casa dopo venti, venticinque giorni di marcia. E come me qualche altro, non pochi, ma la stragrande maggioranza finì invece nelle mani dei tedeschi e poi in Germania.

 

Il vero momento in cui nelle nostre zone ci fu un rifiuto deciso e determinato nei confronti dell’organizzazione fascista fu al momento del passaggio dal fascismo del ventennio a quello nuovo che si presentava ancor più violento. I ragazzi che come me stavano al fronte dovevano capire come difendersi per non partecipare a una guerra che gli italiani praticamente non avevano accettato. Non fu così per tutti. Fu così per me. Io ero stato in Jugoslavia e sapevo cosa mi era accaduto in quel periodo e questa esperienza riuscii anche a trasferirla nel seguito, ma un ragazzo a diciassette o diciotto anni che veniva chiamato per andare a combattere con i repubblichini non sapeva niente, non conosceva niente, non aveva nessuna idea… a che cosa doveva fare riferimento? L’unica cosa da fare era quella di cercare di occultarsi e naturalmente cercare di aggregarsi con altri e aggregandosi si finiva per dare vita al movimento resistenziale.

 

Il taglio del grano. Ph. di Ottorino Ferrari

 

Furono gli antifascisti della prima ora quelli che cercarono di dare un minimo di organizzazione alla nuova vita associata, anche se contemporaneamente nasceva il secondo fascismo e lo scontro da subito sembrava inevitabile. Allora bisognava inventarsi tutti i percorsi, tutti i modi, tutte le solidarietà, tutto quello che era indispensabile per darsi un minimo di organizzazione che nel modo più assoluto non conoscevamo. Era il gruppo degli antifascisti che aveva già fatto il carcere o il confino politico che, rientrato, aveva maggiore lucidità e un minimo di esperienza per muoversi nella nuova situazione… naturalmente reclutando. Il reclutamento per resistere al fascismo doveva essere fatto con molta prudenza perché non si conoscevano le reazioni del ragazzo che si aveva di fronte. Si associavano due necessità: quella di organizzare e quella di dare un riferimento che li guidasse perché a diciassette, diciotto anni non sai dove vai a sbattere. Fortunatamente, però, poco per volta, l’organizzazione prese forma; fu un processo abbastanza lungo che iniziò con l’otto settembre e andò avanti fino alla metà del 1944 quando i primi gruppi incominciarono a muoversi e ad agire.

 

La Resistenza ha differenti sfaccettature a seconda dell’ambiente e delle condizioni nelle quali le diverse formazioni o i diversi schieramenti si sono trovati perché una cosa è quella montanara, a ridosso della Linea Gotica, un’altra cosa è quella della Venezia Giulia o del Piemonte, ancora un’altra cosa quella di pianura. La particolarità del nostro territorio è che sarebbe stato, dal punto di vista della operatività della Resistenza, assolutamente sfavorevole perché l’ambiente così pianeggiante non ti ripara. Addirittura ordinavano il taglio di ogni tipo di siepe. L’unico riparo che avevamo era la partecipazione popolare. Qui era un mondo contadino. Chi sono allora i partigiani? Sono i figli dei contadini che a un certo momento trovano riparo nell’ospitalità, nei nascondigli e nei modi di mascherare la presenza di questi ragazzi nelle campagne. Allora il sistema era quello mezzadrile: le famiglie erano solitamente molto numerose e quindi vi erano anche i giovani che, in un qualche modo, dovevano proteggersi dalla cattura per non avere risposto alla chiamata alle armi.

 

Vita di Campagna. Ph. di Ottorino Ferrari

 

Il primo vero impatto della Resistenza nel nostro territorio avviene con la trebbiatura del grano, ossia come difendere il raccolto. Se il grano fosse stato trebbiato come avveniva regolarmente, sarebbe stato preda certa dei tedeschi. Ci fu un mascheramento che si ottenne attraverso il taglio del grano, però raccolto in covoni e non trebbiato. Quindi difficilmente trasportabile da parte dei tedeschi. I partigiani tolsero le cinghie di trasmissione in cuoio dalle macchine trebbiatrici. Le raccogliemmo e le occultammo in modo da rendere impossibile la trebbiatura con il mezzo meccanico. E come fare? Bisognava comunque trebbiarlo per utilizzarlo. La gente si inventò tutti i sistemi, utilizzando quello che aveva, come le ruote delle biciclette. La fantasia del contadino è un’inventiva che ci si potrebbe fare un vero e proprio racconto. La salvaguardia del grano e quindi della sopravvivenza delle famiglie mise nelle condizioni di far partecipare l’intera popolazione a questo processo di Resistenza. La nostra forza stava nella coesione.

 

Dal punto di vista politico, i ragazzi che hanno partecipato alla guerra di Liberazione avevano diciotto, diciannove anni (la media non superava i diciannove) e non sapevano niente. Semplicemente a un certo momento hanno partecipato appunto per sopravvivere. Ecco, bisogna immaginare che il combattente partigiano tutto quel che poteva evitare di scontro lo evitava, ed era anche l’ordine dei comandi. Si doveva evitare al massimo la perdita di vite umane perché per fare la guerra e per dare le fucilate si corre il rischio di morire. Il nostro intento era quello di sopravvivere, non di morire! La Resistenza è qualche cosa di diverso dal lottare, dal fare una guerra più attiva. Noi la violenza la stavamo subendo. Naturalmente ci difendevamo, però la stavamo subendo. Non è che noi fossimo volontari per la guerra, eravamo volontari contro la guerra. Ecco questo è un po’ il mio modo di interpretare la Resistenza. L’esperienza è fatta sul campo, è un’esperienza sul vivo. Dovevi imparare a muoverti e ad agire contemporaneamente, non c’era la possibilità di istruirti a muoverti, dovevi imparare nel fuoco.

 

Il fenomeno Resistenza nacque poco per volta, non scaturì all’improvviso l’otto settembre. Fu proprio la partecipazione che man mano che crebbe il movimento sempre più si perfezionò, sempre più si organizzò. Non è stata un’invenzione, è stata una scoperta continua!

 

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