Prima stella a sinistra / L’utopia di Walt Disney

3 Marzo 2022

Se si apre il dizionario online Treccani se ne trova la voce. Disneyzzazione viene definita la tendenza a una semplificazione popolare ricostruita ispirandosi a canoni di fantasia. Alla lapidarietà di una tale attestazione segue una lunga serie di esempi di utilizzo tratti da quotidiani, non proprio lusinghieri. La disneyzzazione, secondo un estratto di un articolo del Corriere a firma di Maria Latella risalente al 2001, “contaminerebbe” musei e residenze di valore storico riuscendo a impregnare del suo cattivo gusto addirittura gli interni della casa di George Washington. C’è poi Giampaolo Fabris che, stavolta dalle colonne di Repubblica, alla disneyzzazione si riferisce agitando il rischio che essa “avveleni la gente in nome della caffetteria supertrendy”. Come se ciò non bastasse, viene convocato pure Bruno Zanardi, “principe dei restauratori italiani” che definisce “questo modo di procedere scellerato”. Ma, a ben vedere, una rassegna di questo genere, frettolosamente messa insieme a partire da articoli di giornale, è solo la punta di iceberg di una ben più articolata lista di intellettuali, studiosi e artisti che nel tempo hanno puntato il dito contro Walt Disney, trasformandone l’immagine in un aggettivo riprovevole. La lista anche qui è lunghissima, si va da Adorno e Sadoul, passando per il sociologo George Ritzer (autore del termine disneyzzazione), Baudrillard e ancora Marc Augé. 

 

Contro un tale andazzo esce nel 2005, Walt Disney. Prima stella a sinistra, di Mariuccia Ciotta, che fin dalle prima pagine si chiede come tutto ciò sia potuto succedere. Come – enigma – potesse così disinvoltamente essere disconosciuta la sua fondamentale lezione e come – enigma nell’enigma – la sua figura potesse essere divenuta bersaglio sia del maccartismo che della sinistra radicale statunitense. Inutile dire come nel frattempo le cose siano, se possibile, persino peggiorate. Alla lista si sono, infatti, aggiunti Banksy che con la sua istallazione Dismaland (2015) rilegge in chiave distopica il noto parco di divertimenti ideato da Walt, o ancora le accuse di inappropriatezza sollevate da attivisti e movimenti progressisti. Sono proprio queste critiche ad aver recentemente portato la Disney Corp. alla riscrittura e/o alla dismissione dei grandi classici della casa. È così che esce una nuova edizione del volume (La nave di Teseo, 2021, € 20), in cui ancora più chiaro (in quanto sottolineato in una nuova introduzione) ne appare l’intento di fondo: ritornare al “vero” Disney, ritrovandolo oltre la calunnia. 

 

Missione che sarebbe apparsa impraticabile ai più ma che Mariuccia Ciotta persegue caparbiamente, portandola avanti nell’unico modo possibile, ovvero ricostruendo minuziosamente i fatti, interrogando gli ultimi protagonisti (prima che, vista la loro età, sia troppo tardi), rileggendo criticamente l’immensa bibliografia che intorno a Disney si è progressivamente accumulata. Ne viene fuori un volume straordinario, una vera e propria inchiesta che si dipana lungo quasi 500 pagine, in un inconsueto (se è vero che quando c’è l’uno manca, di regola, l’altra e viceversa) mix di ardore e competenza, in cui l’impegno politico di ribaltare lo stereotipo viene onorato con la dedizione e la scrupolosità dello storico, unita a una solida padronanza delle questioni estetologiche poste in essere dall’opera disneyana. Tre fronti, dunque, politico, estetico e storico, convergono verso l’obiettivo di restituire un’immagine più convincente dell’uomo Disney, del suo contributo artistico e più generalmente culturale nella storia del Novecento. 

 

Mickey Mouse, la sua creatura più celebre, eredita da Walt i tratti fondamentali: è avido di vita, anarchico, sensuale, disordinato e irriverente. Arriva, negli anni 20, come un turbine, con la sua volontà di potenza, a scompigliare l’ordine costituito, rappresentando per il tramite delle sue prerogative di cartone animato, la necessità di forzare i limiti del plausibile, di piegare la realtà e il suo corredo di ingiustizia, alle necessità dei tempi nuovi. Egli si fa largo come un simpatico trickster in grado di riportare giustizia in un mondo governato da figure dell’autorità che appaiono – vedi Gambadilegno – sovradimensionate, tracotanti, boriose e, soprattutto, illegittime. Toccherà a Mickey Mouse rivelare la reversibilità dello status quo: il suo corpo elastico, per definizione “senza organi”, mettendo Gambadilegno a gambe all’aria, potrà indicare la via per un nuovo riscatto.

 

Mickey Mouse mostra il re nudo (siamo alle soglie della grande crisi del ‘29) e d’altra parte segnala una via d’uscita, letteralmente un futuro. La sua proverbiale “fantasia” appare allora come un’arma rivoluzionaria, la vera arma nelle mani dei tantissimi nullatenenti, sfruttati da padroni senza scrupoli, di cui l’America degli anni ‘30 velocemente si popola. Basti dare un’occhiata a uno dei primi cartoon (non a caso prediletto da Frank Capra): Steamboat Willie. Nello sketch, Mickey Mouse organizza un vero e proprio concerto con niente: una mucca, delle pentole, un secchio dell’immondizia, un martello, attrezzi da lavoro rifunzionalizzati all’occorrenza come espedienti per fare arte, strumenti, quindi, di emancipazione creativa, rivelati grazie all'inventiva, al pensiero laterale.

 

Si capisce come un tale intreccio riveli il valore intrinsecamente politico della “fantasia”. La capacità di sognare dei personaggi di Disney non ha nulla di evanescente, non prospetta alcuna fuga verso mondi vacui, anzi, appare come il vero vantaggio dei deboli e degli sfruttati, rivelando un mondo di possibilità “oltre il reale” che i bruti Gambadilegno, inquadrati nella routine, non possono sperare di emulare. È proprio questa flessibilità – corporea quanto di pensiero – che permetterà ai medesimi personaggi di attraversare la grande crisi, divenendo eroi popolari, mentre l’ordine costituito va a picco. Ed è ancora per questa via che essi potranno apparire come perfetti eroi roosveltiani. Mickey Mouse e i suoi amici sono destinati a rappresentare, con il loro surrealismo situazionista, irriverente e umoristico lo spirito pioneristico della rinascita, incarnando un’alternativa vincente alla retorica del povero diavolo tipica del paternalismo di sinistra.

 

Il potere simbolico del lavoro di Disney si rivela agli occhi di un altro grande regista e teorico rivoluzionario, Sergej Ėjzenštejn, sbarcato in America, grazie a un contratto con la Paramount. Una fotografia, scattata nel 1930 a Los Angeles, immortala Walt e Sergej, strana coppia, accomunata da una comune visione poetica politicamente orientata a sovvertire il reale e a violare “l’ordine delle linee, della luce e dei suoni”: il loro incontro, la loro “associazione a delinquere”, si imprimerà, come un monito, nella loro memoria. 

 

Sergej M. Ejzenstejn in compagnia di Disney nel 1930.


C’è ancora Walter Benjamin. Pochi sanno che, nelle prime versioni dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) – il riferimento al disegnatore e animatore dell’Illinois verrà dismesso nelle versioni dell’opera pubblicate postume – egli indicasse Disney alla stessa stregua dei nuovi artisti rivoluzionari come Brecht, Majakovskij, Picasso. Micky-Maus (questo il nome tedesco di Topolino) appare a Benjamin perfetto eroe dei suoi tempi, per dar corpo (un corpo come si è detto flessibile) alla dimensione onirica della psicologia collettiva, incarnata dal cinema e ancor più dai disegni animati appena affacciatisi nel novero dei linguaggi dell’intrattenimento di massa. 

 

Ma di cosa si tratta nel concreto? Come sostanziare la poetica di Walt Disney? Abbiamo visto quanto essa punti sull’idea di rendere possibile l’impossibile. I personaggi di Disney sono irrequieti e cambiano costantemente forma, costringendo lo spettatore a seguirne le mille evoluzioni. L’evocazione dell’universo animale, generalmente considerato come una trovata banalizzante, viene, per esempio, riletto da Ciotta come inavvertito espediente per ingarbugliare le cose al livello più profondo: quello metafisico. I personaggi umanimali di Disney danno corpo a un immaginario di ibridi, multi-naturale, sempre cangiante, finendo per orientarsi, fino quasi ad aderirvi, al totemismo delle popolazioni considerate “selvagge”. A questo proposito, non si può non rilevare come la svolta multinaturale in corso nelle scienze umane possa portare a una rilettura del lavoro di Disney, in un’ottica meno stigmatizzante. 

 

Man mano che lo studio individua trovate e soluzioni tecnologiche per “allungare” i propri corti (con l’obiettivo di raggiungere la fatidica ora e mezza dei lungometraggi), la poetica disneyana può dipanarsi in narrazioni sempre più complesse. Queste narrazioni, piuttosto che concretizzarsi come puro intrattenimento realizzato dando corpo a una sorta di fuga solipsistica verso un mondo favolistico, rappresentano la convocazione di un universo problematico, popolato da mostri, in lotta con la società per affermare se stessi e la loro specialità. Dumbo, Ferdinando il toro, il Drago Recalcitrante, Willie la Balena, lo stesso Pinocchio (da Disney rilanciato in un film del 1940) sono tutti personaggi in polemica con il limitato orizzonte di valori piccolo borghese, destinati a manifestare, come brutti anatroccoli, la propria bellezza, il proprio talento, oltre il disprezzo.

 

Se si gratta la superficie, perfino Biancaneve (1937) può rivelarsi nella sua radicalità. Intanto, per il fatto di recuperare una drammatizzazione vivida, rispetto alle riscritture e riduzioni “puritane” della fiaba allora in voga. La fuga nella foresta della piccola è esemplare in questo senso, assumendo toni intensi, quasi espressionisti (ricordiamo che molti illustratori provenivano da quel milieu), con l’obiettivo di proporsi come diretta proiezione delle sue paure. D’altra parte, la strega del medesimo lungometraggio è lugubre e negativa. La brutta fine a cui sarà destinata non sarà edulcorata in ossequio a un presunto perbenismo disneyano: brucerà fra le fiamme, come merita, senza riguardo. Ancora, Biancaneve, la figlia di nessuno, potrà realizzare di non essere sola, riconoscendosi in un mondo animato in cui topolini e stoviglie fanno tutt’uno per levarla dagli impicci: solidarietà multinaturale verso gli sfruttati, ancora una volta, non scontata. Ma soprattutto, Biancaneve si presta a imbastire una revisione critica del luogo comune per cui le eroine disneyane sarebbero figure femminili passive e in fin dei conti sottomesse.

 

Oltre a esibire un caratterino a dir poco energico, riuscendo alla fine a imporre la loro visione, esse si caratterizzano per una carica erotica vivificante. La loro sensualità riaccende il desiderio, riattiva lo spazio circostante, riporta dinamismo laddove tutto sarebbe stato fermo, funzionando anche come strumento di auto-affermazione, utilizzato per far prevalere il proprio punto di vista nei confronti degli antagonisti.

Venendo alla figura intellettuale di Disney, si può rilevare come il suo modo di rivolgersi alla creazione artistica fosse peculiare. Lungi dal presentarsi come figura di artista solitario, egli sposa una logica di creazione complessa, frutto del coordinamento fra creatori specializzati, orientata all’esplorazione delle possibilità offerte dalla tecnologia. Fin dagli esordi, l’arte di Walt Disney mette insieme uno spiccato carattere ingegneristico e uno spirito manageriale intrigato dalla possibilità di agire come un collettivo di intelligenze. Sarà questa visione del proprio ruolo di artista (che troverà una corrispondenza in quella proposta da Umberto Eco in Opera Aperta, per differenza con la posizione storica, di artista artigiano creatore unico dell’opera) a rappresentare la modernità del suo approccio e allo stesso tempo a metterne a repentaglio l’impresa. Tanti sono, infatti, gli incidenti di percorso che avranno un ruolo dolce-amaro nell’avventura di Disney, segnandone da una parte la buona sorte e dall’altra disseminando la sua carriera di equivoci destinati a segnarne l’immagine pubblica.

 

La nascita dello stesso Mickey Mouse può essere, in questo senso, considerata come una vera e propria fortuna derivante però da una sconfitta. Il famoso topo nasce infatti come reazione alla perpetrazione di un sopruso, ovvero lo scippo ordito dalla Universal ai danni di Walt del personaggio a quei tempi di maggior successo dello studio (Oswald il coniglio). La major arriverà ad assoldare lo staff di disegnatori di Disney allo scopo di costringerlo ad accettare di farsi comprare, sottomettendosi al suo potere economico: Walt perde Oswald e parte dei suoi più valenti disegnatori ma non si piega. Mickey Mouse arriva, allora, a rimpiazzare il coniglio, condannato, senza il soffio vitale di Walt, a un rapido oblio. È in questo frangente, però, che si diffonderà il pettegolezzo che lo stesso Mickey fosse stato ideato da uno dei suoi disegnatori e non da Walt, contribuendo ad alimentare la calunnia che avrebbe dipinto Disney come un abile impresario più che come un vero artista. La sua pervicacia nel portare avanti un business indipendente gli verrà fatta pagare cara. 

 

La ricostruzione di Ciotta affronta anche i fatti relativi al famoso sciopero tenuto il 29 maggio 1941 di fronte ai cancelli della Disney. La sindacalizzazione violenta degli studios californiani si ritroverà più o meno consapevolmente (a seconda dei casi) a fare gli interessi dei grandi monopolisti, spezzando la credibilità dei free rider come Disney. Comunque la si metta, questo sciopero sarà destinato a segnare la vita dell’azienda, rappresentando un momento di rottura, da cui non si potrà più tornare indietro. È a proposito di un tale momento traumatico che il lavoro di ricostruzione storica portato avanti dall’autrice assume, quindi, maggiore rilievo. Ciotta riesce a mettere ordine in una matassa densa di sentito dire, pettegolezzi, ricostruzioni falsate e in malafede, che perverranno al risultato di “cancellare” Disney, costruendogli intorno il fantoccio di uomo d’affari intollerante e senza scrupoli che il suo nome si porta dietro. 

 

Il resoconto segue Disney fino alla sua morte, culminando in una ricca sezione finale di interviste a familiari e collaboratori stretti del regista. L’ultima parte della vita di Disney si rivolge alla creazione di Disneyland oltre che alla progettazione di Celebration, la famosa “città ideale” da lui stesso fortemente voluta. Ambedue le realizzazioni sono generalmente indicate come distopie, frutto di una visione kitsch e totalizzante. Ciotta mostra quanto una posizione di questo genere possa essere rivista, mostrando, dati alla mano, come per la realizzazione di ambedue i progetti fossero state convocate le migliori menti del tempo e, d’altra parte, come essi mostrassero l’impronta, la zampata di Disney. Tutto plausibile. Se non fosse che fra le righe, la medesima Ciotta insinui come qualcosa si fosse incrinato alla morte di Disney, non appena del suo lavoro si sarebbero appropriati i grandi consigli d’amministrazione della multinazionale che tutti conosciamo. Qualcosa, insomma, deve essere andato storto. Rimane da raccontare la storia di come il vitale Mickey Mouse degli anni ‘30 possa essersi trasformato nel difensore del perbenismo piccolo borghese delle sue famose strisce e di come Disneyland possa apparire a molti un’esperienza non entusiasmante quanto il “vero” Walt Disney avrebbe voluto. 

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