Vita di David Foster Wallace

19 Giugno 2013

Non è un caso che ci siano voluti quattro anni per portare in libreria la prima biografia ufficiale di David Foster Wallace, Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi (Einaudi, 2013, pp. 512, € 19,50, traduzione di Alessandro Mari) a firma del giornalista del "New Yorker" D.T. Max. Non tanto perché Wallace è considerato il più importante scrittore americano della sua generazione, né perché Infinite Jest (1996) è forse il romanzo più significativo degli anni Novanta con Pastorale americana di Philip Roth e Underworld di Don DeLillo. Nemmeno, infine, perché come scriveva Marguerite Yourcenar comporre una biografia significa costruire un personaggio, ed è dunque un'operazione più complessa quando il personaggio è depositario di un vero e proprio culto, letterario e non. Ma soprattutto perché Wallace non è morto di malattia o in un incidente d'auto: si è tolto la vita nella sua casa di Claremont, California, il 12 settembre 2008, e da quel momento in poi sul suo conto è stato scritto di tutto.
Ecco allora la difficoltà del compito che Max si trovava di fronte: come fare i conti con un evento tanto disturbante e al tempo stesso passibile di attrarre un'attenzione voyeuristica o morbosa? Come rispettare la vicenda umana tentando tuttavia di comprenderla per accrescere la conoscenza sullo scrittore? Come sottrarsi al rischio di una teleologia costruita a posteriori, e dunque allo scacco intellettuale di ricondurre ogni parola e ogni gesto al suicidio (e così al contempo spiegarla e fornirne una giustificazione)? Dire come ha fatto Mark Schechner che «tutta la sua [di Wallace] vita è stata una lettera di suicidio» appare come la cosa più semplice e sbagliata che si possa dire di ogni storia: come qualunque forma di tautologia annulla ogni area di conflitto, non fornisce una narrazione e quindi non produce senso.

 

  

 

Per risolvere questo problema Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi (titolo bellissimo che riprende una frase più volte ripetuta dal Wallace nel corso della vita) opta per una duplice soluzione che è al contempo epistemologica e stilistica. Da un lato Max segue una narrazione strettamente cronologica che procede dalla nascita a Ithaca, New York, nel 1962, fino agli anni californiani passando per la giovinezza in Illinois: «ogni storia ha un inizio e questa comincia così» sono le parole che aprono il libro. Dall'altra si affida a un utilizzo massiccio delle fonti, caricando la prosa di dettagli che, se ne attenuano in parte l'energia narrativa (il testo non avrebbe patito di un editing un po' più severo), tuttavia hanno il pregio di restituire un grado elevatissimo di aderenza ai fatti o, meglio, alle loro contraddittorie interpretazioni. Nella sezione dei ringraziamenti si legge infatti che «la biografia è uno sforzo congiunto», e proprio in questa pluralità di voci, in questo rumore umano di fondo che circonda una vita, si muove Ogni storia d'amore.

 

Il risultato è uno sguardo a distanza zero del mondo che la biografia racconta: la lente attraverso cui Max guarda l'oggetto del proprio studio diventa invisibile, ed è lo stesso studio a trasformarsi con il procedere del libro in un atto di appropriazione emotiva in cui cadono le distanze tra voce narrante, voce delle fonti, voce dello stesso Wallace. Quello che viene a mancare è una visione dall'alto, un quadro concettuale che dovrebbe inserire il singolo evento in un percorso per spiegarlo (di fatto Ogni storia d'amore non fornisce nessuna argomentazione critica, e nel timore di tradire il proprio materiale imponendo un punto di vista finisce per optare per un'orizzontalità quasi totale). E tuttavia forse proprio per questo è capace di restituire la sostanza emotiva della vicenda umana che racconta, ed è capace di farlo senza retorica, senza moralismi, con delicatezza e sobrietà. L'unico vero commento della voce di Max alla parabola di Wallace è la frase che chiude il libro, riferita al suicido e che rappresenta di nuovo un atto di sospensione del giudizio: «non era l'epilogo che ci si aspettava per lui, ma è l'epilogo che ha scelto». Di tutte, questa è forse davvero la cosa più importante che si possa dire.

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