Intervista a Eugène Green

23 Novembre 2011

In occasione dell’omaggio che il 29° Torino Film Festival (25 novembre - 3 dicembre) dedica al regista Eugène Green all’interno della sezione Onde, pubblichiamo alcuni passaggi dell’intervista che Massimo Causo ha curato per il catalogo generale del festival.

 

Newyorchese di origine e francese d’adozione, Eugène Green è un cineasta quasi inedito in Italia e quindi tutto da scoprire. Romanziere, saggista, regista teatrale e naturalmente cinematografico, è un autore di straordinaria leggerezza e spiritualità, idealmente vicino a modelli noti come Bresson e De Oliveira, sospeso tra la lucidità di pensiero del primo e la lievità filosofica del secondo.

 

Dagli echi nouvelle vague di Toutes les nuits, storia di un epistolario ispirato a Flaubert che attraversa gli anni ‘60 delle rivoluzioni culturali, all’ultimo A Religiosa portuguesa, elogio di Lisbona e presa in giro del cinema d’autore, passando per il medioevo con cavalieri, dame e orchi di Le mond vivant, per il misticismo amoroso di Le Pont des arts, costruito sulle note barocche di Monteverdi, e per i corti Le nom du feu, Les signes e Corrispondance, il cinema di Green è fatto di sentimenti vivi e complessi: amicizia, amore, lontananza fisica, vicinanza spirituale, incontro con la morte e con la religione. La grazia con cui sono trattati i temi, la forza pura delle immagini, la giovinezza luminosa dei suoi interpreti (Mathieu Amalric, Adrien Michaux, Natacha Regnier, Leonor Baldaque, già prediletta di de Oliveira) sono il segno di una liberazione e una giocosità che rendono il suo cinema unico.

 

Figura di intellettuale curiosa e complessa, Green rappresenta quel cinema di ricerca e riflessione sul reale che il Torino Film Festival da sempre promuove (quest’anno ci saranno inoltre la retrospettiva completa su Robert Altman e l’omaggio al giapponese Sion Sono) e che merita di essere scoperto, guardato, amato.

 

 

Ci piace pensare al suo Cinema come a un Cinema del trovarsi. Le sue storie sono pensate come tentativo di dare una risposta al vuoto che sembra occupare il mondo, valorizzando quel vuoto come spazio per una diversa vicinanza, per una unione differente tra le persone.

 

Credo che il mondo attuale tenda a nascondere la realtà spirituale che si trova nelle forme materiali, cosicché la comunicazione che passerebbe attraverso queste forme diviene irreale. I miei personaggi principali sono in generale in cerca di una conoscenza spirituale, e una comunicazione reale si stabilisce tra di loro attraverso l’assenza – di solito per mezzo di una persona o di un elemento intermediario. In Toutes les nuits, Émilie e Henri vivono un’intensa passione fisica, ma, nel momento del loro ultimo incontro, si trovano a constatare che non ne resta più nulla. Émilie e Jules non si incontrano mai, ma la loro relazione è senza fine e si incarna misteriosamente nella scena tra Jules e la ragazzina. In Le Pont des Arts, l’amore varca la soglia tra la vita e la morte, e il ponte che rende possibile questo passaggio è un brano di musica. I giovani protagonisti di Correspondances, che comunicano senza vedersi né sentirsi (utilizzando un mezzo, la posta elettronica, che è sintomatico del mondo nel quale vivono), si trovano separati e poi riuniti da un morto. Questo schema si ripete d’altronde nel mio ultimo romanzo, La communauté universelle, nel quale i due componenti di una coppia seguono un percorso di ricerca spirituale, separati, ma nella stessa città straniera, e sono messi in relazione grazie a una terzo personaggio e a dei fantasmi.

 

 

Il tempo sembra avere per lei un valore relativo, rispetto alla realtà dei personaggi. Esattamente come la Storia ha un valore “privato”, ricade nella sfera soggettiva dell’individuo in quanto scenario al quale appartiene solo marginalmente.

 

Il tempo è importante per me perché il cinema, come la musica, è un’arte che si fonda sul tempo, ma quello che lei dice non è sbagliato. Il tempo è essenziale al cinema, nel senso che nessuna immagine cinematografica ha senso se non rispetto a quella che la precede e a quella che la segue, e questo vale anche per la prima e l’ultima immagine del film, che sono, rispettivamente, preceduta e seguita dall’inesistenza del film. Ma il tempo del cinema, così come la realtà del tempo nella nostra esistenza, secondo me è sempre un presente, e, per la maggior parte della gente, il presente significa l’inesistenza del tempo. Invece, è esattamente il contrario. Il tempo del cinema è un presente plurale: quello della realtà che è stata registrata dalla macchina da presa, quello dell’azione rappresentata nel film e quello dello spettatore che lo guarda. Nella nostra realtà, il presente è il solo tempo vero, quello che contiene tutto ciò che è stato e tutto ciò che sarà. La storia non esiste se non rispetto a noi che ne veniamo a conoscenza, e ogni momento storico è stato un presente che ha avuto come conseguenza il nostro presente che, a sua volta, deve dare luogo alla storia futura. Credo che l’individuo, nel corso della sua vita, non possa conoscere che un presente personale, anche se questo tempo comporta accollarsi il peso collettivo dell’umanità.

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Il suo cinema potrebbe essere qualificato come “rigoroso”, eppure la vera qualità dei suoi film è la “leggerezza”, il valore impalpabile di una ricerca spirituale che conosce la gioia.

 

La sua considerazione mi fa piacere, perché coglie perfettamente le mie intenzioni. Quello che si può chiamare il “rigore”, cioè l’utilizzazione di un linguaggio personale e coerente, è un’esigenza stilistica. Ma per quanto mi riguarda, questo linguaggio è applicato sempre per ottenere un certo risultato, ovvero rendere esplicita allo spettatore questa presenza spirituale, reale ma nascosta, nelle forme visibili di ciò che chiamiamo la “realtà”. Quando ci si trova in contatto con questa presenza, il sentimento che si prova è sempre la “gioia”, un’esperienza che il nostro mondo contemporaneo ha più o meno occultato. La ricerca per arrivare a questo stato produce in colui o colei che la intraprende un sentimento di “leggerezza”, perché impara a liberarsi del peso della materia e ad avvicinarsi alla luce. È la condizione dei miei personaggi, per lo meno degli “eroi”, e dovrebbe essere anche quella dello spettatore che entra nel loro percorso di ricerca. Nella tradizione spirituale europea, che è la mia, la possibilità di avvicinarsi alla verità spirituale, possibilità che si riceve in dono, si chiama la “grazia”. In tutte le lingue romanze, questa stessa parola indica anche ciò che possiede l’incanto della leggerezza. Questa corrispondenza mi ha sempre colpito.

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La sua riflessione sul barocco la porta a raccontare storie che contrappongono personaggi segnati da una visione idealista del mondo e da un rapporto meccanicistico con la realtà: come ha sviluppato questo tema nel passaggio dalla sua esperienza teatrale a quella cinematografica?

 

Quello che io chiamo “l’ossimoro barocco” era la capacità degli uomini di quell’epoca di vivere simultaneamente due verità che la Ragione ritiene contraddittorie ed esclusive, ovvero: una concezione materialista e meccanica del mondo, e una concezione spiritualista, che considera Dio, nascosto nel mondo e non più visibile, la realtà suprema. Sono arrivato a questa conclusione nel corso delle ricerche sul barocco, che mi hanno aiutato nel mio lavoro sul teatro di quell’epoca; queste ricerche mi hanno anche aiutato, però, a concettualizzare una verità che avevo compreso a livello intuitivo e che è diventata una delle basi del mio pensiero personale, al di là dell’ambito del teatro. Credo che l’uomo barocco abbia trovato la sola soluzione possibile per vivere nel mondo post-rinascimentale, e che il problema al quale si è trovato di fronte esista ancora, tanto che l’“ossimoro barocco” resta una risposta molto attuale alla questione della spiritualità nel mondo contemporaneo. Poiché si tratta di uno degli elementi più importanti del mio pensiero, va da sé che lo si ritrovi nel mio lavoro cinematografico, ma senza alcun riferimento al teatro.

 

 

Nel suo cinema l’Arte è sempre epifania, rivelazione per i personaggi di una dimensione esistenziale armoniosa, rispetto al semplice e meccanico accordo di elementi materiali della realtà e della vita quotidiana.

 

I miei personaggi principali, gli “eroi”, vivono sempre un’epifania che dà un senso alla loro vita e al mondo. Credo anche che l’esperienza artistica, quando è intensa, sia una forma di epifania. In certi miei film, l’esperienza iniziatica che consiste in una “apparizione di senso” è anche, in un modo o nell’altro, un’esperienza estetica. Per esempio, per Pascal in Le Pont des Arts, è una voce che canta un brano di Monteverdi a ridare un senso alla sua vita, e l’apparizione post mortem della donna di cui ha sentito la voce è in un certo senso un’incarnazione di questa musica. La contemplazione delle fotografie gioca questo stesso ruolo per i tre membri della famiglia in attesa del padre in Les signes. Nell’epifania che si concretizza nel lungo dialogo con la vera religiosa in La religieuse portugaise, l’attrice Julie capisce che il suo mestiere, con il quale “cerca di mostrare la verità attraverso delle cose irreali”, è una metafora del mondo materiale e spirituale.

 

 

Nei suoi film la “nominazione” è un momento sempre determinante per il rapporto dei personaggi con la loro realtà.

 

Fin dalla più tenera infanzia so che è la parola che fa l’uomo e lo porta a distinguersi dalle altre creature viventi. Ma la parola fa parte di una lingua, e ogni lingua è unica quanto ogni essere umano. Una lingua è una versione particolare del mondo, e la lingua che si parla determina in parte ciò che si è. Questo significa anche che per l’uomo è il fatto di dare un nome a una cosa che la fa esistere. In uno dei miei romanzi, La bataille de Roncevaux, il giovane eroe basco, nato nella Repubblica francese, ha due lingue. Nel suo ricordo più lontano, quello del vento che passa tra i rami di un melo, si rende conto del fatto che, avendo a disposizione due parole per nominare il vento e due per nominare il melo, per lui queste cose esistono due volte con forme differenti, e anche del fatto che lui stesso è doppio. In Le nom du feu, la dottoressa dice al lupo mannaro che, in quanto animale, ha paura del fuoco ma che nondimeno è un uomo, dal momento che conosce il nome del fuoco. In Le monde vivant, l’animale che accompagna il cavaliere è un leone perché è lui stesso a dirlo e, allo stesso modo, l’uomo che Pénélope ama è vivo, pur essendo morto, grazie al fatto che lei gli ha dato la vita attraverso la parola. Il concetto appare anche in accezione negativa in Le Pont des Arts: Pascal dice al direttore del complessoche ha spinto Sarah al suicidio, che pensava lo chiamassero l’Innominabile perché è cattivo ma, di fatto, è perché non ha un nome, vale a dire che, malgrado tutta l’importanza che gliaccorda la società, rispetto alla verità spirituale dell’arte egli non esiste.

 

 

La struttura narrativa dei suoi film fa spesso ricorso alla forma epistolare, o comunque a una evidenza testuale della parola.

 

Ci sono dei rapporti epistolari tra i personaggi in Toutes les nuits e in Correspondances, e Julie de Hauranne si trova a Lisbona per recitare in un film ispirato a Lettere di una monaca portoghese, di cui pronuncia qualche brano; non bisogna però dimenticare che in tutti questi casi, lo spettatore “sente” i testi scritti. Un altro elemento essenziale del mio pensiero, è che nella sua realtà, la parola è sempre incarnata. Ho già sviluppato nei miei due libri sul cinema l’idea – troppo complessa da esporre qui – che il cinematografo è stato inventato alla fine dell’Ottocento come risposta alla crisi della parola e ho anche definito l’arte del cinema come “la parola fatta immagine”. Non si tratta della parola che si sente (la definizione vale anche per un film muto), ma del concetto stesso di cinematografo.

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