Mathias Malzieu. L’uomo delle nuvole

9 Luglio 2013

Come muore la bellezza? Come muoiono i candidi, i puri di cuore, coloro a cui non tocca, per destino o per conformazione dell’anima, la miseria di una quotidiana compromissione con il mondo ? 
Nel folclore ebraico dell’Europa centro-orientale esiste una maschera chiamata Schlemiel, l’Innocente. La parola deriva dall’unione, in lingua jiddish, di Schlimm “cattiva” e Mazl “sorte”. Letteralmente Schlemiel è quindi lo sfortunato. Sfortunato non perché inviso alla sorte, ma perché incapace di sottostare alle semplici pratiche che governano la vita degli uomini. Chi è Schlemiel arriva sempre in ritardo strappandosi, per la fretta, la manica della giacca nella maniglia di una porta. Spesso cade o si lascia cadere gli oggetti di mano. Rovescia il caffè del mattino, salutando perde il cappello, è sempre troppo alto, troppo magro, troppo gentile, troppo cerimonioso, “troppo qualcosa” per fare bella figura in società. Chi è Schlemiel è involontariamente buffo, non sa, non capisce come funzionano le regole del gioco. Non sa, non capisce, perché lui a quel gioco è di fatto estraneo. Chi è Schlemiel cammina sul ciglio della strada, perennemente su un limes, sottile linea di confine che divide la realtà dal sogno, ogni volta pronto ad andarsene, ogni volta con una valigia in mano.

 

Gli Schlemiel abitano da sempre la letteratura fantastica. Dall’uomo senz’ombra di Chamisso, passando per i goffi studenti delle fantasie hoffmanniane, fino agli abitanti dal sorriso melanconico e dalle mani di forbice del cinema di Tim Burton, siamo spesso abituati alla dolcezza innocua di fanciulli del tutto disadattati che ritagliano meravigliose sculture negli alberi o che all’improvviso, non appena ci voltiamo, aprono le ali per volare via con l’eleganza di un rondone. Perché se gli Schlemiel vivono male nel nostro mondo di comuni mortali, nel mondo del sogno portano scettro e corona. Simboli della lacerante condizione di alterità dell’anima poetica di fronte al reale, sono spesso creature metamorfiche - a volte dotate di piume nascoste sotto la giacca, a volte di cesoie o di innesti meccanici nel corpo - ma comunque sempre capaci di meraviglia e bellezza.

 

 

Nell’ultimo libro di Mathias Malzieu, L’uomo delle nuvole, pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Cinzia Poli di questo preciso genere di bellezza, appunto, si parla. Malzieu, cantante dei Dionysos - gruppo rock psichedelico tra i più seguiti dal pubblico francese - e da qualche anno anche scrittore, non è nuovo a questo genere di narrativa consapevolmente e programmaticamente sbilanciata sul genere fiabesco (dei suoi libri in Italia, sempre per Feltrinelli, è uscito nel 2012 La meccanica del cuore, storia di un bambino con un orologio al posto del cuore).

 

Anche in quest’ultimo caso si tratta di una fiaba. Tom Cloudman, uomo-nuvola di nome e di fatto, è a tutti gli effetti uno Schlemiel. Da sempre maestro nelle contusioni, negli ematomi da scivolamento sui pattini, nei traumi da caduta dalle scale decide di fare di questa sua conclamata incapacità di reggersi in piedi un’arte e gira per le fiere di paese dentro una bara su ruote intrattenendo il pubblico con numeri deliranti. Ogni volta tenta il volo da tetti di granai, torri di sedie pericolanti, alberi, finestre, abbaini e ogni volta i voli finiscono in ospedale. Tagliuzzato, ricucito, poi di nuovo strappato, vive come un fantoccio di pezza senz’ossa e senza peso. Il suo è un mondo sbilenco, fatto di nulla. La sua vita riposa negli applausi del pubblico. La sua felicità si misura in vertigini e schianti.

 

Fin qui tutto bene, tutto nel copione di ogni Schlemiel che si rispetti. Ma un giorno, dopo un volo finito particolarmente male, in ospedale gli scoprono un tumore alla spina dorsale. Un tumore di quelli cattivi, di quelli che non lasciano molto tempo. Come muore allora uno Schlemiel? Come muore, come lascia il mondo chi al mondo, di fatto, non appartiene?

 

   

 

L’ospedale, che ci hanno insegnato essere luogo di controllo e punizione oltre che di cura, si rivela presto una gabbia insopportabile per chi, per statuto, è completamente al di fuori di ogni ordine. Costretto ad arrendersi alla malattia, alla perdita di peso, al lento cedimento delle ossa erose giorno per giorno da quella che lui chiama “la barbabietola”, Tom Cloudman si ribella come può rifugiandosi ogni volta nel fiabesco, rubando piume dai cuscini dei suoi compagni di corsia per costruirsi un paio di ali, per poter cadere un'altra volta, per fare di nuovo il suo show (e poco importa se sarà ormai solo per sé e per un bambino malato di leucemia che si ricorda di lui quando ancora era un giovane uccello). Nibbio smagrito con le ali attaccate alla schiena con lo scotch, falco legato a terra dalla catena del catetere, costretto a tirarsi dietro la flebo come un trespolo con le ruote, Tom Cloudman cede ogni giorno di più all’ordine del reale, alla normalità della cura, per lui ancora più devastante della malattia stessa. Per lui non sembra esserci scampo, finché un giorno, inattesa, arriva la fiaba a rimettere a posto le cose. La fiaba nella figura di una meravigliosa donna-uccello, sensuale abitatrice del tetto dell’ospedale dove, sconosciuta a tutti, esiste un’enorme voliera, varco aperto verso un’altra dimensione, verso quello che E.T.A. Hoffmann per i suoi personalissimi Schlemiel sofferenti chiamava Atlantide, il regno del volo.

 

Tra la bellissima donna-uccello e Tom dalle ali fatte di piume di cuscino si stabilisce subito un patto. In cambio di un figlio con lei, lui avrà salva la vita. In cambio di un figlio, per una sorta di laica e umanissima transustanziazione, lui si trasformerà lentamente in uccello. Non più un uccello fatto di scotch e di tubicini di plastica, ma un uccello vero di penne e piume. Giorno per giorno, con il progressivo cedere del corpo, crescerà e si infoltirà la sua livrea, alla perdita di peso si accompagnerà l’aprirsi delle ali, allo schianto delle ossa la crescita del becco, vittoria estrema della bellezza sulla malattia, del sogno sul reale. Come per ogni Schlemiel anche a Tom Cloudman verrà restituita, un po’ alla volta, la sua dignità di creatura fiabesca barattando le cadute con una nuova grazia, gli equilibri incerti del suolo con l’eleganza aerea delle correnti. Per lui la disgregazione del corpo corrisponderà a un progressivo affermarsi della meraviglia, l'allentarsi dei legami con la quotidianità dell'ospedale alla  creazione di un nuovo ordine dei giorni e dei mondi. Fino all’ultimo slancio, alla trasformazione completa e al necessario dimenticarsi dell’uccello di essere stato un tempo uomo, partendo senza salutare chi è rimasto a terra, senza più voltarsi indietro. Così come è giusto che sia. Così come vorremmo che fosse per tutti coloro che abbiamo amato.

 

“L’eco di una remota coscienza mi invia segnali sconfortanti. Vorrei aiutarla ad aiutarmi, ma qualcosa in me viene meno. Il timone della razionalità si scioglie al sole e vado alla deriva. Il canto delle sirene invisibili risuona anche in pieno giorno. Lo odo più distintamente delle voci umane. Sento gli uccelli migratori anche prima di vederli e d’istinto canto con loro. Mi chiamano”.

 

Questo pezzo è apparso domenica 7 luglio su il manifesto

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