Evoluzione mediale e comportamenti sociali / Il regno dell'uroboro

17 Ottobre 2018

Viviamo online in modo paradossale. Non è mai esista una tale abbondanza di informazioni a rendere più trasparente il mondo, eppure molti dei processi algoritmici che governano Internet e i social media sono tutt’altro che trasparenti e rendono oscuro come diventi visibile ciò che vediamo. Online possiamo esercitare gradi elevati di controllo sul nostro racconto quotidiano, scegliendo le immagini e le parole con cui presentarci e decidendo con chi condividerli ed entrare in relazione; ma questi stessi contenuti diventano uno strumento di controllo nei nostri confronti da parte degli Stati (la lezione di Snowden è sempre attuale) e delle piattaforme che li trasformano in dati da mettere in relazione a fini di sorveglianza e predittivi.

 

Al centro di questo scenario c’è l’ambivalenza con cui viviamo la privacy, contenti che le nostre vite sbuchino da Facebook, Twitter e Instagram diventando visibili e condivise così da ottenere commenti e like e pronti a risentirci quando qualche imbarazzo privato inaspettatamente viene alla luce.

E anche su questo versante la nostra società vive un paradosso: di privacy “non ne abbiamo mai avuto così poca come da quado esistono norme, garanti e garanzie per proteggere i nostri dati personali”, come spiega Michele Ainis, costituzionalista e membro dell’Antitrust, nel suo “Il regno dell’uroboro” (La nave di Teseo). Perché, sostiene Ainis, le istituzioni non riescono a costruire una normativa capace di rispondere efficacemente alla combinazione tra: accelerazione delle tecnologie digitali con le corrispondenti trasformazioni in termini di possibilità comunicative; comportamenti sociali che hanno interiorizzato le forme di mediazione (e disintermediazione) delle relazioni sociali ed economiche e che portano ad aggregarsi attorno a piattaforme; una sorta di predisposizione antropologica connessa alla vita digitale che porta a preoccuparci poco della privacy a fronte dei vantaggi immediati che otteniamo nel creare profili che garantiscono navigazioni e servizi personalizzati e gratuiti.

 

Potremmo dire che siamo psicologicamente e socialmente indotti a dare il consenso alle piattaforme, a permettere di trattare i nostri comportamenti online e i nostri contenuti sotto forma di dati da raccogliere, accatastare e usare per una possibile profilazione a fini commerciali o di propaganda: “ogni contatto, ogni ricerca, ogni giudizio che ti scappa via su un social network si trasforma in merce, e la merce sei tu stesso, sono i frammenti della tua identità” (p. 50).

È una realtà quella descritta che mette al centro del funzionamento dell’Internet delle piattaforme una logica dei “filtri” che selezionano per facilitare la personalizzazione dei servizi e delle informazioni che ci interessano, finendo per chiudere gli utenti in “bolle” in cui la probabilità di incontrare le opinioni che già si condividono è sempre più alta e che tengono selettivamente al di fuori la diversità. Questa prospettiva ha ricadute innegabili sui meccanismi democratici fondati su un fluido scambio di idee e su quella che è la democrazia deliberativa.

 

 

Il contesto che Ainis descrive è quello di una bubble democracy in cui “le correnti d’opinione si muovono in sciami dalle traiettorie imprevedibili e cangianti, alimentate per lo più da una carica di risentimento, non dal sentimento” (p. 70). Il riferimento alla polarizzazione della politica è qui più che evidente ed è palpabile per ogni lettore che si sia imbattuto nella circolazione di memi controversi, in discussioni su Facebook che tracimano nell’hate speech, in bufale che sono oggetto di sharing compulsivo perché, per quanto false, sanno rappresentare la condizione di risentimento e rabbia meglio di dati scientifici e notizie ben informate. Usando una buona analogia Ainis spiega come le eresie abbiano una funzione di aggregazione e collante sociale superiore all’ortodossia e, possiamo aggiungere, la loro forza eversiva ha capacità di iniettare dubbi sistemici che mettono a rischio la struttura stessa della democrazia.

Quella delle fake news e della propaganda non è una realtà nuova nell’ambito della società in generale e della politica in particolare, la novità è data dall’intrecciarsi di diversi elementi che rendono la scala, la velocità e la magnitudo di questi fenomeni decisamente più rilevanti: le caratteristiche architetturali della Rete che, essendo policentrica, rende più facile e capillare la propagazione e più complesso strutturare forme di frenata e rettifica; le tendenze algoritmiche alla diffusione di ciò che risulta più condiviso, scambiandolo con ciò che è condivisibile; la sfiducia generalizzata rispetto a una serie di intermediari istituzionali, compresi i legacy media.

 

È all’interno di questo circuito che “le nostre aspettative sui fatti finiscono per sostituirsi ai fatti”, celebrando l’era della post-verità.

Ainis descrive in modo colto e documentato questo contesto in cui evoluzione mediale e comportamenti sociali si relazionano, correlandolo a uno scenario più ampio che vede i cittadini man mano uscire da una comfort zone democratica (se mai ci fosse stata!), in cui i corpi intermedi, come ci insegna la politologia, sono saltati e le “capocrazie” – forme di leadearismo più o meno estreme – caratterizzano una politica disintermediata. Una strada che secondo l’Autore è punteggiata da una condizione di solitudine dell’uomo contemporaneo caratterizzata da “un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto” (p. 106). Una tesi questa già esplorata dalle posizioni alla bowling alone di Robert Putnam o della “solitudine del cittadino globale” di Zygmunt Bauman, che mostrano il dissolversi della comunità e l’indebolimento del capitale sociale. Riflessioni che però devono tenere conto di una realtà diversa – che Internet e i social media modellano ma non determinano – che è fatta di comunità networked, frutto di profonde trasformazioni sociali, costruite attorno a rapporti specializzati mediati comunicativamente, in cui gli individui si muovono attraverso reti multiple agendo separatamente nei propri network per ottenere informazione, collaborazione, ordini, supporto, sociabilità e senso di appartenenza – come spiega ad esempio l’analisi sul networked individualism di Barry Wellman. 

 

D’altra parte il quadro tratteggiato da Ainis vuole dipingere quello che è il “regno dell’uruboro”, conducendoci, per metafora, a una figura chiusa a cerchio che rimanda all’idea di auto-referenza. Auto-referenza della politica, auto-referenza legislativa e auto-referenza dell’individuo, che fa delle nuove reti sociali in cui è immerso – anche attraverso Internet – la sua gabbia dorata.

Non è qui questione di pessimismo o di ottimismo ma di capire se e come queste letture possano essere funzionali a una fondata critica dell’attuale condizione politica e delle vite connesse.

 

La caduta delle ideologie e dei corpi intermedi non è, ad esempio, correlabile alla perdita di capitale sociale e alla solitudine di massa (sottotitolo del libro). Lo spiega Putnam nel suo lavoro con Feldstein Better Together quando afferma che “il capitale sociale “non rappresenta un’alternativa al conflitto sociale, ma un modo per rendere produttive le controversie”. D’altra parte il moltiplicarsi di aggregati online razzisti e xenofobi, per non parlare di comunità connesse antiscientiste, sono l’espressione di nerwork sociali in qualche modo coesi: il capitale sociale può essere utilizzato anche verso scopi moralmente ripugnanti, non ha un orientamento puramente etico.

In definitiva il peccato originale di questo agile volume sta nella sua forza, quella di parlare in modo chiaro a un pubblico italiano di lettori che in qualche modo rappresentano una élite, sia per la scelta del genere saggistico sia perché il lettore di libri è sempre più una nicchia mediamente benestante e matura che probabilmente condivide generazionalmente con Ainis le preoccupazioni per le trasformazioni che vede prodotte dal digitale. Sono gli stessi lettori che partecipano a un dibattito pubblico che in Italia è sempre stato piuttosto povero e che vive di suggestioni giornalistiche, pronte a cogliere e divulgare solo alcuni aspetti della ricerca scientifica relativa al digitale e ai comportamenti sociali relativi. Dibattito che tende a essere polarizzato nei legacy media riconducendo le posizioni in campo a tecno-ottimismo o a tecno-pessimismo, cadendo quindi nello stesso limite che viene attribuito ai contesti online.

 

Non che le preoccupazioni di Ainis non siano condivisibili, ma le condizioni di possibilità che generano il contesto attuale e le ragioni dei fenomeni che esplora meritano di essere comprese più alla radice.

Quello che stiamo affrontando, a mio parere, è una frattura epistemica che non può essere compresa cercando continuità e discontinuità con la condizione precedente, ad esempio confrontando verità e post-verità, democrazia e democrazia elettronica, free speech e hate speech. O meglio lo si può fare ma a condizione che si colga il fatto che questi non sono altro che sintomi di una differenza di valori e atteggiamenti che si è prodotta tra gruppi sociali: pensiamo a quella fra globalisti e sovranisti, e che ha prodotto universi culturali non solo distinti ma che confliggono tra loro. La verità, la politica, la tecnologia sono tutti terreni di scontro tra semantiche diverse, fra forme diverse di rappresentazione del mondo che gli individui utilizzano come terreno espressivo per la propria identità e per costruire grumi sociali e vischiosità in una società raccontata come liquida.

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