Anniversari / Eduardo De Filippo, la cucina d’arte

15 Gennaio 2021

Deve cuocere quattro o cinque ore, forse di più. All’inizio si mettono nella casseruola un pezzo di carne, le spuntature, olio, sedano e cipolla tritati. Poi si aggiungeranno il vino bianco e il concentrato di pomodoro, magari fatto in casa, asciugato al sole fino a ridurlo quasi a una marmellata. Questo è il ragù secondo Eduardo De Filippo. Quello che punteggia uno dei suoi testi più famosi, Sabato, domenica e lunedì; quello che riempiva con l’odore di cipolla soffritta la sala appena si entrava in teatro, nella versione di Toni Servillo con Anna Bonaiuto. 

 

I nipoti di Eduardo in cucina alle prese col ragù.


Col ragù si apre e si conclude, in una grande tavolata familiare, un film proiettato il 9 gennaio scorso su Rai 1 a tarda ora, Il nostro Eduardo, prodotto da 3D Produzioni con Andiamo Avanti Productions, Sky Arte e Fondazione Eduardo De Filippo, con il soggetto di Didi Gnocchi, la sceneggiatura di Didi Gnocchi, Tommaso De Filippo, Maria Procino e Matteo Moneta e la regia di Didi Gnocchi e Michele Mally. All’inizio compaiono i nipoti del grande uomo di teatro, Matteo, Tommaso e Luisa, i figli del figlio Luca, scomparso nel 2015. Poi si dipana la storia personale e artistica di Eduardo, la nascita, figlio illegittimo di un altro famosissimo attore (che da Eduardo e dai suoi fratelli si farà sempre chiamare ‘zio’), Eduardo Scarpetta, l’erede di Antonio Petito, vale a dire della tradizione napoletana. Si ripercorrono gli esordi artistici di De Filippo, prima nella compagnia di Vincenzo Scarpetta, poi con il fratello Peppino, che in seguito da lui si separerà, e con l’adorata sorella Titina, nella compagnia “Teatro Umoristico I De Filippo”; se ne raccontano gli amori, le tre mogli, Dorothy Pennington, Thea Prandi, Isabella Quarantotti. Se ne ricordano i successi, i sogni, come quello di creare un teatro stabile d’arte a Napoli, i film realizzati per pagare i debiti contratti per sostenere quel suo teatro, il San Ferdinando, le opere della maturità e della vecchiaia. Alle sue vicende si intrecciano quelle della famiglia, del figlio Luca, che debutta al suo fianco piccolissimo e che continuerà la tradizione di attore; la scomparsa della figlia Luisella, a causa di un incidente sulla neve, a soli 11 anni; gli intrecci familiari, gli abbandoni, i lutti. 

Il tutto è raccontato con documenti filmati e fotografici d’epoca, con lettura di testi e con molte testimonianze di persone che collaborarono con Eduardo o che variamente lo incontrarono. Scorrono il genio, l’osservatore della realtà che si ispirava andando ad assistere ai processi alla povera gente nel tribunale di Napoli, il capocomico rigoroso, che chiedeva a tutti i membri della compagnia un impegno senza deroghe, fino ad apparire ad alcuni spietato nella sua severità. Riconosciamo che per lui il teatro era simile a una fede, come etica disciplina di sguardo sul mondo.

 

 

Le origini

 

Il filmato traccia un ritratto umano e artistico a tutto tondo: certo, con la velocità di una sintesi che si svolge in poco meno di due ore, trascurando alcune zone della sua produzione, specie quella succeduta ai testi più noti del dopoguerra. Ma ci sono tante notizie e un ritmo che fanno venire la voglia di tornare alle opere, ai documenti, alle polemiche d’epoca; di rileggere, di approfondire.

Questa, in fondo, può essere la funzione degli anniversari (nel 2020 cadeva quello dei 120 anni della nascita di Eduardo), quando non sono stanchi rituali: riaprire casi, riesaminare figure artistiche o anche semplicemente ricordarle, specie in quel mondo effimero che è il teatro, dove la memoria ha un respiro che spesso si esaurisce al dissolversi della presenza. 

Eduardo, a differenza di altri artisti di teatro del Novecento, ha consegnato la sua figura in modo costante a testi ben strutturati, ancora rappresentati in tutto il mondo, e a vari documenti filmici realizzati per la televisione. La sua memoria, quindi, possiamo dire che è ancora particolarmente viva, più viva che per altri perlomeno. Ma dietro le opere c’è l’uomo e il film ci presenta un uomo straordinario, innamorato con devozione totale del teatro, del pubblico, artista che crede nella missione di scavare a fondo nella realtà senza compromessi; c’è il poeta e c’è il padre che ama i figli ma che deve andare in scena sempre, anche poco dopo la morte dell’amata Luisella; c’è il capocomico che sul modello del teatro pubblico d’arte di Grassi e Strehler cerca, senza successo, di scalfire l’apatia della politica napoletana costruendo a proprie spese un teatro e una compagnia stabile di repertorio, la “Scarpettiana”, indebitandosi fino a dover abbandonare il teatro per un periodo per onorare gli impegni economici assunti con i più alti compensi del cinema. C’è il drammaturgo, che fa del dialetto, con la sua concretezza, la lingua per i corpi teatrali, che mescola le carte, la farsa, la tragedia, la riflessione dolorosa, il dramma familiare. Che dà voce ai traumi del dopoguerra e poi della ricostruzione e del boom, cercando di proporre una società diversa, rimanendo stordito, nei suoi personaggi, dalla mancanza o dalla difficoltà della volontà di comunicare. C’è in lui, in Natale in casa Cupiello, in Napoli milionaria, in Filumena Marturano, l’annuncio e un’originale declinazione del neorealismo, che torna di forte attualità in questi nostri tempi di iperrealismo; c’è un filone incantato, che crede per convenienza ai fantasmi o per convinzione o autodifesa non si spaventa dell’ingenuità; ci sono riti di accusa sociale feroce e di disincantata catarsi come nelle Voci di dentro; ci sono acuminate riflessioni sulla famiglia come luogo di incomprensioni, come in Mia famiglia e Bene mio e core mio; c’è un nuovo pirandellismo che annuncia una società sradicata da sé stessa e c’è una riflessione costante sull’arte dell’attore, particolarmente organica a una società che ama mettersi in scena come quella italiana, dove però tutti vogliono giocare il ruolo di protagonisti, spesso senza ascoltare coro e comprimari. C’è infine, come osserva nel film Anna Barsotti, curatrice delle opere di Eduardo per le edizioni Einaudi, l’umorismo, la comicità: “A differenza delle lacrime che sono emotive e che quindi fanno perdere la consapevolezza allo spettatore, la comicità è una specie di grimaldello per penetrare nel cervello degli altri e farli pensare”. 

 

 

Il San Ferdinando

 

C’è in Eduardo un secolo, il Novecento, percorso nei suoi risvolti più intimi, ma anche, a ben guardare, più pubblici. Tanto che, amato da grandi artisti rabdomanti come Carmelo Bene e Pier Paolo Pasolini in vita, posposto negli anni della contestazione a un autore napoletano più sanguigno e considerato più popolare come Raffaele Viviani, subito dopo la morte con il suo teatro diventa tavolozza anche per artisti nati nell’avanguardia, che tornano con le sue parole e le sue visioni a provare a dipanare una realtà fatta ancora, nonostante le trasformazioni avvenute, di odore di ragù e di finzioni, di avidità, di rappresentazioni autocompiaciute, di inautenticità. 

E allora nel 1989 abbiamo il ‘nuovo’ Eduardo di Ha da passa’ ‘a nuttata di Leo de Berardinis che mescola personaggi e situazioni dalle sue commedie, affrontate come un’unica opera-mondo di temi, di individui, di atmosfere, di nodi esistenziali, sottraendolo alle visioni di maniera. Abbiamo gli Eduardo neri di Alfonso Santagata e quelli di Toni Servillo (che con Leo recitava in Ha da passa’ ‘a nuttata), sismografi di transizioni nel costume nazionale dispiegati con affetto e profondità. Abbiamo il Natale in casa Cupiello reinventato, bellissimo, di Antonio Latella, un vero viaggio e saggio a enucleare la modernità spigolosa e dolente di Eduardo, e quello tutto versato su un’unica nota – metafisica? – con corredo oleografico di neve di Sergio Castellitto per la regia di Edoardo de Angelis. A teatro e in televisione, abbiamo visto di recente Il sindaco del rione Sanità aggiornato ai tempi di Gomorra di Mario Martone. L’eredità dell’autore, soprattutto, è stata portata avanti con dedizione e personale fantasia dal figlio Luca de Filippo e poi, alla sua scomparsa, dalla compagna Carolina Rosi con Gianfelice Imparato, ultima tappa di una vicenda d’arte che risale a Eduardo Scarpetta, che proprio quest’anno conosceremo meglio in un altro film con Toni Servillo e con la regia di Mario Martone.

 

Scopone con Titina.


Il nostro Eduardo ripercorre le liti con Peppino, il rapporto con le tre compagne, in diversi periodi della vita, le vicende personali, l’amore per i figli, esemplificato in una poesia per Luca, che tratteggia anche la trasmissione d’arte:

 

Si te veco: me veco.

Si mme vire: te vire.

Si tu parle, c’è l’eco

e chist’eco song’i.

Si te muove: me movo.

Si te sento: me sento.

Si me truove, te trovo…

Si me trovo, si tu!

 

Mostra dolori e meraviglie, come quel ragù, come tutta la sua cucina povera raccontata dall’ultima moglie, Isabella Quarantotti, nel libro Si cucine cumme vogli’ i’ (Guido Tommasi editore, 2001), dove si parla anche di “Spaghetti a vongole fujute”, ossia solo con aglio e olio, senza le vongole, piatto dei tempi di miseria ricordato nel documentario.

 

Con la terza moglie, Isabella Quarantotti.


Paola Quarenghi, che col linguista Nicola De Blasi ha curato l’edizione critica delle opere teatrali di Eduardo per i Meridiani Mondadori (2000-2007), in occasione di questo anniversario, ha scritto, per un libro a cura del critico Giulio Baffi: 

 

Dietro quei testi traspariva in filigrana la storia del Novecento, un romanzo teatrale lungo un secolo, per dirla con Giuseppe Montesano, che prende il posto nella nostra cultura di quei cicli letterari alla Balzac e alla Zola che l’Italia non ha mai conosciuto. Dietro ogni variante (termine asettico della filologia, che si presta male a definire il moto marino della drammaturgia di Eduardo), facevano capolino attori, successi e insuccessi, straordinarie intese e rotture clamorose, scioglimenti di compagnie, interventi della censura, strategie messe in atto per poter sopravvivere e continuare a lavorare, cambiamenti nel gusto del pubblico e trasformazioni sociali piccole e grandi. In una parola, la vita; quella vita che per Eduardo era coincisa completamente con la passione allo stesso tempo condivisa e solitaria per il teatro. Prendevano così significato per me le parole misteriose condensate in un suo celebre aforisma: “Lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”; o per dirla con le parole di un altro grande scrittore: “viene voglia di concludere che il teatro non sia un genere letterario ma un genere di vita, un modo di arrivare alla verità per tentativi che coinvolgono l’esistenza”.

 

Le ho chiesto un commento al film e mi ha scritto: 

 

Grazie alla prospettiva originale di un racconto intimo e interno alla dimensione familiare, l'Eduardo di Gnocchi-Mally si scrolla di dosso, allo stesso tempo, il gesso della monumentalità e i colori dello scandalo, per assumere un aspetto più umano, meno severo, spesso tenero e affettuoso. E viene fuori il ritratto, attraverso le epoche e le generazioni, di una grande famiglia, sicuramente difficile, come la definì Peppino in una scandalosa autobiografia, ma certamente originale e geniale, i cui componenti non sono figli delle parole crociate (citazione da Gli esami non finiscono mai), ma "sono", come dice Paola Ermenegildo nel documentario. Una famiglia anomala che c'è, quando ci deve essere, come ricorda scherzosamente la genealogia a figure animate degli originali titoli di coda.

 

E l’altra studiosa, curatrice delle opere di Eduardo, Anna Barsotti, ci ha regalato sul film quest’altra riflessione di sintesi:

 

Il nostro Eduardo è appunto una rievocazione, da parte di una famiglia allargata, non come quella d’origine del padre/zio Eduardo (Scarpetta), ch’era una famiglia-compagnia teatrale. Allargata in senso moderno, dove i tre giovani eredi, figli del figlio Luca che ha raccolto il testimone, hanno scelto strade diverse; sebbene Tommaso presieda la fondazione che gestisce il patrimonio artistico del grande nonno e ne continua la missione a favore dei ragazzi reietti. I tre nipoti vanno via via alla ricerca della personalità e della biografia (meno artistica che umana) di questo nonno d’eccezione, scortati anche da Carolina Rosi, capocomica della compagnia “Luca De Filippo”. Originale la struttura: dalla preparazione del pranzo – con le ricette eduardiane – al suo conclusivo compimento corale, accogliente tutte le generazioni, verticali, orizzontali e oblique. Ben organizzato il montaggio dei frammenti di interviste (a testimoni, attori e registi, maestranze, critici teatrali, uno psicologo e qualche studiosa) con il più copioso, interessante, materiale audio-visivo. Belle le immagini, fra cartoons e spezzoni di repertorio persino rari. Ma la prospettiva più azzeccata è quella che nell’incipit, dopo scene dai suoi funerali (“punto di partenza” non “d’arrivo”), ci mostra l’attore-autore e regista che prende posto in platea per essere – come diceva – “spettatore di sé stesso”, e nell’explicit lo fa ritornare parlando a Taormina/Arte del “gelo” e “sacrificio” di una “vita” con cui ha fatto e “si fa teatro”! Per poi salutarci dal “paradiso dei teatranti” (Fo), col trucco facciale e il frac del Varietà, rovesciando beffardo il finale imposto dagli invidiosi, e reinterpretando giocosamente davanti al suo pubblico vero la parte del finto morto, in Gli esami non finiscono mai.

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