Tra cinema e letteratura / Dovlatov, le sigarette e l'underground sovietico

7 Dicembre 2021

Sergej Dovlatov (1941-1990) è stato uno scrittore sovietico (almeno per appartenenza cronologica) di origine ebraico-armena, vissuto non senza difficoltà in URSS ed emigrato negli Stati Uniti nel 1978.

 

Lo scrittore Sergej Dovlatov.

 

Il film a lui ispirato, Dovlatov, produzione russo-polacco-serba per la regia di Aleksej German junior (in italiano il titolo si arricchisce di una discutibile integrazione “i libri invisibili”), ha debuttato alla Berlinale del 2018 dove è stato insignito dell’orso d’argento per il miglior contributo artistico. Immediatamente dopo la prima berlinese ha fatto la sua comparsa sugli schermi russi; inizialmente la proiezione era stata prevista soltanto per quattro giorni, dall’1 al 4 marzo 2018, ma visto il successo (il film sarebbe arrivato in Russia a contare 396.413 spettatori) ne fu autorizzato il prolungamento fino all’11 dello stesso mese.

 

 

Il manifesto russo del film.

 

 

Il manifesto italiano del film.

 

La pandemia impedì la sua circolazione nei cinema italiani e solo il 4 novembre di quest’anno è approdato alla distribuzione nel nostro paese. Data non casuale, omaggio alla festa dell’unità nazionale russa eliminata dal calendario bolscevico nel 1917, reinstaurata da Putin nel 2005 e celebrata a pochissima distanza dalla vecchia data “rossa” del 7 novembre (anniversario della Rivoluzione d’ottobre) non più festa nazionale (sempre per decreto putiniano) e ambiguamente sovrappostasi a lei nell’immaginario e nella coscienza collettiva.

 

 

Non trascurabile coincidenza se si pensa che alla base del film sta proprio un’accuratissima ricostruzione di atmosfere e mentalità sovietiche e che la storia dello scrittore protagonista è quella di molti intellettuali che proprio dalla censura sovietica e dalle sue vessazioni erano stati costretti al silenzio, all’accettazione di compromessi o addirittura all’emigrazione.

Il film è già quasi scomparso dalle programmazioni nelle sale italiane, ma offre non convenzionali occasioni per ragionare sullo scrittore e sulla rievocazione di ambienti e situazioni che hanno costituito quanto oggi è passato alla storia e viene studiato come underground sovietico. I racconti di Sergej Dovlatov per quanto da tempo reperibili in italiano, tradotti e curati da Laura Salmon per Sellerio, restano conosciuti da un pubblico piuttosto ristretto e gradita è l’occasione cinematografica che porta a rifocalizzare l’attenzione su uno scrittore di considerevole portata. Forse proprio a questo è dovuto il sottotitolo italiano che mira a fornire qualche indizio in più allo spettatore non necessariamente documentato.

 

L’emigrazione di Dovlatov del 1978 prima a Vienna, poi negli Stati Uniti, in virtù dell’autorizzazione a lasciare il paese concessa da Brežnev agli ebrei, seguì di qualche anno quella dell’amico Josif Brodskij forzatamente avvenuta nel 1972 in seguito alla privazione della cittadinanza sovietica, conseguenza della condanna per parassitismo. Brodskij e Dovlatov condivisero la bohème leningradese costituita da intellettuali, trafficanti al mercato nero, alcolisti che si dipanava tra incontri negli atelier degli artisti, notti nelle cucine degli appartamenti, letture poetiche, sedute nei caffè non conformisti, serate musicali, frustranti anticamere nelle redazioni delle riviste culturali, rifiuti da parte dei redattori, storie d’amore chiosate da mille sigarette, centinaia di bicchierini di vodka e altrettanti bicchieri di tè. Il film si concentra su sei giornate della vita dello scrittore nel 1971 simbolicamente scelte tra quelle che precedono le festività del 7 novembre, all’epoca ricorrenza rituale e celebrata con solennità nell’intero paese dei soviet. Gli anni in cui, dopo il cosiddetto disgelo chruščëviano, iniziarono a comparire zamorozki, le “gelate” che avrebbero segnato pesanti marce indietro brežneviane rispetto alle illusioni di apertura e rilassamento della gestione precedente del potere.

 

Dovlatov e i suoi amici appartennero a quella generazione che dal carisma e dal fascino rivoluzionario sovietico aveva preso consapevoli distanze e che, senza rientrare nella categoria dei dissidenti, aveva sposato la causa dell’a-sovietismo, più che dell’anti-sovietismo. Un atteggiamento che portava i giovani a vivere come ignorando le convenzioni della retorica e dell’ideologia, non rispettando le asfittiche regole comportamentali, trasgredendo per quanto possibile le imposizioni dottrinali dominanti. I biografi parlano di una giovinezza sregolata. Aggettivo che va interpretato alla luce del contesto specifico: il giovane giornalista Dovlatov era indisciplinato e mal tollerava i limiti e le prescrizioni che le redazioni letterarie e giornalistiche imponevano. Il suo sguardo sulla società sovietica era quello che avrebbe trovato sfogo nelle sue pagine: ironico, disincantato, sarcastico, tragicomico. Caratteristiche che la cultura letteraria dell’epoca non poteva tollerare.

 

Totalmente assenti nella sua prosa erano gli eroi positivi, il pathos, la retorica, le glorificazioni del regime. E i suoi scritti non trovavano spazio nella produzione ufficiale dell’epoca. Non stupisca che un film dedicato a cotanto personaggio abbia goduto del sostegno del Ministero russo della cultura, del Fondo per il cinema russo e del governo di San Pietroburgo. L’attuale posizione della Russia putiniana nei confronti del passato sovietico è assai peculiare, come dimostra anche la scelta relativa alle festività a cui si è fatto accenno in precedenza. I trascorsi rivoluzionari-leninisti, il bolscevismo più sovietico sono guardati con un certo imbarazzo (addirittura si è arrivati a mimetizzare il mausoleo di Lenin durante le celebrazioni sulla piazza Rossa), mentre di maggior favore godono paradossalmente gli anni staliniani. Grande attenzione è stata riservata all’epopea della vittoria nella Seconda guerra mondiale e anche i crimini del dittatore georgiano, in virtù del suo contributo alla grandezza della Russia, sembrano essere finiti in secondo piano. Dovlatov e le sue disavventure col regime possono essere interpretati come le gesta di un libero pensatore non esplicito oppositore del regime ma artista insofferente dei vincoli che un’ala ottusa del potere imponeva. Tutto discutibile, ma in linea con il discorso governativo russo contemporaneo. Allo stesso tempo è difficile non leggere le vicende narrate nel film in parallelo a molte situazioni che nella Russia di oggi richiamano inquietantemente da vicino i meno nobili interventi sovietici in termini di censura e vessazioni riservate agli intellettuali.

 

I sei giorni di cui si narra non costituiscono una biografia tradizionalmente intesa dello scrittore, né una messa in scena di sue opere. Sono piuttosto un’occasione per tornare a ragionare su tempi e realtà socio-culturali, sconosciute oggi ai più giovani anche in Russia, e fautrici di impalpabili e multiformi nostalgie per chi di anni ne abbia qualcuno in più. Nessuno si aspetti un attendibile ritratto dell’autore, nonostante alla sceneggiatura abbiano collaborato sia la ex moglie che la figlia di Dovlatov e il ruolo dello scrittore sia stato interpretato da uno strepitoso Milan Marić, attore serbo scelto dal regista per evitare che più noti volti di attori russi potessero in qualche modo condizionare negli spettatori la ricezione del personaggio.

 

L’attore serbo Milan Marić nella parte di Sergej Dovlatov.

 

Si parla piuttosto di un’ombra del reale Sergej che si muove in una Leningrado livida, dalle luci e dai colori pastello filtrati come attraverso una bruma, ancora non imbiancata da una suggestiva coltre nevosa ma sferzata da gelida pioggia che talora assume il fantasmagorico aspetto di precoce tormenta di neve. Un freddo novembre in cui i giovani alternativi, sfidando il clima, si aggiravano immancabilmente senza colbacchi o copricapo di sorta, con i cappotti slacciati e il collo scoperto. Suscitando impensieriti interventi delle vecchiette (è capitato anche a me) che fermavano gli scapestrati per strada raccomandando che si vestissero opportunamente per evitare malanni. Dovlatov era stato sposato e aveva una figlia grandicella, molto più matura e saggia del padre nelle sequenze cinematografiche che la coinvolgono, nonostante desiderasse ancora una bambola grande che il padre non sarebbe mai riuscito a comprarle. Ci si sposava giovani in Unione Sovietica e con altrettanta facilità ci si lasciava e si divorziava per magari sposarsi di nuovo e ricominciare daccapo. Nella ridda dei coetanei non conformisti dello scrittore è presenza costante, tratteggiata con stile e discrezione, la figura del poeta Brodskij, futuro premio Nobel, ma all’epoca ancora alle prese con le difficoltà di sopravvivenza, artistica e civile, e la difesa di ideali ardui da sostenere.

 

 

E la rievocazione dei tormentati Settanta sovietici inizia e perdura per tutti i 126 minuti di proiezione. Tanto calligrafica e filologica da destare qualche apprensione. La ricerca di oggettistica e capi d’abbigliamento originali coinvolse i cittadini di San Pietroburgo e si estese al resto del Paese. Le scene traboccano di cose e dettagli tanto autenticamente sovietici da far pensare a una volontà di didascalica documentazione sulla storia della cultura materiale socialista. Sarà la mia deformazione professionale, ma l’impeccabile e costante attenzione a far sì che in ogni circostanza non mancassero quegli oggetti che dovevano essere stati presenti a ogni costo nell’originale rende l’insieme persino troppo perfetto, innaturale nella sua compiutezza assoluta.

 

Questa è l’unica critica che mi sento di rivolgere al film. Le cravatte così marcatamente sovietiche, la ridondanza di bicchieri a faccette (oggi feticci di memoria bolscevica), i porta bicchieri colmi di tè, gli abiti e i visi delle comparse, le tappezzerie sulle pareti sono a tal segno evocative da rimandare più a un museo di memorabilia dei soviet che a un reale appartamento, ufficio, studio d’artista. Allo stesso modo i gesti comportamentali che colmano la narrazione suscitano quasi tenerezza per l’attenzione con cui sono ricostruiti: lo spiluccare (zakusit’) cibi vari (cosa se non la scatoletta di šproty, pescetti affumicati del Baltico, e la cipolla con tanto di germogli?) per accompagnare la vodka ingollata come da copione a bicchierini. E poi la colonna sonora che cita Okudžava e la stagione dei cantautori a fianco dell’immancabile e trasgressivo jazz, le onnipresenti sigarette, di marca Drug (amico) con il cane sul pacchetto, all’epoca già mitizzate, fumate a ripetizione fanno pensare che al regista stesse più a cuore ricreare atmosfere d’antan che non raccontare la storia di uno scrittore in particolare.

 

Limite tangibile di questa situazione è che la vita dei giovani inakomysljašćie (pensatori alternativi) pare giocarsi tra sedute notturne cultural-conviviali, frequentazioni di bar e peregrinazioni in giro per le redazioni di case editrici e riviste alla ricerca di un riscontro professionale. Assente è qualche pur minimo tratto di quotidianità piatta e ammorbante, per certo meno coinvolgente e più banale, ma che avrebbe alleggerito la pellicola di quell’aura di ritualizzazione mitologica di un’epoca che a mio modo di vedere non le giova del tutto.

A chi volesse iniziare a scoprire il Dovlatov scrittore suggerisco di cominciare con La valigia, racconto dedicato proprio alle cose che lo scrittore-emigrante decide di portare con sé quando lascia il Paese. A ogni oggetto corrisponde una storia, una persona. E la sua scelta, non facile e fonte di ponderazioni e ripensamenti, è anche un breve e intenso saggio di cultura sovietica.

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