Modelli di imprenditorialità / Impresa culturale: datti una regolata!

25 Ottobre 2017

Se esiste un’impresa culturale, figuriamoci se non si può parlare di una cultura (giuridica) dell’impresa culturale. Il che significa parlare di regole istituzionali e sociali, formali e informali, ortodosse o atipiche, convenzionali conformiste controintuitive che siano. A patto che da qualche parte si veda un’impresa, a maggior ragione se fa parte di un più ampio tessuto connettivo, si tratta di reti cognitive, hub innovativi, distretti culturali, filiere produttive o mercati comuni. Ha senso discuterne proprio perché è tale appartenenza che perlopiù si riscontra, a partire da un esercizio professionale di attività economiche organizzate al fine della produzione di beni o servizi (ossia di impresa: art. 2082 c.c.). Sicché, per un giurista che abbia a cuore la sostenibilità delle attività culturali, specialmente creative, – ciò che significa garantire loro libertà di mezzi, fini e contenuti – è inevitabile occuparsi di modelli organizzativi interimprenditoriali: cioè di impresa e di sistema. Impresa…non semplice, d’altronde a questo serve il diritto dell’economia. La partita è complicata ma va giocata. Ne parlavo qui.

 

L’imprenditorialità culturale ha caratteristiche tutte sue: si sviluppa tipicamente all’interno di filiere produttive, organizzandosi secondo le regole del diritto privato, e al contempo subisce le influenze della filantropia finanziaria pubblica e privata. Inoltre, si avvale dell’indirizzamento e del sostegno delle fondazioni e gode di agevolazioni nazionali e comunitarie. La progettualità che essa manifesta discende dalle strategie proprie di gruppi societari, reti di imprese o distretti industriali, dalla pianificazione culturale proprie di amministrazioni locali o settoriali, sia pure basandosi primariamente sull’estro innovativo individuale e su fondamenta creative, le cui espressioni iniziali hanno spesso carattere artigianale. Le finalità di gran parte delle iniziative creative sono, a loro volta, private e pubbliche, ma in larga misura socialmente condivise, e (quasi) tutte meritorie. Elemento questo che sollecita l’adozione di modelli di organizzazione, e sistemi di governo societario (corporate governance), rappresentativi di una pluralità di contributori e apportatori di interessi (stakeholders). Nella maggior parte dei casi, infine e purtroppo, si riscontra la frequente difficoltà di autori/creatori/innovatori, e delle loro imprese, di raggiungere una condizione di autonomia finanziaria nella produzione dei beni e servizi che costituiscono l’offerta culturale.

 

Queste caratteristiche – modalità collettiva della realizzazione di opere dell’ingegno, pluripartecipazione ai modelli di governo societario e interimprenditoriali, problematica sostenibilità finanziaria dei progetti artistici e innovativi – derivano tutte dalla natura immateriale delle risorse utilizzate per esercitare attività creative di contenuto culturale. Ce lo insegnano gli economisti della cultura, spiegando che: (1) si tratta di risorse di cui è inizialmente complesso o costoso appropriarsi; fatto che (2) incentiva una ricerca intersoggettiva di raccolta del patrimonio intellettuale, il cui successivo utilizzo può dar luogo (3) a forme di opportunismo postcontrattuale (cioè di approfittamento del soggetto economicamente più forte) e (4) a fenomeni di arroccamento cognitivo attorno alle risorse acquisite; (5) il cui ultimo, ma non meno rilevante effetto, può manifestarsi nel condizionamento del contenuto stesso dell’offerta culturale, se la sua pianificazione è subordinata alla convenienza di ottenere finanziamenti per valorizzare le iniziative realizzate e massimizzare il guadagno conseguibile dal loro collocamento sul mercato, anziché dalla più rischiosa alternativa di programmare e intraprendere innovazioni ulteriori; anche quando si prescinde (6) dal computare il filtro spesso conformista apposto dagli intermediari (critici d’arte, consulenti, mecenati, eccetera), oltre che (7) dalle logiche abitudinarie che nella stessa direzione possono muovere le istituzioni politico-culturali, se per una ragione o un’altra preferiscono, anziché aggiornarli, consolidare gli schemi di organizzazione e di comportamento delle imprese che sfruttano le medesime risorse cognitive e sono soggette a regole comuni.

 

L’impostazione che condivido è che la creatività artistica e innovativa si sviluppi sulla base di un processo non atomistico ma consequenziale, che conduce a sbocchi non solipsistici ma culturalmente relativi, socialmente condivisi, e – per fortuna ma non per caso – replicabili. Il “salto intuitivo”, da cui l’apporto creativo ha luogo, è esclusivamente individuale, certo, e gli esiti di tale sbocco sono diversamente apprezzabili (o disprezzabili). Ma sotto il profilo cognitivo, che viene per primo, mi convincono gli argomenti secondo cui la creatività non può riassumersi solo nell’istante e nell’atto di comprensione e ideazione da parte dell’autore. In un saggio dell’anno scorso  ho apposta indagato le dimensioni endo ed eso-imprenditoriali di diffusione della creatività. Insomma, la prospettiva che ho adottato, trattando di regolazione delle imprese culturali, è che il processo creativo sia spiegabile muovendo in un alveo mediano tra l’approccio riduzionista e l’approccio meccanicista, a cui usualmente si ricorre per spiegare i meccanismi di manifestazione della creatività, e si rafforzi grazie al contributo di fattori sia originali, sia incrementali. Questa opinione trova importanti conferme nelle scienze economiche e sociali che, prestando attenzione ai fenomeni dell’imprenditoria innovativa, studiano da tempo e con convinzione i processi sinergici e multifattoriali, sviluppati in contesti di co-opetition, proprio per rappresentare i meccanismi più efficienti e sostenibili di moltiplicazione della creatività.

 

 

In altri termini, ma per ribadire lo stesso concetto, credo necessario parlare congiuntamente di innovazione e di imprenditorialità, dato che questa combinazione, meglio di altre, può contribuire a diffondere modelli, specialmente reticolari e distrettuali, per la realizzazione di attività collettive di natura creativa. Tanto la prima quanto la seconda si affidano spesso a relazioni reticolari tra una molteplicità di soggetti, pubblici e privati, e al sostegno non solo finanziario, ma politico, strategico e imprenditoriale, del tessuto economico-sociale, al cui coordinamento giovano strumenti di programmazione negoziata (sia negoziali, sia istituzionali), volti a favorire la costruzione di consenso su obiettivi comuni, la definizione delle principali regole operative, i meccanismi di risoluzione di eventuali controversie: tutta roba giuridica. Ma l’elemento che rileva prima e forse più di così si colloca pur sempre a monte di tale esito organizzativo, e attiene anzitutto al piano cognitivo.

La riflessività regolativa, di cui mi occupo da tempo, costituisce il corollario organizzativo di tale impostazione teorica e il diritto dell’impresa ne è strumento privilegiato, idoneo com’è a proiettare l’attività creativa individuale su piani cognitivi collettivi, parametrando secondo il principio di differenziazione – la cui realizzazione è favorita dalla progressiva neutralità delle forme giuridiche – le modalità tecniche richieste per concretizzare ogni forma di innovazione, sia essa artistica o industriale; come ho avuto occasione di scrivere su queste stesse pagine.

 

La modularità del diritto societario può poi assecondare propensioni del genere assumendo, all’interno di un modello multistakeholder, soggetti in possesso di competenze più o meno inclini a favorire il conseguimento di risultati strategici (se ad esempio intesi ad aggredire dati segmenti di mercato), organizzativi (se volti alla riduzione dei costi produttivi) o politico-ideali (se funzionali a realizzare beni o servizi di valore culturale generale). Trattandosi di una struttura pluripartecipata, importeranno i processi di selezione degli stakeholder, che prema accogliere nelle compagini proprietarie, amministrative o di controllo interno; e può darsi il caso che la società intenda connettersi ad altri poli produttivi di una rete o di un distretto comune ricorrendo a forme di organizzazione multilivello (siano esse istituzionali, societarie o contrattuali).

 

Tale struttura, come – ancora – ci insegnano gli economisti, può infine essere connotata in senso olografico o ideografico, a seconda che si prediliga un approccio creativo basato sul conflitto e il confronto tra apporti cognitivi provenienti da soggetti diversi per formazione culturale, competenze tecniche e predisposizione innovativa. O a seconda che si preferisca un loro sviluppo parallelo e separato, in vista di una combinazione in fase produttiva. Oppure, ancora se risultino opportune forme organizzative miste o sfumate che premino la prospettiva mediana (tra l’approccio meccanicistico e quello riduzionista) a cui ho accennato.

La trasmissione dei significati simbolici dei beni creativi e innovativi, precondizione per aprire prospettive sia alla loro produzione condivisa, sia alla loro commercializzazione, richiede che le imprese culturali concordino sugli strumenti regolativi da utilizzare congiuntamente per mediare, portare a coerenza e connettere le conoscenze necessarie per l’attività produttiva (in tutto o in parte) comune. Obiettivo che si realizza – ed è questo il punto centrale – non già smussando le specificità operative di ognuno, o sforzandosi di normalizzare gli effetti patologici destinati comunque a verificarsi nelle relazioni tra tutti, ma enfatizzando la differenziazione, e creando le condizioni affinché si riconoscano le rispettive identità imprenditoriali.

 

Il dato di progressiva neutralità delle forme giuridiche e la tendenza alla modularità dei modelli organizzativi, ai quali ho accennato e di cui scrivevo anche qui, gioca a favore dello stesso risultato. Infatti, l’attitudine valoriale e la capacità imprenditoriale a produrre beni o servizi meritori e collettivi non impone la non lucratività dell’ente che eserciti tale attività. Ma prima ancora, la forma giuridica mantiene un preciso senso regolativo, consentendo di costruire modelli di corporate governance articolati in base agli assetti organizzativi che rendono unica e preziosa – ma non per questo “eccezionale” – l’impresa culturale.

 

Nella prima parte di questo articolo scrivevo che è importante che la veste organizzativa di un’impresa culturale, più di quanto valga per altri tipi di imprese, dia forma e sostanza alla sua figura giuridica. Insomma, quest’abito fa il monaco (e d’altra parte: non è sempre così?). Risultato qui ottenibile, sfruttando gli strumenti del diritto dell’impresa, oggi più che mai. Il perché lo ricaviamo da almeno due recenti fattori evolutivi del diritto, specialmente commerciale: (a) la progressiva emersione, nei sistemi di corporate governance, di fattori regolativi appartenenti per tradizione alla strumentazione economico-aziendale; (b) il ruolo dell’autoregolazione societaria se essa è integrata a modelli organizzativi che aiutano la rappresentazione programmatica delle buone pratiche che l’impresa intende adottare nei propri rapporti interimprenditoriali, puntando alla replicazione virtuosa della “memoria” interna e al consolidamento delle relazioni fiduciarie con l’esterno.

 

La natura cognitiva, sia delle risorse di cui si servono le imprese culturali, sia delle loro attività, spiega perché è così importante adottare una prospettiva regolativa peculiare (alla quale accennavo anche qui). Cruciali, come sempre nell’analisi giuridica dell’economia, sono i frangenti di conflitto (tra i soci, tra costoro e i propri partner, e più in generale nei rapporti tra impresa e stakeholder), dato che è qui che si misura davvero l’efficacia delle scelte regolative. La fluidità del patrimonio intellettuale condiviso tra operatori culturali favorisce infatti la possibilità di pervenire, persino nelle ipotesi di conflitto, a compromessi anche distanti dalle posizioni assunte inizialmente, tramite processi di interazione euristici e adattativi ben conosciuti da chi si occupa di teoria dell’organizzazione; processi preziosi perché si basano, a loro volta, su un esercizio di creatività. Con ciò intendo la capacità di raggiungere esiti inattesi perché inducono conflitti premianti, secondo una prospettiva di co-opetition eclettica ma non irragionevole, anche se non catturabili dai paradigmi classici della scelta razionale. E sono processi che confermano, appunto, l’analoga natura intellettuale delle risorse necessarie per svolgere attività creative, e dei beni che tali attività realizzano.

 

Queste sono dinamiche comprovate, nel settore culturale. Basti pensare alle decisioni di coproduzione prese con propensioni contestuali, ma potenzialmente distoniche. Come di fatto si rivelano quelle motivazionali, ad esempio quando s’intende collaborare in base alla comunità di intenti e alla stima reciproca. O quelle economico-organizzative, ad esempio, quando si punta a ottimizzare autori e creatori talentuosi, competenti o comunque preziosi per l’impresa, che si vuole aggregare per realizzare un dato progetto.

In questi casi è frequente che, pur in presenza di esigenze conosciute ex ante, che di per sé possono sospingere verso date scelte organizzative (tra quelle immaginabili: l’interesse dell’impresa culturale a collaborare con un autore per ragioni di prestigio, l’opportunità di condividere oneri finanziari e burocratici in ragione degli elevati costi del progetto, la necessità di procacciarsi un partner disponibile a/per diversificare le proprie linee di produzione, l’allargamento del bacino di riferimento commerciale), la decisione sia presa seguendo attraverso mosse di arretramento, concessione, compromesso e soprattutto tramite l’accettazione di risultati parziali che tuttavia favoriscano più parti da punti di vista originariamente non preventivati. Come l’acquisizione della reputazione, quando la propensione iniziale sia principalmente di ordine economico; o il rafforzamento del potere di mercato, se invece in un primo tempo l’interesse volga soprattutto alle ricadute eminentemente culturali della partecipazione al progetto; e così via.

 

Si tratta – esattamente – dei processi che seguono le traiettorie laterali (od oblique) dell’adattamento cognitivo, secondo scenari relazionali basati sul cambiamento progressivo, persino radicale, delle posizioni originarie. Non sono cioè meri compromessi razionali, ossia scelte di natura esclusivamente egoistica e strategica. Come succede in ogni relazione fiduciaria, infatti, in condizione di carenza di opzioni modulate secondo i paradigmi di scelta razionale, i soggetti agenti all’interno di sistemi economici microsociali sono propensi ad alleviare il proprio stato di dissonanza decisionale con inconsapevoli, ma oggettive, propensioni cognitive di interiore normativizzazione, e di conseguente pratica, di comportamenti cooperativi.

 

Naturalmente è plausibile che ciò accada quando in partenza si riscontrano più tipi di interdipendenza tra le imprese cultuali. Perché sì, esistono forme di interdipendenza differenti. Ad esempio, a seconda che ogni impresa dia un contributo paritario (interdipendenza comune), o se esso costituisca la base o la risorsa per il lavoro altrui (interdipendenza sequenziale), se l’apporto sia complementare (interdipendenza intensiva), o infine quando il contributo di ognuno dipenda almeno parzialmente da quello dei cooperatori (interdipendenza reciproca).

Ora: se il valore degli apporti non è frazionabile, come accade in tutti questi casi, risulta a sua volta problematica la definizione dei diritti di proprietà, tipicamente intellettuale, sugli esiti parziali delle fasi produttive. Sicché rileva l’attribuzione ad enti o soggetti terzi, per così dire intermedi, del ruolo di assegnazione dei diritti collettivi, che possono essere inclusi nello schema organizzativo. A maggior ragione tale assetto risulta decisivo nelle ipotesi in cui il bene creativo, come è vero per tante rappresentazioni artistiche, nasca da un processo i cui apporti siano singolarmente valutabili, mentre il prodotto finale non sia di per sé esistente una volta e per sempre (si pensi a un qualsiasi spettacolo dal vivo), e quindi commercializzabile in via continuativa; ma lo sia solo se tale processo possa essere interamente replicato (sperando che, sera dopo sera, vada tutto bene).

 

Il ruolo dell’autoregolazione, come sostengo da tempo, è spesso trascurato, ma cruciale. I modelli di cui mi sono occupato recentemente hanno il pregio di modulare norme primarie e secondarie, formali e informali, attraverso procedure di accordo su dati principi, presi a riferimento, in modo tale che quell’accordo svolga una funzione non solo regolativa, ma anche di segnalazione della diversità di ciascuna impresa culturale (leggasi: unicità).

Insomma le pratiche di autoregolazione si legittimano, prima ancora di ricevere legittimazione da altre fonti dell’ordinamento, proprio perché incorporano i principi fondamentali per l’impresa (ad esempio: produzione di beni meritori, applicazione di buone pratiche organizzative, natura nonprofit dell’attività, responsabilizzazione sociale della gestione, governo democratico della società). Inoltre, esse filtrano e connettono il diritto proveniente da altre fonti giuridiche, ma non per questo lo uniformano, e perciò non conducono a un’indistinzione valoriale. Infine, gli strumenti di autoregolazione di rete e di distretto, se connessi alla struttura aziendale e alla fisionomia statutaria dell’impresa, contribuiscono ulteriormente ad armonizzare interessi apparentemente contrapposti. Per un verso, l’interesse a creare punti di convergenza nella trama regolativa che aggrega più agenti economici, costruendo fiducia e aspettative di affidabilità anche laddove le pratiche consuetudinarie non coprano interamente il piano operativo comune. Per altro verso, l’interesse a differenziare, cioè a rendere identificabili e concorrenziali, i modelli di auto-organizzazione societaria adottati da ciascuna impresa culturale, e con ciò i loro interessi. Detto altrimenti: una consapevole autoregolazione può sorreggere in modo equilibrato, e più stabile di quanto avvenga in altri settori economici, le propensioni alla cooperazione e alla competizione di autori e cooperatori culturali.

 

Per chiudere il cerchio e concludere davvero: la disciplina delle attività creative richiede che siano forti, anzitutto, i legami tra vision e mission culturali dell’impresa, e la costruzione della strategia economica della loro implementazione. Inoltre la disciplina delle attività creative richiede che siano forti le rispondenze e la coerenza reciproca tra le fasi di programmazione, organizzazione e conduzione societarie, che è il diritto commerciale a regolare.

 

Infatti, la direzione di un’impresa culturale non è intesa solo a definire le linee di gestione dell’impresa, ma soprattutto a estrapolare le competenze cognitive dei soggetti coinvolti nel processo creativo. Tanto è vero che, dal lato teorico, è riconosciuta l’importanza di concepire vision e mission culturali organiche e aperte alle sollecitazioni esterne. Dal lato pratico, sono applicate strategie economiche di valorizzazione degli apporti dei partner come contributi idealmente individuali e collettivi.

Per questo risulta specialmente appropriato, nella prospettiva della disciplina giuridica delle attività culturali, proporre modelli organizzativi forgiati secondo i principi di riflessività regolativa e di interimprenditorialità. Qui infatti, come non vale per alcun altro settore economico, è stretto il nesso tra l’impresa intesa come comunità della pratica e del lavoro, e l’impresa intesa come soggetto giuridico e organismo economico.

Sicché viva l’impresa, e vivrà la cultura.

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