Web apocalittici e Social integrati

26 Marzo 2014

La marcia trionfale di Internet dagli anni 90 fino ai giorni nostri ha ripopolato il mondo di apocalittici e integrati distogliendoli dall’intorpidimento dovuto all’overload televisivo. Anche se le pagine web assomigliavano a disordinati lenzuoloni, la rete era avanti. Nelle chat, nei forum e nei newsgroup la discussione divampava, coinvolgendo i soggetti più disparati. Loschi figuri, casalinghe annoiate, venditori di fumo proliferavano unitamente ai soliti appassionati di cinema, letteratura, computer o giardinaggio alla ricerca delle affinità elettive.

 

Di fronte a uno scenario di questo genere, il mondo si divideva, costringendo, come si diceva, gli intellettuali ad alzarsi dal divano minimalista in cui erano sprofondati. Tutto avveniva secondo il copione scritto nel 1964. Apocalittici profeti di sventura annunciano la fine del mondo, preconizzano terrorismo e pornografia, avvertono sui rischi di perdita del senso del tempo e dello spazio, ammoniscono sui pericoli di straniamento e promiscuità sessuale, proprio mentre i loro colleghi integrati si consumano in apologie della liberazione dell’uomo-massa, pontificando sull’imminente democratizzazione del mondo, su nuovi modelli di socialità e di relazione, sull’accessibilità di strumenti e risorse ai popoli più svantaggiati.

 

Questo chiacchiericcio ottiene un risultato notevole, quello di riportare la discussione sui massimi sistemi e resuscitare le grandi narrazioni obliate dall’ubriacatura postmoderna. Che il mondo vada a scatafascio o si diriga verso l’assoluta felicità, ciò che conta è che queste due retoriche affiliano schiere di militanti in cerca di un orizzonte di esistenza, di un senso della propria vita, trasformandosi in ideologie del nostro tempo.

 

Stefania Rocca Viol@

 

Prendiamo in considerazione un film. Marta è una ragazza bellissima e integratissima, perfettamente inserita nello stereotipo anni 90 di inanellatrice di opposti. Di giorno fa l’intervistatrice gelida e vincente ma di notte non disdegna di improvvisarsi perlustratrice di bassifondi mediatici hardcore. Per caso, si imbatte in una chat erotica e da lì comincia la sua discesa agli inferi. Marta, nel frattempo trasformatasi in Viol@ (che al film dà il titolo), sperimenta, così, tutta la trafila: prima dissimula ironico distacco, poi inizia un rapporto esclusivo con il chattatore di turno, finché non giunge alla dipendenza.

 

Tutto ciò la porterà, manco a dirlo, a fare cose strane, tipo montarsi il pc al cesso (di lì a poco la diffusione dei pc portatili avrebbe risolto il problema), esibire il proprio corpo (i piedi, come da migliore tradizione internettiana, fanno da apripista), sperimentare il cybersesso, prestarsi a sfide e prove d’amore escogitate con il solo obiettivo di affermare il primato della relazione online su ogni altra cosa. Il tutto sempre procrastinando l’incontro con l’agognato spasimante.

 

Parallelamente, in questo itinerario, cresce l’alienazione, il lavoro comincia ad andare male, il povero fidanzato non riesce a reggere il passo con il suo cyber-rivale, perfino gli amici vengono allontanati (fareste mai salire il vostro migliore amico in una casa allestita come un voluttuoso set fotografico?). Fino alla devastazione: l’incontro con il suo corrispondente si rivela, infatti, un’inutile e perfida truffa ordita da un ragazzino in preda ai bollori adolescenziali che mai avrebbe potuto trasformarsi in un “vero” fidanzato offline. Marta/Viol@ si ritrova così sconfitta e avvilita dall’avere sacrificato tutto in nome di un fantasma.

 

Apocalittico non c’è che dire, specie se guardato 16 anni dopo la sua uscita, da uno scenario in cui si utilizza Internet perfino per pagare le bollette e scambiare due chiacchere con i propri vicini di casa.
Dall’altra parte della barricata, gli integrati. Per esempio, Nicholas Negroponte che, seguendo un’indicazione di McLuhan (annunciare la rivoluzione mediatica attraverso un medium vecchio), diventa popolare per un libro, Being Digital (1995), scritto per spiegare i vantaggi della svolta informatica. Egli pone una metafora fondativa distinguendo due orizzonti, l’uno fatto di atomi e l’altro di bit. Il mondo dei bit, nella sua visione, si propone come leggero e flessibile strumento di affrancamento dell’umanità dalla dipendenza dagli atomi. Celebre l’esempio della biblioteca che, una volta convertitasi al digitale, può condividere i propri libri via Internet, superando i limiti imposti dall’ordinario prestito librario.

 

Nicholas Negroponte

 

Negroponte all’apice della sua carriera molla tutto e si dedica a un progetto, “One Laptop per Child”. Piuttosto che concentrarsi sulla realizzazione della biblioteca digitale che aveva immaginato così precocemente, si occupa dei computer, da produrre a milioni e da distribuire ai giovani studenti dei paesi poveri del mondo colpiti dal digital divide. Quello che ne vien fuori è un mostro. Un piccolo laptop, carrozzato in gomma, dai colori fluo, allestito con tecnologia obsoleta (doveva costare al massimo 100 dollari), passato alla storia dei fallimenti tecnologici meglio riusciti per il fatto di essere munito di generatore elettrico a manovella. Inutile dire quanto questo esperimento si sia rivelato inadeguato sia in termini economici che dal punto di vista dei risultati ottenuti.

 

Ecco, quindi, il determinismo tecnologico emergere dallo spirito filantropico: per risolvere il problema dell’accesso (Rifkin), non si possono, come gli integrati lascerebbero intendere, valutare soltanto gli aspetti tecnologici della questione senza tenere in considerazione le articolate dinamiche dell’ambiente socio-tecnico su cui si vuole intervenire.

 

social

 

Circoscritta la portata ideologica di simili iniziative, si pone il problema di come trattare la complessità dello scenario mediatico e tecnologico che abbiamo di fronte. Per non cedere agli infausti presagi degli apocalittici e limitare i danni di guru ed evangelisti internettiani si può sempre, seguendo l’insegnamento di Eco, rifiutare di assumerne le attestazioni come pacchetto completo, continuando caparbiamente a considerare i media all’interno di quell’orizzonte culturale che essi negano per principio, annunciandone la morte in nome di un’ideologica fine della storia.

 

Sospendere il giudizio, assumendosi il rischio di entrare nel merito delle differenze, comparare, valutare caso per caso, rimane, l’unico antidoto per non soccombere alla sterile quanto infinita dialettica fra apocalittici e integrati.

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