Martin Amis. L'invasione degli Space Invaders

15 Luglio 2013

Arrivato in Italia dopo un'attesa lunga trent'anni, il libro di Martin Amis è più di una semplice guida per vecchi glorie da MoMA. Un po' trattato sociologico, un po' manifesto generazionale, L'invasione degli Space Invaders offre l'opportunità di rivivere un pezzo di cultura videoludica per molti versi ancora attuale. "Improvvisamente sembra che il nostro pianeta sia caduto nelle grinfie degli alieni. Nei pub, nei bar, [...] nelle gelaterie, nelle sale d'attesa dei dentisti [...] si può assistere allo spettacolo sfavillante di mille incontri ravvicinati. [...] L'invasione degli ultra corpi, La notte dei morti viventi, Destinazione...Terra! non sono film, ma storie di tutti i giorni" (p.14), così Amis descrive la proliferazione di chiassosi cabinet e losche sale giochi.

 



Anno 1982. Gli sparatutto spaziali sono all'apice del successo, anche se Space Invaders (1979) è già retrogaming per inguaribili nostalgici (p.75). L'industria sforna nuovi cabinet più potenti, più performanti, più belli, ricchi di effetti visivi e sonori e rimescola gli elementi distintivi del genere per continuare a sfruttare un filone proficuo. Una giovane Nintendo naviga controcorrente sostituendo astronavi e alieni con personaggi dallo stile cartoonish che Amis snobba – avete presente l'operaio che in Donkey Kong (1981) deve salvare una donna "[...]che ricorda Oliva di Braccio di Ferro"? (p.144). Le console domestiche hanno da tempo sferrato l'attacco agli schermi domestici, ma parlare di conquista è impensabile. Gli handheld device sono i progenitori delle attuali console portatili. Gli home-computer? Nel libro non ve n'è traccia.

 

Arcade Room

 

Dichiarando un'ossessione per cabinet, sale giochi, monetine e shoot'em up, Amis tocca in volata diversi temi: dipendenza, criminalità, violenza e degrado. Tra aneddoti personali e notizie che hanno spesso dell'incredibile, lo scrittore riesce a restituire una foto, non sempre a fuoco, del complicato rapporto tra videogiochi e opinione pubblica. Sia chiaro: siamo di fronte a una trattazione che non ha alcuna pretesa di rigore (nei contenuti e nelle forme), né la voglia di andare oltre la superficie di quanto passa in rassegna. Pertanto, per chi sentisse il bisogno di contestualizzare ed espandere i termini di questa relazione problematica, il consiglio è guardare altrove.

 

"Video Games: Inverted Pleasures" (Australian Journal of Cultural Studies, 3:1, 1985) può considerarsi un'ottima integrazione. Nel loro saggio, John Fiske e Jon Watts spiegano che videogiochi e sale giochi sono "oggetti" problematici per il loro essere punto di convergenza di esigenze opposte: da una parte, il desiderio di controllo sociale espresso dai "non giocatori"; dall'altra la possibilità per i giocatori di rigettare il controllo sociale senza però minare le strutture di quella stessa società di cui fanno parte. Per i due ricercatori si tratta anche di una questione tecnologica tra uomo e macchina. I videogiochi "position the player in interaction with a machine (the reference point for this is clearly the production line) and they position him in front of an electronic screen like that of the television set" (p. 90). Tuttavia, nei videogiochi " the human/machine interaction produces not goods for the material well being of society, but a resistance, a kind of sense/identity for the machinist" (p. 90). In questo rapporto, il giocatore (the machinist) "is not paid, but pays, for the use of the machine" (p. 91). Per farla breve, la relazione uomo/macchina è da intendersi come metafora della società industrializzata e di un sistema di produzione tangibile fondata sulla sinergia "programmata" tra i due attori.

 

Nel videogioco arcade questo equilibrio si inverte: non solo mancherebbe quella concreta produzione di merci in grado di generare il benessere socialmente auspicabile, ma la sinergia tra gli attori lascerebbe il posto alla pura competizione. Il giocatore paga per resistere alla macchina. Più è bravo, più diminuiscono i profitti per il sistema: "Games players have frequently reported to us the satisfaction of making 20 or 40 cents last for hours—and our own experience of playing witnesses the depth of this satisfaction. For the player is frequently consciously aware that in resisting the machine he is asserting his interests against those of the owner. The longer his 20 cents lasts, the greater his pleasure at 'beating the system'—in the all encompassing sense that the phrase has in the vernacular. Not putting more coins in the slot, the pleasure of not paying for pleasure, is a grasping of economic and temporal control." (p.94)

 

Insert Coin

 

Questa digressione su controllo, resistenza, produzione e soggettività consente di leggere sotto una luce diversa persino lo sforzo di Amis verso il tema dell'espressività del medium – qui inteso come strumento di emancipazione per una nuova generazione di tecnofili. Giochi come Space Invaders sono stati corsi di alfabetizzazione informatica propedeutici alla realizzazione di quel progresso che oggi viviamo. Questa posizione può essere portata a livelli ancora più estremi. Secondo Steve Jobs, scrive Amis: "I computer rappresentano una vetta tra le più alte del pensiero occidentale. Uniscono fisica, elettronica, chimica e matematica a logica, filosofia e teoria dell'informazione. E gli individui che lavorano con i computer hanno un'enorme passione per la scoperta e l'innovazione [...] hanno la stessa purezza di spirito dei monaci" (p.66). Se si adotta questo punto di vista, attività "produttive" quali il cheating, l'hacking, il counting sarebbero tutte espressioni di una ostinata ricerca del "senso della vita" (p. 66) o il modo per apprendere e metabolizzare la schematizzazione di un mondo (e del pensiero) organizzato per algoritmi e simulazioni (fail, learn, repeat).

 

The Last Starfighter

 

Con gli anni, i riti, i luoghi e i modelli della fruizione videoludica sono cambiati: le sale arcade hanno abdicato in favore di altri ritrovi (virtuali), consegnandosi così alla storia per le meritate celebrazioni.
Anche le coordinate dello scontro con il "sistema" sono cambiate. "Greetings, Starfighter. You have been recruited by the Star League to defend the frontier against Xur and the Ko-Dan armada", recitava il cabinet di The Last Starfighter ogni volta che Alex Rogan inseriva la monetina – ignaro del fatto che quella guerra interstellare fosse tutto fuorché una simulazione (The Last Starfighter, Nick Castle, 1984).

 

Nulla di così diverso rispetto a quanto accaduto durante le recenti manifestazioni in Turchia. Un articolo apparso qualche settimana fa su Kotaku riferiva di giovani manifestanti scesi in piazza dietro lo slogan "You are messing with youth who grew up fighting police in Grand Theft Auto" (si veda Twitter).

 

 

In Turchia, linguaggi e pratiche videoludiche sono diventati il background comune per le azioni di una generazione di giovani (attivisti) che "trust their games more then they trust the TV or the newspaper. While our parents turn to the TV to learn what’s going on, we look at Twitter. Games, game writers and designers helped shaped who we are. Quests, factions, alignments and morality scales helped this generation form their ideas about the world". Questo Amis non lo aveva  previsto.



 

E gli Space Invaders? Che fine hanno fatto? Nel 1998, approfittando della nostra distrazione, hanno deciso di attaccare in massa puntando Parigi. Pare avessero un complice. Tale Invaders. Brillante, no?
 

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