Scrivere / Bernardo Atxaga, Obabakoak

17 Gennaio 2021

«– Qualcuno vive –, pensai».

 

I racconti si scrivono e possono classificarsi in molti modi e successive variabili di detti modi: si va dal racconto breve a quello molto lungo, dal racconto autobiografico a quello fatto di pura invenzione, dal racconto sperimentale (vedi, ad esempio, Barthelme) a quello tradizionale (vedi i russi come Čechov o Babel') a quello che ha modificato e integrato questa tradizione (vedi Hemingway e, successivamente, Carver, Paley, Hempel), fino ad arrivare al mondo del racconto magico e stupefacente sudamericano (e qui andiamo da Silvina Ocampo a Roberto Bolaño, solo per fare due nomi); ed è soltanto un elenco brevissimo delle modalità di approccio e di gestione della storia breve. L’aspetto interessante e bello di questo tipo di narrazione e che l’orizzonte delle sue possibilità non si esaurisce praticamente mai, rinnovandosi di anno in anno, rovinando le previsioni di chi sostiene che il racconto abbia pochi lettori – soprattutto in Italia – e che sia un genere che non abbia più nulla da offrire. Le novità sono costituite anche da autori che non conoscevamo, perché mai pubblicati o non più pubblicati. È il caso sorprendente di Bernardo Atxaga e del suo ObabaKoak (21lettere, 2020, traduzione di Sonia Piloto Di Castri), libro di racconti uscito per Einaudi negli anni novanta e a me ignoto; la pubblicazione coraggiosa da parte dell’editrice 21 Lettere mi ha consegnato un autore straordinario, una maniera ancora diversa di scrivere il racconto breve, e uno dei libri più belli del 2020.

 

«A volte crediamo che le cose siano di per sé stesse grandi o di per sé stesse piccole, e non ci rendiamo conto che quello che chiamiamo dimensione non è altro che un rapporto fra le cose».

 

Atxaga è con ogni probabilità il maggior scrittore in lingua euskera, ovvero quella in cui si scrive e si parla nei territori baschi. Vincitore di numerosi premi, tra cui anche l’italiano Mondello e il Premio Nazionale delle Lettere del Ministero della cultura spagnolo, è uno scrittore eccezionale, con una padronanza di stile fuori dal comune. ObabaKoak non è una comune raccolta di racconti è qualcosa di più. Atxaga mette la lingua – poco conosciuta – e il racconto stesso, come arte, al centro della narrazione, facendo sì che la pura invenzione richiami in continuazione lo scrittore trascinandolo nella pagina, che la memoria intervenga con tutta la sua importanza, che le parole si rinnovino di volta in volta, siano quelle di un incipit o siano le precise, le sole, che possano chiudere un racconto e la storia che tutto il libro pare voler tenere insieme. Le vicende di ogni singola novella sono apparentemente slegate l’una dall’altra, eppure sono tenute insieme con insolita maestria da Atxaga, con un filo sottile e misterioso, che dapprima non si vede, ma lentamente compare e tesse una relazione tra tutti i personaggi, tra il senso stesso del racconto e l’autore. Insomma, lo scrittore basco scioglie l’arte della scrittura breve in ogni storia, dicendo di un posto e di bambini donne e uomini che a un singolo luogo si legano; scrive del racconto, della sua solidità e importanza, scrive del linguaggio da conservare e rinnovare, scrive che ogni storia perduta – cancellata – diventa un pezzo di una comunità sepolto per sempre.

 

«Cos’era il mondo? Era impossibile saperlo, ma perlomeno sembrava immenso, illimitato, sia nel tempo che nello spazio».

 

Le storie sono divise in tre gruppi dai macrotitoli: Infanzie; Nove parole in onore del paese di Villamediana; In cerca dell’ultima parola. Sono introdotte da Atxaga con un prologo scritto come in versi e da una nota conclusiva che si legge come un ulteriore racconto. Il primo e importante segreto del libro è racchiuso dal prologo, dove l’autore basco scrive: 

 

«Obabakoak; questo libro che ora vede la luce

 Nella città di Levi, di Arpino e di tanti altri,

è uno degli ultimi della biblioteca basca.
È stato scritto in diverse case e in diversi paesi, 

e il suo unico tema è la vita in generale. 

E Obaba è Obaba, un luogo, uno scenario; 

Ko sta per “di”, A è il determinante; K, il plurale; 

La traduzione letterale: gli o le di Obaba.

La traduzione non letterale: Storie di Obaba.

(E per un prologo, con ciò è tutto)».

 

L’incipit di questo prologo è «Scrivo in una lingua strana», e precisa che le forme verbali, la struttura, le preposizioni non hanno sorelle da nessun’altra parte e in nessuna lingua del mondo, né antica né moderna. La prima cosa, perciò, è la storia di una lingua e dell’importanza di non perderla, di non costringerla a tacere, soppiantata dalla grammatica nazionale. Ora, salvare una lingua non è una cosa di cui sentiamo parlare per la prima volta, l’elemento nuovo nel caso di Obabakoak è un altro, più significativo: l’euskera viene salvata senza essere incatenata alla tradizione, ma liberandola con l’impeto delle leggende che non esauriscono mai la loro forza, passando – come si dice – di bocca in bocca. Atxaga salva l’idioma basco diluendolo nelle case, nei personaggi, nelle frasi che questi dicono, negli incontri che fanno, nel 

senso di ritrovamento e di perdita che li accompagna. Se Obaba è lo scenario, l’euskera è ciò che lo arreda, lo deforma, lo spiega e lo trasforma.

 

 

Un uomo seduto a un tavolo che dà su una finestra, da cui intuisce il tempo che cambia, la sera che scende. Un uomo colto e meticoloso, di nome Esteban, nella cornice della sua ricchissima biblioteca si accinge a scrivere, su uno dei suoi quaderni 

numerati rigorosamente, una storia che vuole assolutamente raccontare, una storia che ha che fare con Obaba e con Amburgo, risalente a molti anni prima. Quando scrive la persona che narra è la sua, quando si ferma torna personaggio e Atxaga lo mette a fuoco, lo colloca non solo nel tempo in cui scrive, ma nell’accaduto e nell’accadrà. Comincia così la sezione Infanzie, capiremo quale sia il mondo racchiuso in Obaba, il dominio della religione cattolica su una piccola comunità chiusa; le paure e le delusioni di un bambino, la sua riverenza nei confronti del padre; capiremo che l’inganno ha origini profonde e qualche volta non malevole. Vedremo, messe subito lì in prima pagina, le difficoltà del raccontare. Esteban, scrive, rilegge e cancella, confessa l’inutilità di quelle parole. Perciò il libro apre già con un metatesto, lo scrittore scrive di uno che scrive, di uno che si domanda, di uno che vuole dirci un fatto e per farlo deve ricostruire una corrispondenza, altri scritti ancora, una corrispondenza vera e falsa. Un racconto meraviglioso.

 

«Ormai mi aveva detto troppe volte che “vivere” e “cambiare” erano sinonimi».

 

In questa prima parte Obaba ci mostrerà la sua forza di luogo misterioso, circondato dalla natura, isolato, condizionato dal clima. Scorgeremo la vita di una maestra sola, catapultata nel posto, che insegna tra molte difficoltà logistiche, si perde in quello che riesce a cogliere e a strappare dalle vite degli altri. Vedremo un ragazzino che si trasforma in qualcos’altro per vendicarsi di chi lo ha preso in giro. Lettere ancora, scritte dalla maestra, scritte da un canonico. E poi leggeremo di chi è ossessionata dal rumore di un treno che ha portato via qualcuno, di dichiarazioni rese da una e poi da un’altra, come se fossero parti di un verbale, ma sono prosa, prosa potente. Le storie esistono, ma vanno immaginate, altrimenti restano in un luogo non accessibile a nessuno. Su questo processo creativo agisce il ricordo e interviene la lingua, si deposita la letteratura stessa generandosi come in uno scrigno, saltando fuori di matrioska in matrioska.

 

Nove parole in onore del paese di Villamediana, le nove parole che dirigono la seconda parte, sono nove tracce in una storia sola. Uno scrittore – di nuovo – fa visita a un amico internato in un ospedale psichiatrico; la memoria dell’amico caro si è cancellata, non riconosce nessuno, non più lo scrittore, piange, riconosce forse in quelle lacrime il proprio dolore. L’autore lascia che il lettore senta da sé questo dolore, la mancanza, la nostalgia che appartiene allo scrittore e all’amico, consapevole nell’uno, inafferrabile nell’altro. Lo scrittore interroga il medico dell’ospedale circa l’importanza della memoria, su cosa valga la pena ricordare, nove parole è la risposta del medico, nove soltanto. Qui entra in gioco l’isola di Villamediana con la sua luce, il suo silenzio, la sua routine, in una storia di mare, comprensione e solitudine declinata in nove parole.

 

La terza parte In cerca dell’ultima parola chiude il gioco con i due capitoli precedenti. Atxaga – attraverso una serie di complessi giochi letterari, e di storie che 

generano altre storie – si produce in una potente riflessione sul racconto, sulla sua importanza, su ciò che sia giusto scrivere e cosa omettere, su quanto tempo occorra per trovare l’ultima parola, quella che chiude il cerchio, che risponde alla prima, che spiega il mistero regalandone un altro a chi legge, sull’importanza della fantasia e del perché questa sia destinata a vincere e a propagarsi all’infinito se sostenuta dal linguaggio, dalla sintassi, dalla grammatica, dall’architettura. Tutto si tiene, ma nulla sta in piedi da solo. Questo terzo capitolo è fatto di piccoli universi, due amici si raccontano novelle in macchina, bilanciano incipit e chiuse, si fermano a bere e incontrano uno sconosciuto che narra loro un’altra storia, raggiungono uno zio per una domenica di letture, ed ecco i racconti che sono stati scritti, la forza dell’oralità e la tenuta della frase perfetta. Atxaga si interroga sulla necessità del racconto, su cosa e come si possa ancora scrivere e, francamente, incanta.

 

«Sono dell’opinione che la prima regola di un linguaggio letterario sia quella di non infastidire».

 

In chiusura, l’autore basco ci parla del gioco dell’oca, lo usa come similitudine rispetto ai racconti, sia il gioco sia le storie rappresentano un modo di intendere la vita. Spiega l’importanza di salvaguardare il linguaggio, di non smettere di cercare. Parla dello scrittore che nasce senza bagaglio letterario, perché la dittatura basca ha bruciato tutti i libri. E allora la tradizione va cercata altrove, le tue origini diventano Melville e Kafka e ciò che può salvarti sono la conoscenza e lo sviluppo continuo del linguaggio. Questo libro è una casa, non c’è una camera dove non si voglia restare almeno per un po’.

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